La questione della relazione tra architettura e natura affascina progettisti e studiosi da molti secoli, ma è nell’età moderna che acquista una propria dimensione teorica, suscitando riflessioni e sperimentazioni da parte di numerosi architetti e artisti. L’idea che la natura abbia un potenziale architettonico era abbastanza chiara agli architetti del periodo barocco. In fondo, si trattava di una strada già indicata dagli antichi, e re-direzionata in senso completamente nuovo da Michelangelo che, con la sua poetica del non-finito, aveva intuito il significato estetico racchiuso nella materia grezza. Tra i tanti esempi che si potrebbero fare, si pensi ad alcune finestre di Palazzo Ludovisi, oggi Montecitorio, progettato dal Bernini, in cui le forme precise e squadrate delle modanature sono accostate a blocchi dalle sembianze rocciose. Non si tratta di semplici bugne, ma di veri e propri affioramenti rustici, contrapposti alle geometrie esatte della facciata. La naturalità degli elementi di questi blocchi informali risulta persino rafforzata dalla vegetazione, pietrificata dallo scultore nella materia, grazie a rapidi segni di scalpello. Oppure si consideri lo scenografico spigolo della fontana di Trevi di Nicola Salvi che cristallizza la scena di un’ipotetica scossa tellurica, rendendo evidente la metamorfosi della roccia nella sua forma architettonica. O ancora, si provi a visualizzare mentalmente la cupola di Sant’Ivo alla Sapienza, così somigliante alla forma a spirale che ritroviamo in certe conchiglie, oggetti non a caso collezionati da Borromini.

Charles Eisen, Frontespizio dell’Essai sur l’architecture di Marc-Antoine Laugier, 1755

Altrettanto evocativo è il famoso frontespizio della seconda edizione dell’Essai sur l’architecture di Marc-Antoine Laugier del 1755 che rappresenta un’allegoria dell’architettura, sintetizzata dal contrasto tra figure mitologiche, frammenti di architettura classica e l’immagine della capanna vitruviana primitiva1. Tuttavia, la capanna formata da alberi è il vero soggetto della scena; essa colpisce per i tronchi che rappresentano colonne e i rami che alludono a un timpano, suggerendo un’origine naturale degli elementi dell’architettura. L’architettura viene dunque interpretata attraverso il binomio ragione-natura e il concetto di decorazione acquisisce un diverso significato. Conseguentemente, Laugier si convince che l’architettura fondi i suoi principi estetici sulla semplicità riscontrata in alcune manifestazioni naturali. Sulla scia dell’Illuminismo, lascia intendere che la sua legittimazione si possa ritrovare negli elementi essenziali, ovvero strutturali, indipendenti dall’apparenza formale, in altre parole, indipendenti dagli apparati decorativi.

Questo ragionamento costituisce un antefatto critico-filosofico dei processi di astrazione messi in atto dalle avanguardie artistiche che hanno basato buona parte dei propri esiti sul superamento dei concetti di decorazione e arti applicate. Allo stesso tempo, il rapporto architettura-natura diviene centrale nelle opere di diversi maestri del novecento i cui progetti sembrano caratterizzati da pensieri, immagini e impulsi ricorrenti. Il foro circolare presente nel solaio di copertura del padiglione dell’Esprit Nouveau, progettato da Le Corbusier e Pierre Jeanneret, in occasione dell’Exposition Internationale des Arts Décoratifs et Industriels Modernes del 1925, testimonia questa unione problematica tra artificio progettuale e mondo naturale che è tipica del moderno. Quel foro circolare non ha ragione di esistere senza l’albero che lo attraversa, per quanto quest’ultimo venga deprivato della sua dimensione naturale e partecipi al gioco architettonico delle geometrie e dei volumi come un elemento della composizione. In effetti, nel progetto di Le Corbusier, la posizione di quell’albero e la dimensione del buco nel solaio di copertura escludono categoricamente una relazione con l’ambiente esterno, rappresentato dal cielo sovrastante. Lo si capisce dal fatto che il piccolo padiglione non era altro che un prototipo da assemblare in serie, ovvero era un’unità abitativa di un sistema più grande, teorizzato sin dal progetto per gli Immeubles-villas del 1922, che prevedeva edifici caratterizzati da grandi superfici vetrate e terrazze abitabili piene di arbusti.

