Il MACTE, Museo di Arte Contemporanea di Termoli, nasce nel 2019 da una fondazione di natura sia pubblica che privata e si inserisce nell’attività del premio storico “Città di Termoli”, che a partire dal 1955 ha dato origine ad una collezione ora diventata esposizione permanente dell’avanguardia in Italia. L’attuale direttrice e curatrice della mostra “Le 3 Ecologie”, Caterina Riva, racconta che il progetto ha rappresentato una sfida con l’obiettivo di creare un centro di sviluppo e crescita culturale di primo ordine in un’area dell’Italia ritenuta marginale. Il museo appare infatti come un’entità apparentemente eccentrica rispetto ai luoghi della cultura più noti ma risulta in realtà connessa a 360 gradi con proposte di artisti provenienti da ogni angolo del mondo, oltre ad essere dotata di un programma saldamente ancorato al racconto della contemporaneità. Il nome della mostra trae spunto da un libro di Guattari del 1989 in cui viene teorizzato il concetto di “ecosofia”, a rappresentare il sistema di tre sfere inerenti l’ecologia: il sociale, il naturale e il mentale.

Piero Gilardi, Ipogea 2010. Collezione MAXXI, fotografia di Gianluca Di Ioia

Una proposta di grande attualità che unisce appunto artisti di provenienza diversa che lavorano con una molteplicità di media come video, fotografia, pittura, scultura, installazione. L’intenzione è quindi quella di abbattere le barriere e i preconcetti di solito associati all’opera d’arte e all’attività dell’artista, trovandosi questi inseriti in un sistema ad ampio raggio che coinvolge collettività, geografia, natura ed individuo.
Forse tra le figure che maggiormente rappresentano questo tipo di presupposto è proprio Piero Gilardi, uno degli esponenti dell’arte povera e figura che fin dagli anni sessanta lega saldamente l’operare artistico all’attivismo e all’impegno sociale, in una dimensione collettiva. Egli presenta qui, nella sala centrale, “Ipogea”, una scultura in poliuretano espanso che richiama in qualche modo i suoi “Tappeti Natura”, invitando il visitatore, tramite una sorta di grotta, ad una perlustrazione corporea e fisica alla ricerca forse di un fiume sotterraneo o piuttosto di una fonte di energia. Un’opera quindi relazionale che ci spinge a partecipare per cercare una soluzione alle attuali condizioni del pianeta. Si indaga quindi come l’arte possa entrare nel discorso dell’ecologia e più in generale nell’approccio che essa deve avere con questo mondo complesso e interconnesso. Viene proposto il superamento dell’ opposizione tra etico ed estetico: arte che entra in fusione con la vita e si e si ibrida con la vita. Incontriamo poi di Len Lye, una regista neozelandese, un’opera del 1929. Si tratta di “Tusalava”, un’animazione che rappresenta il mondo dei microrganismi in una sorta di vita primigenia, dove si passa dalla semplice cellula ad organismi più complessi.

Francis Offman, Senza titolo, 2017, fotografia di Gianluca Di Ioia

Francis Offman, artista ruandese che da 22 anni vive a Bologna, ha un approccio trasversale e produce le sue opere pittoriche attraverso materiali di recupero come caffè, polvere di marmo, gesso, i quali in sé già raccontano una storia. In realtà Francis dice di usare, per la pittura, solo cose che gli vengono regalate, rigettando la dimensione consumistica e privilegiando fin dall’inizio il momento della relazione. In particolare il caffè, che viene da tutte le parti del mondo, si mischia nelle miscele a simbolizzare la multiculturalità e ci parla di colonialismo e sfruttamento stimolandoci ad una riflessione. L’artista opera con contorni irregolari e campiture talvolta opache altre accese. Propone collages con ritagli di carta più o meno spessi, quasi strappi o ferite che talvolta richiamano elementi del reale: un albero secco, una montagna od una porzione d’acqua. Jumana Manna, regista americana cresciuta a Gerusalemme, propone un documentario che racconta il suo lavoro di indagine cinematografica, dove esplora come nelle relazioni il potere si articoli concentrandosi su corpo e materialità in relazione alle le istanze del nazionalismo e alle storie del luogo. Si tratta di “Wild Relatives” e racconta il transito di semi tra Norvegia e il Libano. Un centro di ricerca agricola si trova costretto a spostarsi da Aleppo alla Valle della Bekaa durante la guerra di Siria e deve quindi fare ricorso ad un back-up di sementi presente in Norvegia all’interno di una montagna, lo “Svalbard Global Seed Vault“. Nella fase di risemina, comunque non facile per il clima diverso, vengono impiegati rifugiati siriani che il film ritrae nella loro difficile condizione di adattamento alla realtà in un luogo che non è quello di origine. Ancora una volta natura, società e geopolitica appaiono fortemente correlate.

