“Dall’Africa giunge sempre qualcosa di nuovo” scriveva Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia. Venti secoli dopo, ancora ce ne stupiamo. In fondo l’Africa, con le sue contraddizioni, rappresenta un territorio carico di sfide e insegnamenti. Per questo motivo, le opportunità di riflessione che questo continente ci offre appaiono cruciali a determinare nuove strade per il futuro dell’umanità. Sotto questo auspicio si è aperta a Venezia la biennale curata da Lesley Lokko, architetta, scrittrice e docente. Lokko vanta un curriculum vitae invidiabile. Nasce in Scozia da madre scozzese e padre ghanese, inizia gli studi alla Oxford University, ma si laurea alla Bartlett School of Architecture. Inizia la carriera accademica insegnando in diverse università statunitensi e successivamente ottiene un PhD in architettura presso l’Università di Londra. Scrive per The Architectural Review e pubblica diversi romanzi. In campo architettonico i suoi interessi hanno riguardato i temi della cosiddetta critical race theory (cfr. il libro White Papers, Black Marks: Architecture, Race, Culture a cura di Lesley Lokko, University of Minnesota Press, 2000), un approccio di ricerca multidisciplinare che mette al centro i diritti civili, i movimenti politici e culturali, le leggi, cercando di spiegare come le concezioni sociali e l’ambiente costruito siano influenzati dai concetti di razza ed etnia.

Un approccio estremamente pragmatico, a tratti perfino naïve, che suona come una doccia fredda per gli ambienti progressisti europei legati agli ideali della rivoluzione francese esemplificati dai concetti di libertà, uguaglianza e fratellanza. Quello che Lokko assieme ad altri studiosi propone, è un processo di revisione della storia alla luce della nozione pregiudiziale di razza, con l’intento di elaborare una teoria critica capace di denunciare stereotipi e discriminazioni.

Lokko è anche la fondatrice e direttrice dell’African Futures Institute di Accra, in Ghana, una scuola di architettura e piattaforma di eventi pubblici attiva secondo un modello descritto sulla propria pagina web come “charity incorporated as a Company Limited by Guarantee”. L’African Futures Institute si occupa di evidenziare il contributo architettonico emergente dai paesi africani, dando visibilità a idee e pratiche poco conosciute e solitamente non raccontate dai media. L’intento dell’istituto è quello di considerare l’Africa come un laboratorio di esperienze che possano creare una nuova agenda culturale, politica e pedagogica. Questa premessa risulta necessaria per capire gli intenti della curatrice e il significato del titolo della mostra: The Laboratory of the Future. Ci troviamo di fronte ad un caso molto particolare in cui la Biennale di Venezia funge da cassa di risonanza di un altro ente. Dunque l’Africa è teoricamente al centro della mostra, con il suo variegato patrimonio di sperimentazioni e conoscenze e l’interesse destato da questo continente ci impone di mettere da parte polemiche su opportunità e conflitti di interesse della curatrice.

Prima di oggi non vi erano stati focus specifici su architetti africani operanti nel mondo, né tantomeno ci si era mai interessati alle proposte e alle idee provenienti da paesi emergenti o in via di sviluppo. Unica eccezione è stata la seconda mostra biennale sull’“Architettura nei Paesi Islamici” curata da Paolo Portoghesi nel 1982-83, che voleva mettere Venezia al centro di un confronto tra oriente e occidente, riflettendo sulle influenze della cultura islamica nell’opera dei maestri del moderno e focalizzandosi sull’opera di giovani progettisti che proponevano di ibridare le antiche tradizioni locali con nuove tecniche e funzioni. I giardini della biennale offrono due luoghi dove poter approfondire le idee di Lokko. Una è il padiglione centrale mentre l’altra è il Padiglione Stirling. Quest’ultimo è dedicato ad illustrare le attività di Demas Nwoko (1935), artista-designer per usare un’autodefinizione, vincitore del Leone d’oro alla carriera su proposta della Lokko. Su di lui si trovano poche notizie, se non quelle pubblicate nei pannelli e nelle didascalie della piccola mostra a lui dedicata. Figlio di un Obi (sovrano) del sud della Nigeria, studia prima architettura e poi arte. Membro fondatore della Zaira Art Society –un gruppo noto anche come Zaira Rebels- Nwoko si è formato con l’idea di elaborare un linguaggio autentico, ispirato alla modernità ma che riflettesse lo spirito di indipendenza politica che investiva l’Africa del secondo dopoguerra. Tra le sue opere la più significativa è l’istituto domenicano realizzato a Ibadan (1970-75) la cui cappella appare sgrammaticata e incomprensibile se analizzata attraverso il filtro occidentale del razionalismo o del post-moderno. La comunità cercava una cappella africana, con valenze plastiche sia date da richiami formali che tipologici all’architettura e all’artigianato locale. Ecco che nel progetto emerge un senso dei materiali e del luogo a noi ignoto. Possiamo solo utilizzare la lente di Antoni Gaudí o Bruce Goff per analizzare l’opera e per comprendere quanto sia carica di significati espressivi e finanche di rottura.

