Nel 2015, un dottorando dell’MIT di nome Matthew Rognlie pubblica un saggio scientifico intitolato Deciphering the Fall and Rise in the Net Capital Share: Accumulation or Scarcity?, nel quale si trova un grafico che dimostra come, tra il 1948 e il 2010, l’accumulazione netta di capitale in Paesi come gli Stati Uniti, il Canada, la Germania, la Francia, il Regno Unito, l’Italia e il Giappone, si debba principalmente al settore dell’edilizia, sottraendo il quale, il capitale netto accumulato nel 2010 sarebbe persino inferiore a quello accumulato nel 1948.

Il grafico di Rognlie dimostra dunque come il capitalismo sia legato a doppio filo all’industria delle costruzioni, e di conseguenza, ai processi di urbanizzazione. A tal proposito, scrive David Harvey in Rebel Cities che «nel corso dell’intera storia del capitalismo […] l’urbanizzazione è stata un mezzo fondamentale per assorbire le eccedenze di capitale e lavoro. [Tale mezzo possiede] una specificità geografica, tale per cui la produzione di spazio e di monopoli spaziali diventa essenziale per le dinamiche di accumulazione.» In particolare, tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo, la globalizzazione e finanziarizzazione del mercato immobiliare imprimono una forte accelerazione alla crescita urbana mondiale, che come è noto porterà alla crisi economica del 2008. In quegli anni, città come Dubai, Londra e Madrid crescono a ritmi frenetici, attraendo investimenti internazionali e trasformando profondamente il proprio tessuto fisico e sociale. Come scrive ancora Harvey: «La qualità della vita in città, e la città stessa, sono diventate merci per soli ricchi, in un mondo in cui consumismo, turismo, industria culturale e della conoscenza, così come il continuo ricorso all’economia dello spettacolo, si rivelano i principali motori dell’economia politica urbana.»

Se, dal punto di vista architettonico, è il grattacielo il tipo più rappresentativo di questa fase storica di urbanizzazione globale, che dopo un breve periodo di assestamento post-crisi è ripresa – fino all’arrivo del Covid-19, almeno – investendo un numero ancora maggiore di città (come ad esempio New York e Milano), sono diversi gli effetti prodotti da tali processi sugli spazi pubblici delle aree urbane da essi colpite. Ma che cosa diciamo, quando diciamo “spazio pubblico?” Il presente testo intende soffermarsi brevemente su alcune formulazioni fondamentali riguardanti la questione dello spazio pubblico occidentale: formulazioni che ritengo utili a leggerne e interpretarne la condizione attuale in maniera più consapevole. Quella dello spazio pubblico si presenta in effetti come una storia caratterizzata da continui processi di risignificazione, ben documentati da alcuni pensatori che, durante la seconda metà del Novecento, hanno tratteggiato il profilo cangiante di tale concetto e delle due parole chiave che lo compongono, offrendo al lettore contemporaneo una serie di strumenti indispensabili per avvicinarsi a un oggetto di studio così complesso. Vediamone tre.

In Vita activa, Hannah Arendt considera pubblico lo spazio della politica (polis), ovvero uno spazio di libertà definito da azione (praxis) e discorso (lexis), nel quale gli uomini si incontrano per prendere decisioni insieme. Ad esso si contrappone lo spazio della casa (oikos), ovvero uno spazio di necessità nascosto allo sguardo collettivo, nel quale ci si deve comportare secondo le regole di un dominus. Opposti ma non antagonisti, per la Arendt spazio pubblico e privato sono entrambi necessari: il primo serve infatti a costruire un mondo in comune, il secondo a formare l’essere umano. La confusione delle due sfere e il dissolversi dei confini che le separano, sono dunque da considerarsi problematiche per la Arendt, dato che portano a replicare le dinamiche patriarcali dell’oikos all’interno della polis, riducendo così la possibilità di azione politica.