Karrabing Film Collective Wutharr: Saltwater Dreams, 2016. Video installazione, fotografia di Gianluca Di Ioia

Karrabing Film Collective è un gruppo indigeno australiano che usa cinema e altri media per indagare le condizioni di disuguaglianza degli aborigeni nei territori a nord dell’Australia. Karrabing significa “bassa marea” nella lingua Emmiyengal, e rappresenta una collettività al di fuori dei limiti della proprietà terriera imposti dal governo. Elementi chiave della loro ricerca sono il rapporto con l’eredità ancestrale degli antenati ed una riflessione sulla colonizzazione. Qui presentano “Saltwater Dreams”, un documentario del 2016 che narra della relazione privilegiata delle comunità aborigene con gli antenati. Nicola Toffolini, artista nato a Udine che vive a Firenze, indaga da sempre le tematiche legate al paesaggio ed all’intervento dell’uomo sull’ambiente naturale. Tutta la sua storia artistica è connotata inizialmente da delle installazioni che mettono in rapporto artificialità e natura. Qui l’artista propone dei disegni che sono stretti parenti dei suoi taccuini, strumento di meditazione che diventa esperimento nel rapporto con il pubblico. Vengono proposti due momenti diversi e sequenziali.
Nel primo vengono rappresentate due palme avvolte dai frangiflutti, attimo sospeso nel post-cataclisma, e successivamete il tema diventa quello di un paesaggio futuribile dove si mixano elementi artificiali e naturali. A fornire sfondi a Toffolini ci sono poi i wallpaper di Francesco Simeti i quali, a tuttocampo, ripropongono arbusti ed altri elementi vegetali saccheggiati dagli sfondi di illustrazioni artistiche caratterizzando in modo coinvolgente lo spazio con elementi eterogenei e di varia origine. Micha Zweifel elabora dei bassorilievi in gesso che con una scansione ispirata agli stilemi medievali racconta il mondo del lavoro e della manualità. Matilde Cassani, architetta e designer di Milano, dove si occupa delle implicazioni spaziali del pluralismo culturale nella città occidentale contemporanea, lavora qui sulla modulazione luminosa dello spazio attraverso l’installazione denominata “Rayban”, dove un tendaggio all’ingresso del museo ci ripara dalla luce abbagliante del sole.

Jonatah Manno, Currents currents currents, 2021–22 (dettaglio), fotografia di Gianluca Di Ioia

Jonatah Manno vive a Lecce e la sua dimensione artistica è quella della spiaggia e del mare di Puglia. Vive il mare quotidianamente, al di là degli stereotipi estetici a cui siamo abituati. Egli parte da materiali di scarto rilasciati dalle onde sulla spiaggia, con cui crea sculture in resina che sembrano fossili di un ipotetico futuro. La fotografa Silvia Mariotti in periodo di pandemia ha utilizzato il suo archivio per comporre dei paesaggi naturali immaginati e pensati come dei diorami da museo naturale. L’opera qui ruota attorno al principio di ambiguità ed al senso del possibile. Al termine del percorso la sensazione è quella di trovarsi in effetti dinanzi ad un evento unitario, che come un organismo vive del contributo di ogni sua parte, cercando di aprirsi una strada verso il futuro.

Luca Mori

1.5.22

Immagine di copertina: Silvia Mariotti, Boutade #4, 2021. Installation view Le 3 ecologie MACTE, 2022, fotografia di Gianluca Di Ioia