Meno emblematiche appaiono le altre opere, spesso incomplete, mentre destano una certa curiosità i tentativi pedagogici condotti nella New Culture Studio School for Arts and Design, un’istituzione fondata da Nwoko e attiva dagli anni ‘90, ma le cui idee sono maturate nel corso dei decenni precedenti. In un dépliant pubblicitario di questa scuola si può leggere degli interessi e delle idee di Nwoko: studio delle tradizioni artistiche e artigianali africane, nuova arte africana intesa come nuova dimensione estetica distante dai patchwork di arte straniera e valori africani, dimensione sensuale del progetto di architettura, enfasi sulla cultura anziché sulla tecnologia, dubbi nei confronti del computer, esseri umani al centro del progetto e concepiti come portatori di cultura alla ricerca di comfort anziché di standard o tecnologia. Parole solo in parte condivisibili e tutto sommato vaghe, alla luce di poche e modeste realizzazioni. Il padiglione centrale dei giardini rinforza questa visione senza direzioni precise. Dopo un primo giro tra le sale al visitatore rimangono molti dubbi, non ci sono soluzioni e soprattutto nessuno tra gli architetti selezionati sembra poter impartire una lezione attraverso le sue opere. Ognuno, sia esso visitatore o architetto invitato ad esporre, cerca e trova cose diverse.

Lokko cerca letteralmente di tessere le trame della sua visione teorica con un’installazione intitolata Loom, in cui una serie di sagome rosse appese al soffitto dovrebbero rappresentare i progetti selezionati nelle varie stanze del padiglione centrale. I fili dell’installazione, come quelli di un telaio, dovrebbero metaforicamente intrecciare un tessuto che costituisce il progetto curatoriale di questa biennale. È stato osservato da molti esperti del settore come ci sia un’abbondanza di installazioni per comprendere le quali bisogna perdere tempo ed immedesimarsi nelle elucubrazioni degli architetti invitati. Ma questo varrebbe anche se fossero esposti i più tradizionali disegni o modelli. Il problema di questa mostra è invece quello di volersi porre come lo spaccato di un modo nuovo senza riuscirci.

L’ambizione di parlare della diaspora africana della curatrice cozza con il mancato tentativo di esplorare per davvero cosa succede dal punto di vista architettonico in Africa. Così questa biennale pone sul palcoscenico persone che pur avendo origini africane, operano principalmente in Europa e Stati Uniti, magari anche insegnando in prestigiose università occidentali. La Lokko, riferendosi ai progettisti, parla di “forze maggiori” ovvero idee e progetti che rappresenterebbero sconvolgimenti culturali e sociali tali da essere considerate cause di forza maggiore, per usare una definizione legale con cui vengono descritti i terremoti, i disordini sociali o le minacce dovute al cambiamento climatico.

Non sembra che i progetti in mostra abbiano alcun potere straordinario, ma probabilmente è già un buon risultato indagare una cultura ingarbugliata e complessa come quella di architetti africani che operano per il mondo. Rimane evidente il risultato di aver dato voce solo ai più privilegiati tra questi e di aver perso l’occasione di capire cosa propone chi opera tra le reali difficoltà del contesto africano e di altri contesti geografici.

Non a caso lo studio Adjaye Associates, tra i progettisti dello Smithsonian National Museum of African American History & Culture di Washington D.C., edificio tra i più significativi inaugurati durante la presidenza di Barack Obama, assume un ruolo dominante in questa biennale. Adjaye è infatti presente con un film nella prima sala del padiglione centrale, in un’altra sala con una serie di modelli che rappresentano gli ultimi progetti dello studio, infine con una grande installazione dalla facciata triangolare presso la sede dell’arsenale. Hood Design Studio reinterpreta i paesaggi culturali neri di Charleston, La Carolina del Sud e il Lowcountry, luoghi carichi di storia e conflitti sociali a causa della schiavitù: il bel giardino delle sculture di Carlo Scarpa viene contaminato da una flora inaspettata e da colonne ispirate ai cesti usati nella raccolta del riso.

L’installazione progettata da Francis Kéré, intitolata Counteract, si sviluppa come un lungo muro curvilineo che rappresenta passato presente e futuro dell’architettura. Piccole aperture mostrano esempi di edifici realizzati con tecniche costruttive tradizionali. Molti i tentativi di rappresentare dubbi anziché certezze, approcci più che progetti, azioni ancor prima delle realizzazioni. Se state cercando esempi di come progettare una scuola in un contesto con scarse risorse edilizie, economiche e tecnologiche o di come riqualificare una periferia troverete poche risposte. Anche i padiglioni nazionali risultano confusionari e vanno in tante direzioni diverse. Il bagno che trasforma i liquami in concime del piccolo padiglione Finlandese o le sculture in plastica riciclata degli Stati Uniti indagano solo parzialmente alcuni dei temi su cui gli architetti del futuro dovranno riflettere più seriamente per dare soluzioni alle grandi masse di individui che si muovono per il globo.

Non ci sono soluzioni in questa biennale. Eppure tutto ha un suo fascino. Il fascino di un mondo che se ne sta andando e di uno nuovo che arriva. Tutto quello che vi è nella mostra di Lokko è bello ma ancora inconsistente.

Mettiamoci tutti al lavoro.

Luca Guido

La fotografia di copertina è dell’autore e ritrae  Kéré Architecture, Counteract, padiglione centrale giardini della biennale, 2023