Nel 2012 l’uragano Sandy ha colpito duramente alcune zone costiere del New Jersey e di New York. Il temporaneo innalzamento del livello del mare – fino a 4 metri – ha provocato danni enormi alle comunità che le affollano. Una volta corrisposte le immediate necessità degli abitanti, occorre affrontare la prospettiva della ricostruzione, configurando scenari futuristici e futuribili. Una volta di più, considerando la genesi delle calamità, queste occasioni reclamerebbero un’autentica assunzione di responsabilità, personale e collettiva, per attuare un nuovo rapporto con la natura.

Per la ricostruzione post-Sandy, nella primavera del 2013 è stato lanciato il concorso Rebuild by Design. Nato da un’idea del segretario dello U.S. Department of Housing and Development (HUD) Shaun Donovan, ha coinvolto oltre alla Hurricane Sandy Rebuilding Task Force anche la Rockefeller Foundation e un gruppo di esperti di pianificazione territoriale e regionale. Attraverso attività di studio, pianificazione e progettazione urbano-architettonica, attuandosi per fasi, doveva sviluppare proposte per la ricostruzione delle aree colpite, improntate sul principio della resilienza. Le potenziali aree di intervento erano oltre quaranta. Completando l’iter in appena un anno, nel giugno 2014 sono stati assegnati premi e finanziamenti.

Piuttosto che leggere la sfida posta dal concorso nei suoi obiettivi espliciti, è più opportuno considerare cosa poteva rappresentare: la possibilità di migliorare le condizioni degli insediamenti con una prospettiva lunga generazioni, ma anche l’occasione di ripensarli in modo radicale. Il concorso avrebbe potuto configurare un laboratorio per la ricerca di nuove forme concrete di compromesso con la natura. Da questo punto di vista, il giudizio è negativo. Solo l’effetto sull’approccio delle amministrazioni federali e locali ai grandi interventi di pianificazione del territorio è motivo di ottimismo: si è dimostrata, infatti, l’utilità e il valore di uno stretto coordinamento, come mai era stato compreso e accettato1 .

Le criticità sono frutto di altri aspetti dell’impostazione del processo. La libera scelta dei siti ha penalizzato quelli di minore appeal: le sei aree premiate con un grant sono tutte all’interno o nei dintorni della città di New York. Logica simile per la selezione dei team: non sono stati valutati concept o dichiarazioni di intenti, ma solo il profilo – o forse, la fama. Le buone proposte dello star system dell’architettura, ancorché imperfette, sono state abbandonate nelle mani delle amministrazioni locali, coperte da un finanziamento molto parziale. Infatti, il programma delineava una fase di revisione delle proposte, producendo un rapido decadimento delle aspirazioni degli interventi, soprattutto intorno al tema della natura e dell’impatto dei cambiamenti climatici. La revisione nasceva da una debolezza strutturale dell’operazione, cioè la separazione delle fasi della progettazione e del finanziamento degli interventi. A quel punto, ogni cambiamento è stato determinato esclusivamente in ottica economica, con tagli e ridimensionamenti. Ogni altra risorsa, peraltro, andava reperita sul mercato.

The BIG Team (2013). BIG U, master plan complessivo.

