La monografia su Los Angeles sembra avere una ideale prosecuzione (e conclusione) nel libro Scenes in America Deserta del 1982, scritto da Banham visitando un deserto ogni fine settimana, durante gli anni dell’insegnamento all’Università di Santa Cruz in California1. Come nota Anthony Vidler, tra i due testi si stabilisce un nesso di consequenzialità, come se Scenes in America Deserta, costituisse il «secondo volume» di un’opera che «ha lo scopo principale di analizzare in maniera complessa l’esperienza ambientale nel suo complesso»2.

La frequentazione di Banham con i deserti inizia nel febbraio del 1968, con il primo contatto con il Mojave, proprio negli anni in cui sta maturando la monografia su Los Angeles. In una sorta di osmosi, l’esperienza dei deserti sembra influenzare il modo di osservare la città. Qualcosa di desertico filtra nell’esperienza urbana di Los Angeles, e viceversa. L’automobile, che Banham impara ad utilizzare per leggere la metropoli californiana, è lo stesso strumento utilizzato per esplorare gli spazi immensi dei deserti americani. Muovendosi lungo le autostrade che escono da Los Angeles i deserti sembrano rappresentare una sorta di naturale estensione della città. Come nota Jean Baudrillard, lettore di Banham, nella città californiana «si ritrova qualcosa della libertà di circolazione esistente nei deserti, di cui Los Angeles, per la sua struttura estensiva, non è che un frammento abitato»3.

La percezione del «carattere desertico» della città americana e di Los Angeles in particolare (che Baudrillard coglie proprio dalla lettura di Banham) ha certamente origine dalla prima esperienza fatta dal critico inglese nel deserto. Poiché «lo shock visivo iniziale è irripetibile», il primo impatto con il Mojave ha sicuramente acuito quella sensibilità ambientale attraverso cui leggere la metropoli californiana nelle sue articolazioni ecologiche. Quello che può apparire come un rapporto di consequenzialità tra la monografia su Los Angeles e il volume sui deserti, si mostra, leggendo tra le righe, come un rapporto di condizionamento reciproco dello sguardo. L’istantaneità di Los Angeles e l’immutabilità dei deserti sono inseparabili, come due facce di una stessa medaglia. Los Angeles e i deserti non sono in contraddizione tra loro4.
Se la monografia su Los Angeles si regge sulla relazione tra architettura ed ecologia, il libro sui deserti si regge sull’alternanza tra rivelazioni e descrizioni. Dei vari deserti del sudovest descritti da Banham, il Mojave rimane quello più amato, «il deserto della prima volta e l’ultima risorsa». Per gli americani il Mojave è «il deserto per definizione», quello più visitato, più studiato, più sfruttato. Utilizzato in vari modi dai «fanatici del deserto», per la presenza di minerali, per il puro divertimento, per le corse e il collaudo di mezzi di ogni tipo e specie (auto, aerei, razzi). Il Mojave è il deserto in cui ampie porzioni di territorio sono sottoposte al vincolo militare (campo di esercitazione del Pentagono e di esperimenti nucleari), altre al vincolo di tutela ambientale, con i celebri parchi naturalistici. Deposito, campo, pattumiera, parco, il Mojave è anche «un forziere di oasi di ogni tipo», piccoli scrigni e appigli di urbanità sparsi in un territorio arido, fino a giungere a quella «oasi alla fine di tutte le oasi che è Las Vegas». Anche la presenza di Las Vegas, la città del gioco e della corruzione, non è in contraddizione con lo scenario del deserto. «Amare questo deserto – dice Banham – significa almeno accettare la presenza di Las Vegas», come una delle sue numerose stravaganze. Un senso di straniamento che proietta l’osservatore in uno scenario di fantascienza: «la presenza di una simile enclave di grossolani piaceri in un simile ambiente è talmente improbabile che solo la fantascienza può spiegarla»5. Questo richiamo alla fantascienza, la stessa che colora i tramonti sulle spiagge di Los Angeles, è una costante nel deserto del Mojave.
I colori elettrici, acidi o fluorescenti del deserto, «l’eleganza rugginosa» delle trivelle petrolifere, i viaggi spaziali e gli esperimenti atomici, sembrano evocare in continuazione scenari fantascientifici. Il deserto del Mojave costituisce una sorta di quinta ecologia, una striscia di terra arida alle spalle di Los Angeles, un frontiera interna, «la quintessenza di ciò che resta del mito spaventevole del Great Basin», in cui ritrovare, percepibili solo come tracce, talvolta microscopiche, quelle relazioni tra uomo macchina e natura che avevano caratterizzato anche il lavoro sulla metropoli californiana. Quello che più interessa Banham del deserto del Mojave è infatti proprio la sua straordinaria ricchezza di tracce della presenza umana: frammenti di progetti, oggetti abbandonati, rovine: «Le opere dell’uomo mi interessano quanto il paesaggio in cui sono inserite: le impronte dei pneumatici sulla sabbia, la vecchia macina accanto all’ingresso della miniera d’oro, il boschetto dove un tempo vi era una stazione, i tralicci scintillanti dell’alta tensione che si perdono all’orizzonte, il vecchio mulino a vento nel canyon e il nuovo ripetitore in cima alla montagna, la pittografia indiana e i graffiti contro la guerra, la roulotte parcheggiata in mezzo al nulla e il frammento di porcellana Coalport trovato nella sabbia dell’alveo asciutto di un fiume. Il Mojave è il mio deserto di riferimento perché vi sono molte tracce, le più svariate per storia e importanza, della presenza dell’uomo»6.

