La sostenibilità in ambito urbano è declinabile in almeno tre modi: quale città ecologicamente appropriata? quale città socialmente ed economicamente aperta? quale città temporalmente coerente? Sostenibile è una città basata sulla nozione (ragionata e consensuale) di limite nell’uso del suolo e nella formazione e gestione di manufatti e spazi aperti. Il tema è politico prima che disciplinare: gli apparati normativi e le disposizioni legislative dovrebbero essere supporto ed espressione di una cultura e di una coscienza civica. Ma ciò non sempre accade poiché, in concreto, si offrono opportunità per operare, grazie a incentivi e premialità, in direzioni divergenti dalla nozione di città sostenibile.
Come il consumo in generale, il consumo di suolo riguarda in prevalenza beni di cui non si ha un reale bisogno, se non quello creato dal mercato e dalle ideologie dominanti nel campo dell’abitare. Aspirazione o meno verso migliori condizioni di vita, la dispersione urbana rappresenta più un potenziamento di status sociale1 che un soddisfacimento di bisogni primari. Gli appelli alla densificazione, che non può essere diretta o orientata dal mercato, e alla compattezza si rivelano allora fondati, se si tiene conto che la mobilità individuale a largo raggio nel periurbano (frutto di scelta o di imposizione) ha un impatto rilevante sulle emissioni di CO2, oltre a contribuire, con le sempre più estese reti di strade e parcheggi, all’aumento della impermeabilizzazione del suolo. È allora l’idea di crescita che occorre ripensare, concentrandosi sull’esistente: “costruire meno (…) e quel poco costruirlo secondo i principi di durevolezza e densità”2 ; introdurre dunque efficaci regole di pianificazione nel rispetto del consumo di suolo zero, con l’arresto di nuove urbanizzazioni non generate da necessità di base, di sicurezza e di protezione. I temi del consumo di suolo, del riuso e della densità – che non deve escludere il verde, né tradursi in pura artificializzazione – sono connessi alla prossimità e alla temporalità urbana, ossia alle distanze quotidiane ragionevoli3.
Il consumo, inoltre, non è estraneo alla obsolescenza programmata, espressione della supremazia del mercato nella costruzione della città. Un esempio paradigmatico è la Fondation Louis Vuitton a Parigi, nota per la gestione del ciclo di vita, oltre che per la lievitazione astronomica dei costi (circa otto volte il budget iniziale) e per le accuse di frode ed evasione fiscale. Per questo “lussuoso regalo avvelenato”4 , è stata stabilita una durata di vita di 55 anni (a partire dal 2007), al termine dei quali la municipalità, proprietaria del suolo, lo sarà anche del complesso architettonico. Per coprirsi le spalle riguardo alla funzione che eserciterà nel 2062 e ai rischi relativi al futuro stato di conservazione di un edificio realizzato con grandi superfici vetrate dalle forme complesse e dalla geometria aleatoria, la fondazione offre questo regalo al pubblico dopo averne sfruttate, a fondo e con cinismo, tutte le potenzialità economiche e rappresentative nel tempo prestabilito. Una ulteriore dimostrazione, questa, che affinché un’architettura sia redditizia basta separare il valore materiale dal valore commerciale, destinando senza remore le voci in nero di bilancio alla demolizione (o al trasferimento potenzialmente “avvelenato”).
La durata del costruito non è più determinata dal degrado naturale, fronteggiato in passato con una sistematica manutenzione, ma dalle condizioni di utilità e redditività definite dal mercato. La durevolezza, presupposto essenziale della città di pietra, viene così sostituita da cicli di vita sempre più brevi, a dispetto della pletora di indicazioni e prescrizioni delle normative di sostenibilità (“criteri ambientali minimi”). Da spazio della dialettica tra permanenza e trasformazione, la città diviene mero supporto materiale di operazioni immobiliari che, imposte da una sostenibilità eterodiretta, poco o nulla hanno a che fare con la sua natura di insediamento umano di lunga durata. In quanto tale, la città pone anzitutto il tema della equità, oggi sempre più evanescente: si veda il modello Milano al centro della cronaca e del dibattito5 .