Ci troviamo di fronte a una sorta di modello per un’eterotopia moderna, un’utopia situata, ovvero un luogo che si presenta assolutamente differente rispetto a tutti gli altri presenti nella città storica. L’eterotopia, per dirlo con le parole di Michel Foucault, è una visione che “ha come regola quella di giustapporre in un luogo reale più spazi che normalmente sarebbero, dovrebbero essere incompatibili”2.

L’idea di progettare spazi per l’uomo e per la natura trova poi una soluzione anche a scala urbanistica attraverso il progetto della Ville Radieuse del 1930, e delle sue successive varianti e adattamenti che racchiudono il sogno di dare forma a sistemi urbani differenti dal passato. Dopo i viaggi in Europa, Russia e Sud America, Le Corbusier immagina una città nuova, in cui gli edifici determinano aree residenziali immerse in spazi caratterizzati da alberi e arbusti. Le strade carrabili non hanno più motivo di esistere, se non come risposta al problema trasportistico, come ben rappresentato dai disegni. La città diventa una città giardino, ‘verde’ come diceva Le Corbusier, e gli edifici si trasformano in pura architettura, allontanando la vegetazione e riorganizzandola all’esterno. La componente utopica si sposta nel giardino, per poi confluire nelle gigantesche dimensioni delle aree destinate agli spazi verdi. Ma la carica visionaria di questa idea di città ha una sua efficacia fin tanto che le autorità sono in grado di gestirne gli spazi aperti, oltre che i volumi costruiti. Nei progetti urbanistici di Le Corbusier gli edifici vengono distanziati l’uno dall’altro e sono solitamente collocati in grandi parchi. Gli abitanti praticano le attività sportive quotidiane alla base delle proprie abitazioni e le automobili vengono spostate altrove, dove sono utili, configurando paesaggi fatti di velocità3. Una visione affascinante quanto complessa, che ha tuttavia mostrato l’arbitrarietà e i limiti della separazione delle funzioni nella pianificazione delle città. La città di Le Corbusier, pur pensata per l’essere umano, viene plasmata da esigenze prettamente architettoniche, derivate da rapporti proporzionali, schemi geometrici, statistiche insediative, slogan ideologici.

Come hanno dimostrato molti dei quartieri urbani costruiti sulla base di un approccio fideistico nei confronti principi di Le Corbusier, gli spazi verdi tra gli edifici sono stati percepiti dagli abitanti come terra di nessuno. La fiducia nei numeri e negli schemi del funzionalismo e il conseguente disinteresse da parte delle autorità hanno poi generato grandi vuoti urbani, idealisticamente derivati della mentalità igienista e progressista del moderno, ma in realtà frutto della segregazione sociale imposta dalla società capitalistica contemporanea. Il fallimento dell’applicazione delle teorie urbanistiche lecorbuseriane sta proprio in questo tentativo di utilizzarle come strumento di conferma dello status quo, di separazione tra classi sociali.

Loos, al contrario di Le Corbusier, aveva in qualche modo rifiutato l’idea di trovare una soluzione alla questione del rapporto architettura-natura. Proprio per questo motivo l’architettura di Loos appare programmaticamente spoglia, presentandosi come una proposta conciliatoria tra le istanze rivoluzionarie della vita moderna e le esigenze della tradizione costruttiva. Le opere più significative di Loos non sono mai dei prototipi, esse mancano sempre di slancio inventivo nelle strutture oltre che di creatività tecnologica.