Anche se si tratta di un ambiente arido, il deserto è un luogo abitato, sia pure «moderatamente». Parafrasando e ribaltando il senso della celebre affermazione di Wright, secondo il quale nel deserto ha trovato Dio e non l’uomo, Banham ritrova invece l’uomo, la sua presenza mobile, le tracce delle sue opere7. Ecce homo sembra dire Banham. Un uomo abbandonato (forse proprio da Dio, come un povero Cristo) di fronte alla immensità e alla luce abbacinante dei deserti. La vastità dei deserti americani non ha il carattere mistico di quello islamico8. La vastità ostile del paesaggio desertico può aprire interrogativi sulla presenza dell’uomo nel mondo, sulla sua condizione di abbandono: «Guardo il Mojave perplesso e mi chiedo: forse il deserto è là dove si trova l’uomo e dove non si trova Dio? […] Sostanzialmente il concetto di deserto è pertinente all’uomo. In origine la parola significava “disabitato” […]. Si dovrebbe tenere a mente anche l’altro significato comune della radice della parola deserto come verbo: “abbandonare”»9.

Una condizione, quella dell’abbandono, che è rivelazione della presenza dell’uomo nel paesaggio, una presenza finalmente liberata dai condizionamenti di un Dio onnisciente e onnipotente10. Nei deserti Banham sembra incontrare l’essere come traccia, un essere consumato e indebolito (e per questo soltanto degno di attenzione): presenza da preservare nella fragilità di incontri casuali, con persone talvolta spregevoli, come il veterano del Vietnam, talvolta amabili, come il Troll di Nipton (una delle pagine più intense e toccanti del libro)11.

Giocando un po’ con le parole, il verbo “rivelare” può essere scomposto in “ri-velare”, velare di nuovo, cioè nascondere ciò che era appena stato scoperto. Una condizione di duplicità che riguarda il rapporto tra luce e ombra, tra evidenza e mistero. La luce abbagliante del deserto sembra rivelare zone di imperscrutabilità. Il deserto crea una sconnessione tra ciò che è visibile e ciò che è dicibile. Nella luce abbagliante del deserto il paesaggio sembra dissolversi in un tripudio dei colori12. Silenzio, calura, luce diventano improvvisamente visibili. In un contesto feroce in cui gli occhi sono «abbacinati, la sensibilità trafitta, la coscienza trasformata» vengono meno le parole per descrivere le sfumature visibili dei colori: «I colori incorporei che infestano il deserto (non potremmo dire altrimenti) mandano misteriosamente in cortocircuito un processo di differenziazione razionale che è costato all’uomo occidentale lunghi secoli di esercizio verbale delle sue facoltà intellettuali»13.