Una città è sostenibile se in grado di limitare le emissioni climalteranti. Nello sterminato repertorio delle soluzioni possibili vanno tuttavia distinte, con un approccio critico, quelle efficaci e necessarie dagli espedienti di greenwashing, talvolta originati anche da buone intenzioni. I prototipi di architettura della biodiversità – come il Bosco verticale – dovrebbero essere riconsiderati meno come oggetti singolari nella loro sovraesposizione mediatica, che nella complessità di architetture urbane. L’insieme di alberi, piante e arbusti presenti contribuisce a ridurre il consumo energetico e a migliorare la qualità dell’aria. Ma a quale prezzo, se non a quello di realizzare strutture sovradimensionate per sostenere il peso cospicuo del verde, con conseguente impiego di cemento, la cui produzione è responsabile su scala mondiale dell’8% delle emissioni globali di CO2? La vegetalizzazione del costruito dovrebbe inoltre ridurre al massimo l’irrigazione artificiale, il che nella pratica risulta quasi sempre impossibile, così che il verde in facciata finisce col diventare un ulteriore elemento artificiale. La sua manutenzione comporta consumi energetici e costi tali da rendere il Bosco verticale una soluzione elitaria, non suscettibile di diventare un modello di architettura sostenibile per tutti. In altri casi, poi, il verde viene impiegato per occultare o mitigare l’impatto di edifici di mediocre qualità architettonica, quando non esito di operazioni puramente speculative.
La vegetalizzazione (in facciata o in copertura) non è un’idea recente6 . Essa si pone non di rado in opposizione alla città intesa come insieme di edifici, strade e piazze. Il verde urbano è, per sua natura, localizzato e frammentario e non può non assumere l’identità di spazio pubblico, la cui collocazione risulta strategica. La preservazione e l’accrescimento della biodiversità nella città dovrebbero quindi investire anzitutto aree di fruizione pubblica, in modo da conciliare molteplici istanze (ecologiche, funzionali, sociali, economiche). Bisognerebbe poi aumentare le superfici permeabili o semipermeabili (anche in piazze, viali, parcheggi). La relazione artificio-natura non può essere pertanto orientata in chiave di sostenibilità naturalizzando la città in maniera arbitraria, ma ripensando il sistema del verde come bene comune.
La flessibilità degli edifici e degli spazi aperti rappresenta un’altra dimensione della sostenibilità. Edifici e spazi flessibili sono più durevoli di quelli rigidamente definiti, spesso destinati all’obsolescenza e all’abbandono. La specializzazione dovrebbe essere bilanciata da una sorta di genericità, dalla disponibilità ad accogliere usi diversi nel tempo. La durevolezza può essere allora intesa, come abbiamo visto, in senso materiale (come solidità) e funzionale (come flessibilità). Ma anche in senso estetico, quando il progetto architettonico e urbano non si sottomette passivamente ai linguaggi e alle mode dominanti ed effimere, perseguendo una iconicità dettata dagli imperativi della seduzione. Interventi che non siano l’esito di pure strategie di profitto e di promozione possono dare corpo a testimonianze durevoli del proprio tempo. E, nella città sostenibile, il tempo è anche quello delle pratiche di recupero e di riuso, di urban mining per ricavare materie prime secondarie utilizzabili nel campo della costruzione, così da ricollocare la riduzione dei rifiuti e delle emissioni in una prospettiva di economia circolare. Senza trascurare il fatto che spesso il riciclo può operarsi su elementi e componenti di maggiore qualità materiale e di uso rispetto a quelli di produzione corrente.
La sostenibilità della città e dell’architettura implica, infine, una relazione profonda con il luogo nella chiave di una revisione del “regionalismo critico” nell’epoca della globalizzazione7 . Se non fosse una parola abusata, si potrebbe parlare di “glocalismo” critico, ossia del riconoscimento di un locale interrelato al globale; del riconoscimento che nella dimensione della presenza fisica – azioni e progetti della vita quotidiana –, siamo immersi in contesti sempre più ampi e connessi. Più che perseguire una ideologica opposizione alla globalizzazione, una città sostenibile in senso ambientale, sociale ed economico potrebbe trarne vantaggio per quanto essa può offrire all’abitare che, di per sé, rimane comunque radicato sempre nel locale. Occorre dunque fare i conti con la nozione di limite, oggi quanto mai necessaria. Affinché ciò sia possibile, le città non dovrebbero essere affidate ai soli diktat del mercato, ma progettate e governate a partire da visioni capaci di controbilanciare le spinte al profitto immediato e alla crescita incontrollata, mediante strategie di apertura, equità e partecipazione dei cittadini. Ancora una volta, la città sostenibile è una sfida indifferibile che ci riguarda tutti.