BIG U2  è stata la proposta più emblematica e dibattuta. Lo scenario elaborato dallo studio BIG ridisegnava la costa sud-est di Manhattan attraverso una serie di funzioni e spazi pubblici, concepiti come aree di espansione temporanea per il mare. Le barriere rigide erano limitate quanto più possibile e l’intervento si armonizzava con lo stato delle aree e dei contesti, intervenendo poi nella direzione delle necessità espresse dalla comunità, coinvolta attivamente nel concorso. Portata sul campo, l’operazione si è dimostrata fragile, rivelando anche una certa immaturità di fondo. La fase realizzativa, affidata all’amministrazione del sindaco Bill de Blasio, è iniziata mettendone fortemente in discussione la fattibilità, sulla base di costi e tempi necessari. BIG U è stata divisa in due progetti isolati: East Side Coastal Resiliency (ESCR)3 e Lower Manhattan Coastal Resiliency (LMCR)4 . Questo processo ha visto una profonda revisione degli intenti iniziali, sostituiti da una diversa impostazione progettuale: l’idea di zone porose, adatte alla temporanea inondazione del mare, è stata soppiantata da una strategia fatta di terrapieni e argini rigidi. Per l’East River Park ciò si è tradotto nella distruzione del parco attuale che sarà ricoperto da circa 3 metri di nuova terra. Peraltro, come racconta Michael Kimmelman5 , si è tradito il processo partecipativo attivato all’interno di Rebuild by Design: le divisioni create nella comunità tra chi accetta il compromesso del progetto imposto dalle autorità e chi lo considera una soluzione inaccettabile contraddicono gli intenti del concorso stesso.

L’ultima versione di LMRC – ufficializzata dall’amministrazione de Blasio il 29 dicembre 20216 –disegna per le aree di Seaport e Financial District una soluzione di compromesso che salva alcuni tra gli interventi originali. È la conseguenza delle polemiche nate dopo la proposta di creare una fascia larga circa 150 metri di nuovo suolo all’interno dell‘East River7 , sempre con la logica del semplice rialzo di quota; un approccio che ha poi generato ulteriori incubi8 . Era antitetica al progetto di BIG – che non comportava alcuna reclamation, cioè nessun nuovo ampliamento della terraferma nell’acqua – ma soprattutto all’idea di una ristrutturazione resiliente del territorio.

AKRF, BIG e New York City (16 dicembre 2019). East Side Coastal Resiliency Project, nuovo East Side Park

Rebuild by Design ripropone criticità sistemiche. Ha finito per riprodurre scenari e soluzioni della carbon form9 : contribuiscono in pieno alla perpetuazione del paradigma economico-insediativo che ha determinato la crisi attuale, in totale conformità con la logica del neoliberismo – mercato, merce, massimizzazione di crescita/sviluppo attraverso estrazione e consumo di risorse. L’involuzione vissuta dalle proposte descrive questa direzione, come dimostra il caso di New York: la necessità di agevolare enormi profitti conduce ad aberrazioni come la prima variante per Lower Manhattan. Le soluzioni che prevedono innalzamento del suolo e costruzione di argini sono a mala pena resistenti e per nulla resilienti. In prossimità di insediamenti urbani densi, nella morsa di forti interessi economici, è più difficile inserire progetti di parziale rinaturalizzazione, come quelli che sviluppa lo studio Turenscape – tra gli altri, il Sanya Mangrove Park10 . L’attenzione verso la natura, principio progettuale e obiettivo da raggiungere, spesso scompare dai progetti man mano che questi si avvicinano alla concretizzazione, essendo estranea al paradigma neoliberista. Nel caso di operazioni-manifesto, come Rebuild by Design, la conseguenza non è solo il rischio di aggravare le condizioni del contesto, ma anche di avvelenare il tentativo di incrementare la consapevolezza collettiva sui cambiamenti climatici e sul confronto inesorabile con la natura, sabotando la costruzione di autentici e concreti processi equilibrati di intervento.

L’occasione del concorso dimostra una volta di più come non abbia senso cercare soluzioni all’interno del quadro culturale della carbon form, che è la causa della crisi climatica. Per fermare il processo e, addirittura, invertirlo, occorre costruire nuove ideologie e nuove tipologie: una climate form11, seguendo la fortunata definizione di Lizzie Yarina. L’approccio deve cambiare radicalmente, fondando i processi insediativi sul rapporto con la natura e tenendoli separati dalla logica della crescita/sviluppo. Non è direttamente lo scenario che Zosia Dzierzawska e Charlotte Malterre-Barthes hanno messo in forma di fumetto12 – un mondo a consumo 0 – ma è il punto da cui partire per pensare a qualcosa di più grande. Ragionare in termini di “make for nature” è ancora più ambizioso, perché esprime implicitamente la necessità di realizzare una rivoluzione in tutti gli interventi di insediamento e costruzione, estendendo il cambiamento culturale ad ogni ambito delle tecniche, sia progettuali che realizzative.