Un piccolo e prezioso libro sui deserti, dello storico d’arte americano John Van Dyck, fornisce a Banham le parole, «il lessico dei colori». «Il deserto è essenzialmente aria colorata» scrive Van Dyck, dunque un fatto visibile, nota Banham. Di fronte a questo spettacolo visivo, in cui le vecchie categorie del sublime e del pittoresco risultano inadeguate, ci si trova impreparati.

Di fronte all’evanescenza delle forme fisiche, all’evanescenza del paesaggio, l’evocazione del deserto diventa percezione estetica del colore, arte astratta: «Ho accarezzato l’idea che nel semplice accostamento fra orizzontale e verticale e nelle ampie pennellate di tonalità e consistenza uniforme, il deserto potrebbe evocare certi elementi iconografici dell’arte astratta, un’ipotesi che sono tuttora riluttante ad abbandonare, in particolare perché essi rappresentano delle immagini molto famigliari, persino emotivamente importanti per me e la mia generazione. Non è difficile cogliere un Mondrian in certi deserti, o un Pollock in altri. Alcuni pittori astratti, come Helen Frankenthaler, hanno dipinto opere veramente efficaci in cui non si distingue alcun elemento della rappresentazione, le quali tuttavia sono totalmente permeate dal senso del deserto»14. Un concetto ribadito poche pagine più avanti: «Ecco perché sono ancora restio ad abbandonare l’idea che ci possa essere una certa coerenza tra l’immagine del deserto e alcune forme di arte astratta»15.

Questa relazione tra l’uomo (la cui presenza è rilevabile come traccia) e l’ambiente arido (il cui paesaggio si offre come rappresentazione astratta) costituisce una fragile ecologia, tratteggiata implicitamente solo per il deserto del Mojave. L’occhio dell’osservatore rimane tuttavia condizionato dai filtri della cultura di appartenenza, in particolare (per Banham) dai filtri della cultura europea, dalle letture, come quella di Doughty, Travels in Arabia Deserta, che ispira il titolo Scenes in America Deserta. Si tratta di un filtro culturale che si rivela inutile. L’inadeguatezza a comprendere il deserto, l’incapacità a ricondurlo alla propria cultura di riferimento, (atteggiamento tipico del colonizzatore), se da una parte costituisce una «grave deprivazione», dall’altra permette di «osservarlo con un’ingenuità e un’innocenza nello sguardo» che genera in Banham «stupore» e «meraviglia» di fronte allo svelamento di un paesaggio mai visto prima. Si tratta della stessa ingenuità e innocenza con cui Banham osserva e legge Los Angeles, come se la frequentazione dei deserti, a partire dal 1968, fosse servita come atto di purificazione per liberare lo sguardo dai residui culturali della tradizione europea16.

La conclusione del libro è un invito a proseguire il viaggio. Come «un turista insicuro», che «ancora si chiede perché i deserti d’America [siano] così avvincenti, così affascinanti e – soprattutto e nonostante tutto – cosi belli». Un’esplorazione che solleva nuovi interrogativi che rimangono sospesi nella contemplazione di un paesaggio astratto e inconscio: «Il deserto ha indubbiamente influenzato la mia vita e quella di molti suoi patiti; qui mi sono posto domande che altrimenti non mi si sarebbero mai presentate, Ma non ho trovato risposte convincenti […]. Semmai mi sono perso, poiché ora sento di capirmi meno di quanto mi capissi prima»17.

L’inconscio adolescenziale (fatto di film, riviste, bibite, oggetti dell’industria americana), che aveva accompagnato Banham nella sua esplorazione di Los Angeles, assume nel Mojave, il deserto della prima volta, una dimensione più profonda. Diventa inconscio dell’infanzia trascorsa nel Norfolk. Nel tentativo di trovare una risposta nel vissuto della memoria, Banham apprende la stessa lezione imparata da Benjamin, lezione che si rivelerà fondamentale nella lettura di Los Angeles: «Non sapersi orientare in una città non significa molto. Ci vuole invece una certa pratica per smarrirsi in essa come ci si smarrisce in una foresta»18.