25.4.2025
Fotografia di copertina di Damir Samtkulov da Unsplash
1. A partire dalla definizione di “consumo ostentativo” in Thorstein Veblen, La teoria della classe agiata. Studio economico sulle istituzioni, Torino, Einaudi, 2007 (ed. orig. 1899). Per l’attuale “democratizzazione del consumo ostentativo”, v. Elizabeth Currid-Halkett, The Sum of Small Things: A Theory of the Aspirational Class, Princeton, Princeton University Press, 2017.
2. Vittorio Magnago Lampugnani, Contro la città usa e getta. Per una cultura del costruire sostenibile, 2024, p. 148. Pur tra riflessioni critiche e lungimiranti, si rileva la riproposizione di soluzioni non prive di nostalgia verso la città tradizionale.
3. Cfr. Carlos Moreno, La città dei 15 minuti. Per una cultura urbana democratica, Torino, ADD editore, 2024, pp. 103-119 (ed. orig. 2020).
4. Secondo Yves Michaud, Qu’est que l’architecture, Parigi, Editions Gallimard, 2024, p. 40.
5. V. i recenti articoli su La Lettura (Corriere della Sera), 690, 2025, pp. 2-5.
6. Ne scriveva già venticinque anni fa James Wines, in Green Architecture. The Art of Architecture in the Age of Ecology, Taschen America, 2000.
7. Cfr. Tom Avermaete, Véronique Patteeuw, Léa-Catherine Szacka & Hans Teerds, “Revisiting Critical Regionalism”, OASE, 103, 2019, pp. 1-10.
ENG
Which sustainable city?
Sustainability in the urban context can be interpreted in at least three ways: what kind of ecologically appropriate city? What kind of socially and economically open city? What kind of temporally coherent city? A sustainable city is one based on the (reasoned and consensual) notion of limits in land use and in the creation and management of buildings and open spaces. The issue is political before it is disciplinary: regulatory frameworks and legislation should support and express a civic culture and consciousness. However, this is not always the case, since in practice, incentives and rewards often create opportunities to act in ways that diverge from the concept of a sustainable city.
Like consumption in general, land consumption mainly involves goods we do not truly need, except for those needs created by the market and dominant ideologies related to housing. Whether or not it stems from aspirations for a better life, urban sprawl is more about enhancing social status1 than fulfilling primary needs. Calls for densification – which cannot be directed or driven by the market – and compactness are therefore well founded, especially considering that long-range individual mobility in peri-urban areas (whether by choice or necessity) has a significant impact on CO₂ emissions. It also contributes, through increasingly extensive road and parking networks, to greater soil sealing. The idea of growth must thus be rethought, with a focus on what already exists: “build less (…) and what little is built should follow the principles of durability and density”; effective planning rules should therefore be introduced, respecting the principle of zero land consumption, and halting new developments that are not driven by basic needs, safety, or protection. The issues of land consumption, reuse, and density – which must not exclude greenery or result in pure artificialization – are connected to proximity and urban temporality, that is, to reasonable everyday distances.
Consumption is also not unrelated to planned obsolescence, a reflection of the market’s dominance in shaping the city. A paradigmatic example is the Fondation Louis Vuitton in Paris, known for its life-cycle management, as well as for its astronomical cost overruns (around eight times the original budget) and allegations of fraud and tax evasion. For this “luxurious poisoned gift”, a 55-year lifespan was established (starting in 2007), after which the municipality, owner of the land, will also own the architectural complex. To shield itself from responsibilities regarding its use in 2062 and the future condition of a building made with vast glass surfaces and complex, irregular geometries, the foundation presents this gift to the public only after having cynically and fully exploited its economic and representational potential within the established timeframe. This is further proof that, to make architecture profitable, it is enough to separate material value from commercial value, allocating the black holes in the budget to demolition (or potentially “poisoned” relocation).
