Francesco Radino se n’è andato il 9 aprile, in un luminoso giorno di primavera che, come hanno osservato gli amici, sarebbe tanto piaciuto a lui fotografo, amante della natura, del mare e della montagna, camminatore, giardiniere. E anche pescatore, e anche cuoco. Radino ha dimostrato con la sua fotografia ma anche con il suo stile di vita, che tutto, nel mondo, o almeno molto, è interessante. Non vi è certezza nella sua fotografia, né rigida appartenenza a un genere, nonostante egli abbia praticato tutti i generi che la fotografia ha ereditato dalla pittura (dal racconto del sociale al ritratto, dal paesaggio agli oggetti, fino alle forme astratte) ma, al contrario, mobilità e relatività. La fotografia è stata davvero, per questo artista avvicinabile a molti ma anche un po’ diverso e appartato, non facile da definire, un dispositivo che preleva dalla complessità del reale oggetti e luoghi trasformandoli in immagini. Ma i suoi oggetti d’attenzione sono cambiati sempre, e con essi il modo con il quale l’immagine può nascere. La realtà è comunque indescrivibile – sembra dirci Radino – e la fotografia altro non è che un piccolo tentativo di accedere al significato delle cose (e della vita) fissando forme, luci, ombre, colori. Ecco dunque che egli ha osservato i travasi formali che avvengono fra cose diverse, le mutazioni (questo è anche il titolo di un suo importante libro pubblicato nel 1994), le analogie e i rimandi che dicono, in fondo, che il mondo è uno solo, unica è la materia di cui si compone, che tutto si collega a tutto, che la vita è un transitare di esperienza in esperienza. Pesci, strutture e oggetti industriali, alberi, fiori, ombre, figure umane, spiagge, resti archeologici, acque, montagne, architetture, città, uccelli, mani, prati, pietre, strade – sono solo elementi sparsi di una visione che si trasforma lungo la strada.

Francesco Radino, Tokio, 1992.

Radino ha mostrato, con la sua vasta opera realizzata in cinquant’anni di lavoro (fine anni sessanta-oggi), che un fotografo è un fotografo, ben al di là della specificità di campi d’azione che lo vogliono reporter, o paesaggista, o ritrattista, o fotografo industriale: una “sistemazione” che la fotografia ha ereditato dalla storia della pittura e che è stata, nel tempo, rafforzata da obblighi professionali e ragioni di mercato. Dietro la spinta delle avanguardie è accaduto che la pittura rompesse ogni schema e respingesse i generi per diventare astratta e giungere infine a mescolarsi con la scultura, l’installazione, la musica, la letteratura e a ogni altra forma artistica. La fotografia, parallelamente, a dispetto della sua natura di medium massimamente duttile e libero, mobile, proprio dei generi tradizionali è rimasta un po’ prigioniera, liberandosi da questo schema solo in tempi molto recenti . Per Radino è invece sempre stato così, e il suo lavoro è sempre stato segnato da sguardi diversi, modi diversi di costruire l’immagine: forse egli è stato, per vocazione più profonda, un paesaggista, forse invece, più propriamente, un fotografo di oggetti, se oggetti sono, e lo sono, tutte le cose, ma anche le figure, che abitano il mondo: anche le architetture, anche le persone, e anche le ombre. Suo padre, il pittore Vincenzo Radino, si muoveva fra oggetti, forme e colori allo stesso modo. Per Radino ogni piccola cosa è dunque spunto per piccole narrazioni, malinconiche o stupite, brevi, interrogative, improvvise, talvolta simili ad haiku giapponesi, come egli stesso amava ricordare. La natura e gli uomini hanno inventato molte cose, molte forme, come capirle tutte, come porsi in relazione con esse? Tra forme appartenenti a modi tra loro lontani possono crearsi relazioni, e da queste relazioni può nascere l’esperienza e forse, ma non è certo, anche la conoscenza. Forse le forme possiedono una misteriosa autonomia, una forza che le guida, radici profonde che le nutrono di significati, e a esse è bene affidarsi perché ci porteranno lontano.

Francesco Radino, Cinisello Balsamo, 2005.

Che cosa è dunque la fotografia per Francesco Radino? “Il mondo delle forme si libera – egli ha scritto – va al di là del senso immediato”, a legare le immagini fra loro diverse c’è “un filo sottile, ma forte… che parla il linguaggio della vicinanza, ed esse sono “indicatori della realtà ma ci permettono anche di intravvedere la possibilità di una via d’uscita da essa”. Radino si muove dunque anche nella dimensione del sogno, del ricordo, di un immaginario teso all’armonia. La sua visione si lega a una sorta di animismo, a sentimenti in bilico tra cultura occidentale e orientale (molti i suoi viaggi in Giappone) poiché prevede un infinito insieme di figure che sono, nel mondo, tutte alla pari, ugualmente partecipi del reale, ugualmente meritevoli di essere investite di moti affettivi e di diventare immagini: un’architettura vale quanto una foglia, un volto quanto una pietra o un animale. Non è un caso dunque che nelle sue fotografie si presentino spesso figure antropomorfiche, dotate di volti, occhi, bocche, appartenenti sia alla natura sia a ciò che l’uomo ha costruito, a dirci che, in fondo, ogni cosa ha un’anima.

Roberta Valtorta

14.4.22

Immagine di copertina: Francesco Radino, Verbania, 1983.