Andrea Vergano

Questo testo è estratto dal libro Viaggio su territori altrui. Le Corbusier a New York, Reyner Banham a Los Angeles

Immagine di copertina: Emanuele Piccardo, Zabriskie Point, 2012

1. R. Banham, Scenes in America Deserta, London 1982; trad. it., Deserti americani, Einaudi, Torino 2006.

2. A. Vidler, Introduzione a R. Banham, Los Angeles. L’architettura di quattro ecologie, Einaudi, Torino 2009, p. xxviii.

3.J.Baudrillard, America,SE, Milano 2000, pp. 63-64

4. È tra il deserto del Mojave e le frange periferiche di Los Angeles, tra le rovine della colonia socialista di Llano del Rio, «il miglior punto di osservazione» sulla città, che prende avvio il libro-manifesto di denuncia su Los Angeles di Mike Davis. M. Davis, City of Quartz. Excavating the future in Los Angeles, Verso Book, London-New York, 1990; trad. it., Città di quarzo. Indagando sul futuro di Los Angeles, manifestolibri, Roma, 1999.

5. R. Banham, Deserti americani, cit., p. 38.

6. R. Banham, Deserti americani, cit., p. 185.

7. Parlando del deserto dell’Arizona F.L. Wright cita Hugo: «Victor Hugo ha scritto: “Il deserto è là dove si trova Dio e dove non si trova l’uomo”. Tale è il deserto dell’Arizona». F.L. Wright, An Autobiography, Scottsdale, 1932-1998; trad. it., Una autobiografia, Jaca Book, Milano 2016, p. 276.

8. Con riferimento al deserto islamico, Christian Norberg-Schulz ricorda il proverbio arabo: «Più ti addentri nel deserto, più ti avvicini a Dio». C. Norberg-Schulz, Genius Loci: Towards a Phenomenology of Architecture, Rizzoli, New York, 1979, trad. it., Genius Loci. Paesaggio ambiente architettura, Electa, Milano 1979, p. 45.

9. R. Banham, Deserti americani, cit., pp. 189- 190.

10. Un’altra vastità, quella del paesaggio argentino della Pampa, aveva suscitato in Dino Campana una sensazione di libertà e di conciliazione con la natura: «Mi ero alzato. Sotto le stelle impassibili, sulla terra infinitamente deserta e misteriosa, dalla sua tenda l’uomo libero tendeva le braccia al cielo infinito non deturpato dall’ombra di Nessun Dio». D. Campana, Pampa, in Canti Orfici, Vallecchi, Firenze 1985 (ed. originale 1914).

11. Le coincidenze mi hanno portato a rileggere l’introduzione a Il pensiero debole di Vattimo e Rovatti, di cui sono debitore per la frase riportata in corsivo. P.A. Rovatti, G. Vattimo (a cura), Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano 1983, p. 9.

12. Ancora Baudrillard sintetizza quella che sembra essere un’intuizione di Banham: «il deserto non è più paesaggio, è la forma pura risultante dall’astrazione di tutte le altre». J. Baudrillard, America, cit., p. 138.

13. R. Banham, Deserti americani, cit., p. 209.

14. R. Banham, Deserti americani, cit., p. 205

15. R. Banham, Deserti americani, cit., p. 209

16. Si legga ad esempio la gustosa descrizione dell’hamburger fantastico: «preparato accuratamente, l’hamburger può essere un’opera d’arte visiva; e in effetti, deve essere considerato anzitutto come arte visiva, poiché alcuni ingredienti sono presenti in quantità troppo piccole per dare un contributo gustativo di qualche significato, mentre all’opposto, ben più decisivo è l’apporto cromatico», R. Banham, Los Angeles, cit., p. 91.

17. R. Banham, Deserti americani, cit., p. 210.

18. W. Benjamin, Berliner Kindheit um neunzehnhundert, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1950; trad. it., Infanzia Berlinese, Einaudi, Torino 2007, p. 18.