Vittorio Gassman nasce nella delegazione di Genova Struppa il 1 settembre 1922, cento anni fa. Il fascismo non aveva ancora creato la Grande Genova e Struppa era un comune autonomo immerso nel verde, situato nell’entroterra della valle lungo il torrente Bisagno. Il padre ingegnere lo porta ad essere nomade, a sei anni si trasferisce a Roma dove si forma come uomo, attore di teatro, cinema e divulgatore di testi fondamentali, grazie alla madre, Luisa Ambron che lo iscrive segretamente alla Accademia d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”. La figura di Gassman è anomala nel panorama italiano perché abbraccia tanti ambiti e conferma l’importanza del teatro nella formazione degli attori che poi andranno a interpretare ruoli drammatici e comici nei film del dopoguerra. Non vinse mai l’Oscar, nemmeno quello alla carriera, uno sgarbo al più grande degli attori italiani, proprio per la sua naturalezza nel passare, senza tentennamenti, dal Riccardo III all’Armata Brancaleone.

L’allestimento scenico di Ulisse e la balena bianca progettato da Renzo Piano, Genova 1992.

Dal dramma alla comicità, entra dentro ai ruoli con grande efficacia in una Italia diversa da quella odierna, povera ma piena di speranza verso il futuro. Genova, la sua città, gli rende omaggio con una intensa esposizione nel sottoporticato del Palazzo Ducale a cura di Alessandro Nicosia, Diletta d’Andrea Gassman, Alessandro Gassman. Il rapporto con la città fu sempre speciale. Nel momento della rinascita, dopo anni di crisi, con il recupero del porto antico, nel 1992, Gassman mette in scena Ulisse e la balena bianca, ispirato a Moby Dick di Melville, da lui scritta e diretta. La scenografia l’aveva disegnata l’amico Renzo Piano: una chiglia in legno, riferimento alla baleniera Pequod del capitano Achab, dove il pubblico si dispone lateralmente lasciando libera la tolda per la mise en scène dell’opera teatrale. “Durante la prova generale di Ulisse e la balena bianca-scrive il figlio Alessandro- l’imponente spettacolo che nel 1992 inaugurò le Colombiadi nel porto antico di Genova, con la scenografia kolossal di Renzo Piano, fece una solenne entrata in scena sorretto da un argano e accompagnato dalla banda che suonava la musica di Nicola Piovani. Mi chiese: Che te ne sembra? Io risposi ironicamente che avrei aggiunto i fuochi di artificio per far notare di più la sua presenza. Lui si divertì come un pazzo”.

Gassman ha rappresentato nel cinema l’italiano medio del dopoguerra, sbruffone e irriverente, dalla battuta sempre pronta, con una grande capacità di occupazione dello spazio, in teatro come sul set. La città è il luogo dove i suoi registi lo collocano. Nel 1962 gira Il sorpasso di Dino Risi, con Jean-Louis Trintignant. La strada sarà il fil rouge di tutto il film. Sceneggiato dallo stesso Risi con Ettore Scola e Ruggero Maccari, racconta del giovane  Bruno Cortona (Gassman) e di Roberto Mariani (Trintignant) in fuga da Roma in un viaggio senza meta, attraverso la Via Aurelia verso il mare della Maremma, a Castiglioncello per raggiungere, di avventura in avventura, la ex moglie Gianna (Luciana Angiolillo) e la figlia Lilly (Catherine Spaak). L’inizio del film vede una inquadratura di Gassman mentre guida la sua Lancia Aurelia B24S Spider,il sogno degli italiani, in una Roma deserta a ferragosto, i quartieri romani, Balduina, Trionfale…le saracinesche abbassate, i cartelli chiuso per ferie. L’idea del tempo che si è fermato, solo asfalto e sole accecante al ritmo della colonna sonora di Riz Ortolani.

Dino Risi racconta, in un’intervista del 2006, alla giornalista Irene Bignardi de La Repubblica, la genesi della sceneggiatura, nata dall’esperienza di vita del regista poi trasformata nel racconto filmico.

“Il primo viaggio l’ho fatto con un avvocato di Milano [l’avvocato Martello]. Era, anche, un produttore di cortometraggi con cui avevo girato almeno una trentina di corti. Un simpatico pazzoide. Era uno di quelli che correvano le Millemiglia. Era un innamorato delle donne. Ci vedevamo di tanto in tanto. E un giorno – ero appunto a Milano – mi ha proposto di andare con lui a trovare sua sorella a Varese. Non avevo nulla di particolare da fare, ero solo e ho detto sì. Arrivato a Varese mi ha detto, “sai cosa facciamo?, vado a comprare le sigarette in Svizzera”. A Lugano gli è venuta un’ altra idea: “ti porto a mangiare dal Principe del Liechtenstein”. In due ore di macchina siamo andati al castello del principe, dove lui ha presentato la tessera del tram di Milano, dichiarandosi giornalista, dicendo che aveva un appuntamento e che doveva intervistarlo. Conclusione: siamo stati invitati a colazione dai principi. E da lì è nata l’ idea di uno che viene travolto da un diavolo che se lo porta via». Il secondo viaggio ha portato Risi da Roma in Calabria, dove doveva girare un film, «sfortunatissimo» dice, con Anita Ekberg. «Sono partito con un produttore, Pio Angeletti, un tipo grande e grosso, travolgente, pazzo della Roma, che quel giorno era sempre attaccato alla radio a sentire la partita. Quando siamo arrivati a Tropea, dopo che Angeletti aveva spaccato la radio perché la Roma aveva perso, abbiamo scoperto che non c’era posto in nessun albergo, e abbiamo dovuto dormire insieme in macchina».