La vicenda della costruzione della Casa in Michaelerplatz è emblematica per comprendere il distacco con cui l’architetto austriaco affronta il tema dell’integrazione tra elementi naturali e facciata. Come noto, Loos ottenne la possibilità di completare la costruzione grazie a un compromesso che metteva d’accordo l’ufficio urbanistico comunale e l’opinione pubblica che criticavano la mancanza di ornamenti. La proposta di Loos prevedeva l’inserimento in facciata di una serie di vasi di bronzo provvisti di fiori. Una soluzione chiaramente di comodo da parte di Loos, che prevedeva un utilizzo temporaneo dei vasi.

Rifiutata l’idea di considerare la natura parte del progetto della modernità, l’architettura di Loos non raggiunge mai la dimensione utopica e allo stesso tempo pragmatica che si ha nelle visioni di Le Corbusier. Proprio per questa incompletezza, le opere di Loos rappresentano un ottimo serbatoio creativo per il futuro, avendo lasciato inesplorato un ampio territorio. Su premesse differenti si basa invece il rapporto architettura-natura nelle opere di Frank Lloyd Wright. Per l’architetto americano la natura non è un elemento del progetto come per Le Corbusier, ma è architettura essa stessa. Gli edifici di Wright non possono essere considerati senza il contesto che vanno a determinare. Non bisogna lasciarsi ingannare dai motti dell’architetto per cui la casa nasce ‘dal’ terreno e non ‘sul’ terreno o dalla critica elogiativa che descrive gli edifici di Wright quali concezioni in armonia con la natura. Queste spiegazioni guardano alla superficie e non ci lasciano intravedere la portata dell’eredità dell’insegnamento di Wright. Se l’architettura è invece concepita come un essere vivente, la sua potenzialità non sta solo nell’adattarsi al paesaggio circostante, ma piuttosto nella capacità di riconfigurare l’ambiente in cui sta per insediarsi. Portando alle estreme conseguenze il ragionamento, si potrebbe affermare che la cascata non gioca nessun ruolo nella concezione di Fallingwater, la famosa Kaufmann House del 1936, ma è il progetto di Wright che genera un nuovo ordine estetico, in cui l’ambiente scaturisce dall’architettura.

Si tratta in fondo di quel processo di naturalizzazione dell’architettura già avviato nei secoli precedenti e qui compiuto con altri mezzi. Si pensi alla presenza di materiali naturali nella casa e soprattutto al modo in cui essi partecipano al discorso architettonico di Wright. Significativo appare un particolare del progetto di Fallingwater. Tra i tiranti che connettono la casa alla roccia della montagna, creando una sequenza di travi sospese sulla strada, ve ne è uno che si curva per accogliere un albero. Se, come abbiamo accennato poco sopra, in Le Corbusier è l’albero che viene deprivato della sua naturalità, qui, nel progetto di Wright, è l’architettura che trascende il proprio statuto filosofico, perdendo senso strutturale e costruttivo. Si inaugura così un processo di naturalizzazione dell’architettura, che non ha nulla a che vedere con la ricerca formale, bensì con quella spaziale, ovvero col tentativo di ridefinire la relazione essere umano-architettura-natura. Sia per Wright che per Le Corbusier, in modi differenti, la natura non viene mai messa su un piano subalterno e in questa relazione risiede il portato etico dell’architettura moderna.

Una delle lezioni del moderno consiste in questa centralità della natura, problematica e contraddittoria, ma mai epidermica, come nel caso di molte recenti realizzazioni, in cui gli elementi della natura assumono ruoli decorativi e retorici.

Luca Guido

1. Marc-Antoine Laugier, Saggio sull’architettura, Palermo, Aesthetica, 1987

2. Michel Foucault, Utopie Eterotopie, Napoli, Edizioni Cronopio, 2020, p. 18

3. Le Corbusier et Pierre Jeanneret, Oeuvre complète, volume 3, 1934-1938, Zurich, Les Editions d’Architecture, 1986

Immagine di copertina: Frank Lloyd Wright, Particolare di Casa Kaufmann, Mill Run, Pennsylvania, 1936, fotografia di Luca Guido