Make for Nature” è fare per noi stessi perché noi siamo natura. Siamo “esseri ecologici” 1 anche se, da Homo prometheus, l’abbiamo usata solo per i nostri scopi in una logica di dominio totale. Una incessante produzione di manufatti ha finito con l’identificare la natura come qualcosa di opposto (e non di distinto) dall’artificio. Un impiego massiccio di materiali carbon-intensive e, a partire dalla seconda metà del Novecento, una dispersione illimitata dell’urbanizzazione, fortemente consumatrice di suolo, hanno condotto l’ecosistema ad un punto di svolta: il tema della catastrofe, prima considerato in una prospettiva temporale lontanissima, si è ravvicinato in un immediato futuro. Le reazioni della natura nei confronti di una costante aggressione, come la contaminazione planetaria da virus Covid-19, pongono la specie umana di fronte alla propria vulnerabilità, alla necessità di ripensare le relazioni con l’ecosistema e i limiti dello sviluppo. Accelerando le tendenze in atto, la natura invita -anche attraverso lo choc che stiamo vivendo – ad un cambiamento profondo nelle forme di organizzazione della vita umana, in particolare degli spazi della densità e della concentrazione. Il modello della città moderna, estremizzato nella congestione metropolitana (con la rigida separazione nello spazio e nel tempo della residenza, del lavoro e del tempo libero), richiede una profonda revisione. Rarefazione, decongestione, desincronizzazione diventano opzioni strategiche per riabitare le città e i territori in armonia con la natura.

Una natura che ha dimostrato nel tempo una straordinaria tolleranza, una forma di resistenza silenziosa, di cui si ritrova un esempio nella lettura seminale di Georg Simmel della rovina: “un’opera dell’uomo (…) percepita alla fine come un prodotto della natura.” 2 Nella rovina, avviene una reazione corrosiva sull’artificio da parte della natura – intesa come “infinita connessione delle cose” 3 – una sorta di rivincita nei confronti della distruzione operata ai suoi danni. Ma si intravede anche una nuova forma di convivenza: la natura si riappropria gradualmente di sé stessa, amalgamandosi con l’artificio da cui era stata annientata. Questa dialettica indica la possibilità di una ricomposizione, di un arresto della corsa verso uno sviluppo senza limiti. In un nuovo inizio, in una nuova opportunità risiede il valore attuale dell’immagine simmeliana: oltre la frattura operata dalla catastrofe, la continuità implicita nella coesistenza. Quali tessere del mosaico evolutivo del palinsesto territorio, le rovine – dai ruderi alle aree dismesse – contengono in sé il germe di potenzialità future.


Luigi Manzione, The appel of ruins (an ongoing project between artifice and nature), 2021.

Come far coabitare natura, città e architettura senza ricadere in un “pensiero retrotopico” 4 ? L’integrazione del verde negli edifici mira alla riconciliazione tra artificio e natura, ma ciò avviene attraverso una reductio di entrambi i termini, al fine di naturalizzare l’architettura e, insieme, addomesticare la natura. Si realizzano dispositivi favorevoli all’ecosistema, tuttavia elitari, difficilmente replicabili in contesti diversi quali modelli accessibili a tutti e, pertanto, capaci di contrastare le urbanizzazioni disperse di case unifamiliari. Sul presupposto che la città, come artificio, si distingue dalla natura senza opporvisi, ci si può interrogare sul possibile destino di queste architetture verdi nel loro ciclo di vita; sui reali benefici di un accesso immediato alla vegetazione senza dover raggiungere parchi e giardini. Ci si può chiedere se, nel tempo, questi ibridi di architettura e natura permetteranno il mantenimento dell’equilibrio – generando una “nuova totalità” nel senso simmeliano – o favoriranno, invece, la colonizzazione dell’una sull’altra.

Dilatando lo sguardo, ritroviamo altre forme significative di cooperazione tra natura e artificio. In aree non più compiutamente formate dal lavoro dell’uomo si concentra la biodiversità, con la presenza di esseri ed oggetti eterogenei. Tra décalages e salti di scala, si producono frammenti di “Terzo paesaggio”5 , spazi marginali dove trovano rifugio alcune specie, altrove bandite. Con la formazione di residui (dalle aree dismesse ai terreni incolti), è l’urbanizzazione stessa a creare le condizioni propizie alla generazione di paesaggi collettori e selettori di diversità. Come nella rovina, insinuandosi senza un ordine apparente, la natura riprende il sopravvento e fa valere di nuovo i propri diritti nei luoghi dell’abbandono. Riconquistati da una vegetazione imprevedibile, questi si tramutano in territori di invenzione biologica e di inedite interazioni nell’ottica della diversità del vivente. Tali spazi richiedono, in parte, di essere lasciati o restituiti alla spontaneità della natura: la pianificazione deve quindi misurarsi con la contaminazione e la “non-gestione”, ripensando le proprie teorie e pratiche per promuovere, nella prospettiva del “vivere insieme”, le connessioni tra le specie.

La presenza contemporanea di specie, spazi, tempi diversi nel “Terzo paesaggio” induce a riflettere sulle relazioni tra urbano e rurale, in particolare sulle “campagne urbane”6 – aree interstiziali, vuoti in attesa di edificazione, spazi disponibili per infrastrutture – soggette a trasformazioni rapide e spesso destinate a diventare future periferie. Connessa alle storie e alle geografie dei territori, la campagna urbana è spazio indeciso, verso il quale ci si può porre in continuità con la tradizionale visione urbanocentrica, legittimando il suo sfruttamento in una logica economicistica, oppure fare in modo che diventi pienamente partecipe della transizione ecologica. Al di là delle funzioni più o meno dismesse, le qualità degli spazi liminari tra urbano e rurale evidenziano l’opportunità di una tutela a vantaggio dell’equilibrio ecosistemico, anche come aree libere a contrasto della saldatura tra centri limitrofi, con modalità di abitare plurali e coerenti con le vocazioni dei territori.