Il sorpasso incarna le ambizioni dell’italiano tipo, scaltro, belloccio, voglioso di avventure extra coniugali, al pari del coevo La voglia matta (1962) di Luciano Salce, con uno strepitoso Ugo Tognazzi nei panni di un ingegnere trentanovenne che perde la testa per Catherine Spaak, interprete di una giovane e spensierata Lolita; parafrasando il romanzo di Vladimir Vladimirovič  Nabokov, diventato best seller con il film omonimo di Stanley Kubrick proprio nel 1962. Questi due film rappresentano uno sguardo ironico e amaro sulla relazione tra i giovani e i padri negli anni sessanta. Ma è il modo in cui Gassman occupa lo spazio delle scene, un attore fisico, un attore del gesto e della mimica facciale. Diversi gli spazi in cui recita. Se ne Il sorpasso è la strada è centrale, con le inquadrature dei due protagonisti, sullo sfondo delle pinete maremmane, nei film di Mario Monicelli, I soliti ignoti (1958) e L’armata Brancaleone (1966), lo spazio è ancora diverso. Nel primo caso è la notte la condizione in cui agiscono i malintenzionati. Dapprima la città desolata preda dei ladri d’auto e poi gli interni notturni dell’appartamento confinante con il banco dei pegni ad essere il fulcro della narrazione. Appartamento da cui deve scaturire il buco nella parete per accedere alla stanza della “commare” (la cassaforte) che, in realtà, si verificherà un flop incredibile dovuto al cambiamento di arredamento tra una stanza e l’altra, da far confondere “i soliti ignoti” e sbagliare. Nel caso dell’armata Brancaleone, sceneggiato da Age e Scarpelli e Monicelli, lo scenario è quello del medioevo e di un paesaggio fatto di rocche e borghi nella Tuscia, nel viterbese. Ricalca, come conferma il regista lo stesso nastro narrativo de I soliti ignoti : “ma perché non facciamo un film sul medioevo tanto per ridimensionare l’immagine su questo periodo di disperati che nelle scuole invece descrivono invariabilmente come un’epoca di donzelle, paladini, paggi, castellani e mandole mentre era fatto di barbarie, ignoranza, sporcizia, fame e analfabetismo? Su questa idea di base nacque il soggetto. La ficelle, poi, fu sempre la stessa, quella tipo I soliti ignoti, di un gruppo di sprovveduti che tentano una impresa più grande di loro”.

La passione per l’arte in generale, non si manifesta solo con l’amicizia che lo lega ad un altro navigatore, Renzo Piano, ma anche per le sperimentazioni del geniale ingegnere Pier Luigi Nervi come dimostra la trasmissione di Anna Zanoli, in onda a metà anni settanta, per la regia di Luciano Hemmer, “Io e…” nella puntata “Io e…Vittorio Gassman” dove l’attore racconta la storia del Palazzetto dello Sport, realizzato da Nervi all’Eur nel 1957 insieme ad Annibale Vitellozzi. Gassman parla di architettura, di qualità dello spazio adatto alla rappresentazione della prosa e auspica che questa opera posso essere trasportabile. Forse per poter dare ulteriore vita al progetto del Teatro Popolare Italiano, fondato dall’attore nel 1960 e finanziato dall’impresario torinese Giuseppe Erba. Una calotta sorretta da una struttura metallica reticolare e mobile che di città in città rendeva il teatro accessibile a tutti. Un atto rivoluzionario, uscire dai grigi teatri tradizionali per riscoprire lo spazio pubblico. La prima opera rappresentata fu Adelchi del Manzoni al Parco dei Daini di Roma. Ma il teatro, com’era nel clima degli anni sessanta, era anche il luogo dei dibattiti e delle conferenze, come lo furono lo Space Electronic a Firenze ed i Piper di Roma e di Torino.

Vittorio Gassman che recita ossessivamente la Divina Commedia, interpreta Otello, Macbeth, ma anche Giovanni Busacca (La grande guerra),Bruno Cortona (Il Sorpasso) e Peppe er pantera (I Soliti ignoti), Brancaleone (L’armata Brancaleone), per citare i più noti, viene raccontato, nella mostra genovese, attraverso fotografie di scena, spezzoni di filmati da RAI Teche, costumi di scena, lettere private e sceneggiature. Un palinsesto ben organizzato e di grande intensità emotiva che consente di entrare “dentro” il mondo Gassman per definirne la grandezza e la sua poliedricità. Tuttavia tra gli eventi collaterali c’è il cinema ma non c’è il teatro. A Genova con la sua storia del teatro, una dimenticanza a cui, forse, si può porre rimedio per aiutare i giovani a comprendere la complessità di un intellettuale totale.

Emanuele Piccardo

7.7.22