Nelle continue metamorfosi dello spazio urbano le distinzioni tra pubblico e privato diventano sempre più sfumate. Le alterazioni di significato cui è andata incontro la definizione di “spazio pubblico” e la sua percezione nella città contemporanea hanno prodotto negli ultimi decenni una potente retorica disciplinare che, se da una parte è servita per sensibilizzare i progettisti e le amministrazioni più attente, dall’altra ha messo in evidenza il generale processo di compromissione dello spazio pubblico di fronte alla pressione di interessi privati.

L’attenzione crescente verso lo spazio pubblico, quale forma di riappropriazione di quel diritto alla città minacciato dalla lunga ondata neoliberista, non è stata accompagnata da un analogo interesse verso le mutazioni che la stessa ondata ha prodotto nel concetto di welfare urbano. Spazio pubblico e welfare urbano sono stati concetti complementari nella costruzione della città moderna. Se il welfare urbano, nella sua traduzione tecnica, attraverso gli standard urbanistici, ha permesso di definire rapporti tra spazio pubblico e spazio privato funzionali alla costruzione della città moderna, oggi, di fronte ad una città in continua trasformazione, l’attenzione sembra spostarsi verso la ricerca di una maggiore qualità in termini prestazionali delle dotazioni di servizi e degli spazi aperti. Il benessere sociale, garantito attraverso il set di dotazione minima di servizi, sembra rifluire sempre più spesso nella ricerca di un benessere psicofisico soggettivo, non più solamente circoscritto dalle mura domestiche, ma che si riverbera sulla scena pubblica della città contemporanea. Tra benessere sociale (welfare) e benessere psicofisico (wellbeing) si assiste ad un lento travaso, che investe lo stesso spazio pubblico della città. Un travaso iniziato con la crisi del welfare, negli ultimi decenni del secolo scorso, che la crisi pandemica del 2020 ha accelerato, attualizzando sotto nuove forme la centralità di una prospettiva healthy nelle politiche pubbliche e nel progetto della città1 .

La lunga emergenza pandemica ha messo in evidenza il nesso che lega lo spazio urbano alla salute fisica e mentale delle persone. Attraverso le limitazioni imposte ai comportamenti (lockdown, distanziamento sociale, coprifuoco, istituzione di zone rosse) lo spazio pubblico è tornato ad essere teatro non solo di politiche igienico-sanitarie (come all’origine dell’urbanistica moderna), ma anche di piccole fobie individuali e collettive (come all’origine della metropoli moderna). La disinvolta manipolazione esercitata sullo spazio e la lacerazione delle relazioni interpersonali hanno alimentato vecchie nevrosi, fobie e ansie connesse con gli spazi pubblici. Agorafobia e claustrofobia, da malattie della metropoli moderna, sono tornate ad abitare la città contemporanea. Le parole della scrittrice Caterina Serra restituiscono bene il senso di una visione fobica dello spazio durante i giorni del lockdown: “cammino come un topo. Me ne accorgo appena incontro qualcuno che come me si addossa al muro, abbassa la testa, strisciamo insieme”2 . La visione clinica che la pandemia ha proiettato sullo spazio pubblico della città ha permesso per un certo periodo di tempo di rendere visibili, senza la sufficiente copertura di ansiolitici, comportamenti fobici da tempo presenti sulla scena urbana.

Complici da una parte il lento declino del concetto di welfare, dall’altra lo shock prodotto della crisi pandemica, negli ultimi anni la disciplina è tornata a interessarsi con sempre maggiore insistenza al benessere psicofisico delle persone in relazione alle configurazioni dello spazio urbano. Lo spazio è tornato così ad essere teatro non solo di manifestazioni collettive, ma anche di quelle fobie, psicosi e nevrosi che, a partire dall’800, avevano trovato terreno di diffusione proprio nella condizione metropolitana.
Questo spostamento di attenzione ha permesso di recuperare i fili con tradizioni disciplinari che sembravano essere dimenticate, come le ricerche sullo spazio percettivo di matrice gestaltica, che trovano formulazione compiuta negli studi sviluppati da Kevin Lynch a partire dagli anni ‘60 del Novecento. Non altrettanta fortuna in campo progettuale sembrano invece avere avuto le analisi, rimaste spesso confinate in ambito clinico-medico, sul disagio psichico in relazione alle configurazioni spaziali dell’ambiente. Si può dire che l’interesse disciplinare sia stato polarizzato dai modi in cui le persone organizzano lo spazio percettivo, concorrendo alla definizione di un’immagine “pubblica” della città, piuttosto che sulle alterazioni della spazialità provocate da disturbi psichici, che introducono inevitabili distorsioni all’immagine condivisa dello spazio. Eppure, una riflessione su queste deformazioni aprirebbe interessanti spiragli nella progettazione dello spazio pubblico3 .