Rebuild by Design ha mostrato, nel complesso, mancanza di coraggio, ma soprattutto il venir meno, da un certo punto in avanti, della carica sperimentatrice che è intrinsecamente necessaria per operazioni che, come questa, avrebbero potuto segnare uno scarto con la cultura e la pratica dello status quo. Non erano ancora i tempi del Green New Deal statunitense o del programma Next Generation EU, mancava la precisione del manifesto di The Architecture Lobby13 . Tutti questi fattori possono rappresentare una svolta. In effetti, alcune delle correzioni in corsa che si stanno verificando sui progetti seguiti al concorso sono dovute proprio a questo ulteriore spostamento che si registra in ambito culturale, sociale e politico. C’è solo da sperare che si mantenga la direzione, con perseveranza e grande determinazione.

Luigi Mandraccio

01.02.2022

1. Questo sforzo è valso l’assegnazione a Rebuild by Design del Walter Gellhorn Innovation Award (assegnato dalla Administrative Conference of the United States, ACUS) e del General Services Administration (GSA) award, entrambi del 2015.

2. Si veda: http://www.rebuildbydesign.org/our-work/all-proposals/winning-projects/big-u

3. Si veda: https://www1.nyc.gov/site/escr/index.page

4. Si veda: https://www1.nyc.gov/site/lmcr/index.page

5. M. Kimmelman, What Does It Means to Save a Neighborhood?, in The New York Times, 2 Dicembre 2021. https://www.nytimes.com/2021/12/02/us/hurricane-sandy-lower-manhattan-nyc.html [Ultimo accesso: 25 gennaio 2022].

6.  De Blasio Administration Releases Climate Resilience Plan for Financial District and Seaport, in “The Official Website of the City of New York”, (29 dicembre 2021.) [Online] https://www1.nyc.gov/office-of-the-mayor/news/875-21/de-blasio-administration-releases-climate-resilience-plan-financial-district-seaport [Ultimo accesso: 25 gennaio 2022].

7. B. de Blasio, My New Plan to Climate-Proof Lower Manhattan, in “Intelligencer”, 13 marzo 2019. https://nymag.com/intelligencer/2019/03/bill-de-blasio-my-new-plan-to-climate-proof-lower-manhattan.html [Ultimo accesso: 25 gennaio 2022].

8. J. M. Barr, 1,760 Acres. That’s How Much More of Manhattan We Need, in “The New York Times”, 14 gennaio 2022. https://www.nytimes.com/2022/01/14/opinion/eric-adams-manhattan-expand.html [Ultimo accesso: 25 gennaio 2022].

9. E. Iturbe, Architecture and the Death of Carbon Modernity, in “Log”, 47, 2019, pp. 10-23.

10. G. De Francesco, Parco di Mangrovie a Santa City. L’infrastruttura verde per una città più resiliente, in “L’industria delle costruzioni”, 479, 2021, pp. 50-57.

11. L. Yarina, Toward Climate Form, in “Log”, 47, 2019, pp. 85-92.

12.  Z. Dzierzawska, C. Malterre-Barthes, Architecture without Extraction, in “The Architectural Review”, 1486, 2021, pp. 36-40.

13.  T-A-L Green New Deal Working Group, in “The Architecture Lobby”. http://architecture-lobby.org/project/t-a-l-green-new-deal-working-group/ [Ultimo accesso: 25 gennaio 2022].

Immagine di copertina: New York City, Mayor’s Office of Climate Resiliency (29 dicembre 2021). Financial District and Seaport Climate Resilience Master Plan, vista a volo d’uccello verso sud.