In Storia e critica dell’opinione pubblica, Jürgen Habermas riparte dalle formulazioni della Arendt, principalmente riferite alle culture greca e romana, e le sviluppa fino a delineare una vera e propria storia della sfera pubblica, seguendone l’evoluzione dall’antichità ai giorni nostri. Di questo elaborato excursus, ci interessa sottolineare due idee chiave. La prima è la capacità della rappresentazione di dare vita a un certo tipo di dimensione pubblica. Durante l’alto Medioevo, scrive Habermas, la signoria si rappresenta nelle occasioni di festa mettendo in mostra i propri attributi, come ad esempio sigilli e stendardi, e così facendo legittima il proprio status, alla luce del fatto che ciò che è reso pubblico è naturalmente percepito come importante. Similmente, gli interni dei palazzi barocchi sono usati per mettere in scena la vita di corte, tant’è che da Versailles in poi, la camera da letto del Re si apre al pubblico divenendo oggetto di un meticoloso allestimento scenografico, in cui la parte usata dai reali è separata da quella destinata agli spettatori per mezzo di una barriera. Emergono così due questioni interessanti: da un lato, la condizione di pubblicità appare dipendere non solo dallo spazio ma anche dalle sue immagini; dall’altro, risulta evidente come uno spazio, per essere considerato pubblico, non debba necessariamente essere uno spazio esterno. La seconda idea chiave riguarda la formazione di quella che Habermas chiama la sfera pubblica borghese. Durante il diciottesimo secolo, i membri dell’emergente classe urbana cominciano a dotarsi di una serie inedita di strumenti e istituzioni, che finiscono con il trasformare la città in una rete di luoghi di incontro, critica e dibattito: non solo su temi politici, ma anche su questioni legate all’arte, alla musica, alla letteratura e così via. Attraverso la lettura di periodici, epistolari e romanzi, e soprattutto nella frequentazione di caffè, salon, teatri, librerie, mostre e concerti, la borghesia europea si costituisce per la prima volta come pubblico, dando forma alla propria identità, al proprio immaginario e alla propria agenda politica. Si può dunque affermare che anche uno spazio privato, accessibile solo in certe ore del giorno, e a pagamento, possa svolgere la funzione di spazio pubblico, e che tale funzione sia necessaria ai fini della costruzione di una comunità.

Infine, in Il declino dell’uomo pubblico, Richard Sennett espande ulteriormente le ricerche di Arendt e Habermas, adottando come chiave di lettura le dinamiche che definiscono la relazione polare tra pubblico e privato, che come scrive Sennett, assume significati e valori differenti a seconda del periodo storico in cui è considerata. Nel diciottesimo secolo, ad esempio, vivere in pubblico significa aprirsi virtuosamente alla non familiarità della sfera urbana, entrando in contatto con una grande varietà di gruppi sociali complessi e differenti. Non a caso, è in questo periodo che la città Europea comincia a ospitare nuovi luoghi di incontro all’aria aperta, come parchi urbani e promenade. Nel diciannovesimo secolo, al contrario, i traumi legati all’avanzare della città capitalista portano la casa a trasformarsi in un rifugio idealizzato e la famiglia in un modello morale. In questo periodo, lo spazio domestico si riconfigura come un ambiente controllabile, capace di proteggere i suoi occupanti dallo shock della vita pubblica. Tali cambi di paradigma, sostiene Sennett, non sono né repentini né netti, ma prendono forma nel tempo mantenendo un’inerzia propria che fa sì che diverse interpretazioni del medesimo spazio, emerse in periodi storici differenti, possano esistere allo stesso tempo.

Lo spazio pubblico del XXI secolo, in questo senso, non può essere descritto in maniera univoca, ma solo rendendo conto di tutti i differenti modi di pensare la città che si danno in un determinato momento. Parafrasando Sennett, ci sono probabilmente tanti tipi diversi di spazio pubblico, quanti sono gli spazi pubblici stessi.

Davide Tommaso Ferrando

14.7.23

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La fotografia di copertina è: Matilde Cassani, Tutto, Manifesta 2018, ph. Delfino Sisto Legnani e Marco Cappelletti