Con la reintroduzione dell’orizzonte rurale nella città, lo spazio periurbano individualistico e frammentario può diventare luogo di pratiche condivise, a partire dagli abitanti e con il contributo di architetti, urbanisti e paesaggisti. Le campagne urbane possono accogliere attività da salvaguardare in quanto necessarie alla vita e diventare ambienti apprezzati, dove ricostruire connessioni feconde tra ruralità e urbanità, favorendone la trasformazione, in certi casi già operante7 , in nuovi spazi abitabili. Il futuro delle città si gioca anche in questi territori, costituiti da insiemi di pianure agricole, di paesi cresciuti lungo lottizzazioni recenti, di zone di attività produttive e commerciali, di parchi a tema, dove una rete urbanizzata a densità variabile, con flussi consistenti di persone e merci, genera nuove centralità e variegate morfologie fisiche e sociali. Le politiche territoriali dovrebbero accompagnare questi processi, in cui la campagna è, al contempo, luogo produttivo e paesaggio, e non solo riserva per parchi e giardini a servizio della città densa.


Luigi Manzione, The appel of ruins (an ongoing project between artifice and nature), 2021.

Gli spazi periurbani potrebbero essere ripensati in base alla loro multifunzionalità, investendo sulle qualità dell’agricoltura per favorire una relazione diretta con la terra. Nella evoluzione verso una urbanità rurale, quello delle campagne urbane diventa allora un progetto di abitabilità sostenibile, in rapporto di reciprocità, e non di opposizione, con la città. Le cinture e i corridoi verdi, progettati in vista del contenimento della crescita “minerale” dei centri, dovrebbero promuovere una diffusa interpenetrazione tra città e campagna, con la presenza delle tre grandi categorie di spazi territoriali (urbano, agricolo, selvaggio). Le città, scenari principali per la sfida del cambiamento climatico in virtù della concentrazione di attività, risorse, consumi, hanno tutto da guadagnare da questa interpenetrazione, che può estendersi alle aree interne e ad altre parti finora trascurate del territorio. Ciò consentirebbe di affrontare in modo sistemico la transizione, tanto più che negli spazi urbani il rapporto con la natura si è sempre basato su una logica di confinamento e, nella città moderna, si è esasperata la differenza rispetto alle altre specie animali e vegetali, sottraendo loro ambienti di vita. Occorre quindi rivedere, nella prospettiva della biodiversità, la nozione tradizionale di città intesa come ambiente artificiale ed esclusivo della specie umana8 .

Le emergenze attuali (economica, climatica, pandemica) impongono una inversione di tendenza in direzione della convivenza. Nonostante i ritardi e le incertezze, la politica ha delineato un orizzonte nei prossimi trenta anni. Desta tuttavia perplessità il fatto che il Ministero italiano della transizione ecologica comprende solo le competenze dell’ambiente e dell’energia, escludendo quelle dei lavori pubblici, delle infrastrutture e della mobilità, rientranti ad esempio nell’omologo ministero francese. Nel colmare il divario e superare una crisi profonda, l’architettura si trova di fronte ad una duplice sfida: ecologica e disciplinare. A rielaborare, ad esempio, temi e soluzioni provenienti dalle tecnologie rinnovabili e dai materiali sostenibili per assumerli come “elementi” a pieno titolo del progetto, da utilizzare in maniera ragionata. Un’appropriazione consapevole è necessaria per non condannarsi ad una sostanziale irrilevanza nel contesto di una auspicabile “transizione giusta”, trainata da una economia fondamentale quale “base materiale del benessere e della coesione sociale”9 . Si profila, insomma, non solo una transizione ma anche una rivoluzione ecologica, mirante a sovvertire antichi assetti di potere e di privilegio a vantaggio di poche minoranze. Anche in questo senso, bisognerebbe riformulare, oltre un consolidato paradigma urbanocentrico, un’architettura fondamentale al di là degli imperativi del mercato e della moda.

Luigi Manzione

01.02.22

1. Secondo Timothy Morton, Noi, esseri ecologici [2007], Laterza, Bari-Roma 2018.))

2. Georg Simmel, “Le rovine” [1907], in Saggi sul paesaggio, Armando Editore, Roma 2006, p. 73.))

3. Idem, “Filosofia del paesaggio” [1913], in Saggi sul paesaggio, cit., p. 54.

4.  Cfr. Franco Purini, Discorso sull’architettura. Cinque itinerari nell’arte del costruire, Marsilio, Venezia 2022, p. 88.

5. Gilles Clément, Manifesto del Terzo paesaggio [2004], Quodlibet, Macerata 2014.

6.  Pierre Donadieu, Campagne urbane. Una nuova proposta di paesaggio della città [1998], Donzelli, Roma 2013.

7.  V. le esperienze riportate in AMO-Rem Koolhaas, Countryside: A Report, Taschen, Köln 2020.

8.  Cfr. Stefano Boeri, Urbania, Laterza, Bari-Roma 2021, pp. 31-39 e pp. 149-157.

9.  Collettivo per l’economia fondamentale, Economia fondamentale. L’infrastruttura della vita quotidiana, Einaudi, Torino 2019.

Immagine di copertina: Luigi Manzione, Contrada Vignali, 771 (Postiglione, SA), 2021. Dal progetto The appel of ruins (an ongoing project between artifice and nature).