The longevity of built structures is no longer determined by natural decay – previously countered by systematic maintenance – but by the market-defined conditions of usefulness and profitability. Durability, once a cornerstone of the stone city, is now replaced by increasingly short life cycles, despite the abundance of sustainability standards and requirements (“minimum environmental criteria”). From a space of dialogue between permanence and transformation, the city becomes merely a material support for real estate operations driven by externally imposed sustainability agendas that have little to do with its nature as a long-term human settlement. As such, the city primarily raises the issue of equity, which is increasingly fading – as seen in the Milan model currently at the center of media and public debate.
A city is sustainable if it can limit climate-altering emissions. Yet among the countless proposed solutions, a critical approach is needed to distinguish effective and necessary measures from greenwashing tactics, even when these arise from good intentions. Prototypes of biodiversity architecture – such as the Bosco Verticale – should be reconsidered not as singular media-exposed objects, but within the complexity of urban architectures. The combination of trees, plants, and shrubs does help reduce energy use and improve air quality. But at what cost, if not that of oversized structures required to bear the significant weight of the vegetation, with resulting use of concrete – whose production is responsible for 8% of global CO₂ emissions? The greening of buildings should also minimize artificial irrigation, something that is almost always impractical. Thus, vertical greenery often ends up becoming another artificial element. Its maintenance entails such energy consumption and costs that the Bosco Verticale turns into an elitist solution, unlikely to serve as a sustainable architectural model for all. In other cases, greenery is used to hide or mitigate the impact of architecturally mediocre buildings, sometimes purely speculative in nature.
Green façades or roofs are not a new idea. They often contrast with the idea of the city as a composition of buildings, streets, and squares. Urban greenery is by nature localized and fragmented and must be recognized as public space, whose strategic location is essential. The preservation and enhancement of biodiversity in the city should therefore first involve publicly accessible areas, in order to balance multiple needs (ecological, functional, social, economic). Permeable or semi-permeable surfaces should also be expanded (even in squares, boulevards, and parking lots). The relationship between artifice and nature cannot be directed toward sustainability through arbitrary naturalization of the city, but rather by rethinking the green system as a common good.
Flexibility in buildings and open spaces represents another dimension of sustainability. Flexible structures are more durable than rigidly defined ones, which are often destined for obsolescence and abandonment. Specialization should be balanced by a certain degree of genericity – the capacity to accommodate various uses over time. Durability, as we have seen, can be understood in a material sense (as solidity) and a functional sense (as flexibility). But also in an aesthetic sense, when architectural and urban design does not passively adhere to dominant and ephemeral trends and styles, pursuing instead a form of iconicity that is not dictated by the imperatives of seduction. Projects that are not the result of purely profit-driven and promotional strategies can become lasting testimonies of their time. And in the sustainable city, time also involves practices of recovery and reuse, of urban mining to extract secondary raw materials usable in construction, thereby placing waste and emissions reduction within a circular economy perspective. Not to mention that recycled elements often surpass current production in terms of material quality and utility.
Lastly, sustainability in cities and architecture implies a deep relationship with place, in light of a revision of “critical regionalism” in the era of globalization. If it weren’t an overused term, we might speak of “critical glocalism”: the recognition of the local as interrelated with the global; the acknowledgment that, in the realm of physical presence – in the actions and projects of everyday life – we are embedded in ever-broader, interconnected contexts. Rather than ideologically opposing globalization, a truly environmentally, socially, and economically sustainable city could benefit from it, for all that it offers to ways of dwelling that remain fundamentally rooted in the local. We must come to terms with the notion of limits – now more necessary than ever. For this to happen, cities should not be entrusted solely to the dictates of the market, but designed and governed according to visions capable of counterbalancing the drive for immediate profit and uncontrolled growth, through strategies rooted in openness, equity, and citizen participation. Once again, the sustainable city is an urgent challenge that concerns us all.