Un’interessante considerazione del punto di vista del soggetto fobico è presente nel libro di Camillo Sitte L’arte di costruire le città: “numerose persone provano un certo timore, un malessere ogni qualvolta devono attraversare un grande spazio vuoto”. Alla constatazione del disagio provocato dai grandi spazi aperti, tipici di alcune sistemazioni urbane ottocentesche, per cui “si capisce che l’agorafobia è una malattia recente”, Sitte contrappone la ricchezza topologica degli spazi racchiusi della città medievale, dove “nelle piccole piazze antiche si sta bene”. Questo spazio in cui stare bene, in cui sentirsi a proprio agio, costituisce – come ha più volte affermato Françoise Choay – il nucleo di una spazialità dominata dall’esperienza del corpo, una dimensione antropologica che persiste anche di fronte alle più recenti metamorfosi dello spazio, come ha messo in evidenza l’improvviso e traumatico svuotamento dello “spazio di contatto” (per paura del contagio) imposto durante il lockdown. Scorrendo le pagine e le immagini del libro Lezioni di architettura di Herman Hertzberger – libro permeato dall’influenza della rivista olandese “Forum” – è possibile farsi un’idea di come lo spazio possa essere plasmato dai corpi e dai comportamenti delle persone. È soprattutto lo spazio intermedio – in-between – che costituisce “la chiave di transizione” – la soglia – tra differenti tipi spazialità, in cui le opposizioni pubblico/privato, individuale/collettivo si sciolgono in un “problema di interrelazione e di mutuo impegno fra persone e gruppi di persone”.

Parigi, anni ‘70. Fotografia di Herman Hertzberger

Il rapporto tra spazi urbani e comportamenti delle persone mette in gioco saperi e sguardi diversi. Sempre con riferimento alla spazialità della città medievale Lewis Mumford individuava nello spazio pubblico il palcoscenico sul quale rappresentare il dramma della città, dramma che aveva il suo apice nella “processione religiosa che si snoda attraverso le piazze e le strade della città”. La metafora teatrale della vita come rappresentazione è stata ripresa e sviluppata dagli studi di Erving Goffman. Secondo il sociologo canadese l’analisi dei cerimoniali della vita quotidiana permette di far emergere in controluce tutta una serie di comportamenti inadeguati alla situazione. I “disturbi mentali” diventano così “visibili” nella scena urbana come effrazione delle regole cerimoniali della vita quotidiana. Le varie letture che, in tempi diversi, sono state date a Il comportamento in pubblico di Erving Goffman (mi riferisco alle tre edizioni italiane, introdotte e lette da punti di vista disciplinari diversi: psichiatrico, sociologico, psicologico) sembrano permettere allo studioso di “spostarsi – come auspicato dallo stesso Goffman – da un piano sociale a un piano particolare, che riguarda gli aspetti più profondi della personalità”4 .

Scivolando da un “piano sociale” verso gli “aspetti più profondi della personalità”, non si può ignorare come alcuni autori abbiano messo in atto vere e proprie pratiche di straniamento, violando deliberatamente i rituali di comportamento in pubblico. Nelle flânerie, nelle derive situazioniste, o nell’osservazione meticolosa dell’ordinario, il soggetto (lo scrittore) ha spesso assunto un punto di vista volutamente destabilizzato rispetto alla società. Attraverso forme di copertura, come fingere di guardare una vetrina, attendere un finto appuntamento, camminare lungo strade asfaltate, il soggetto è libero di esperire le dimensioni più profonde della città, di attraversarla da un capo all’altro, di scivolare verso una condizione di sospensione onirica o di inventare giochi ludici nelle trame della metropoli. Tale libertà di movimento permette di smontare e rimontare la struttura dello spazio pubblico seguendo logiche diverse e alternative rispetto a quelle delle pratiche rituali del tempo libero, dello spettacolo, del commercio, del turismo. Indugiare per ore a un tavolino del caffè è un’altra forma di copertura “lecita” che può garantire quello spazio di tempo necessario per esaurire analiticamente un luogo, come nel tentativo condotto da George Perec in Place Saint-Sulpice a Parigi. Assumere il punto di vista del soggetto “patologico” ha permesso a Benjamin, Debord, Perec … di vedere la città con occhi diversi, di svelare la superficie dei comportamenti rituali nei luoghi pubblici, di prendersi gioco di essi, di entrare in risonanza con gli spazi della città, sentirne l’ebrezza, indugiare sulla soglia, provare disagio, esitare, prendere congedo: la città – osservava Benjamin – è un succedersi di “formule di congedo”.

Andrea Vergano

2.11.22

1. Cfr. P. Gabellini, Le mutazioni dell’urbanistica, Carocci, Roma, 2018. In particolare, si veda il capitolo “Welfare materiale e prospettiva healthy”.

2. https://ilmanifesto.it/capitalismo-clinico-in-soggettiva

3. Da una prospettiva psichiatrico-filosofico cfr. il saggio di A. Molaro, Ludwig Binswanger e il problema dello spazio, in L. Binswanger, Il problema dello spazio in psicopatologia, Quodlibet, Macerata, 2022. Da una prospettiva estetico-progettuale cfr. A. Vidler, La deformazione dello spazio, Postmedia, Milano, 2009.

4. E. Goffman, Il comportamento in pubblico, Einaudi Torino, 1971; Edizioni di comunità, Torino, 2002; Einaudi, Torino, 2019.

Immagine di copertina: Campo dei miracoli, Pisa, fotografia di Andrea Vergano