Da poco conclusasi presso il PAC – Padiglione Arte Contemporanea di Ferrara, questa XVII edizione della Biennale Donna di Ferrara “Ketty La Rocca 80. Gesture, Speech and Word” a cura di Francesca Gallo e Raffaella Perna, è stata interamente dedicata all’artista italiana con un’ampia e approfondita antologica.

Nella mostra convergono gli aspetti principali della ricerca di Ketty La Rocca che dialogano in sintonia con i due piani dello storico edificio ferrarese restituendo in maniera concreta l’evoluzione del lavoro dell’artista nel marcare la ripartizione tra la dimensione visiva e quella gestuale.

La mostra si apre infatti con opere che emergono dalle prime indagini verbo-visuali e si sviluppa in un percorso che documenta come il segno linguistico si vada via via esonerando dalle funzioni della comunicazione parlata e scritta per lasciare il posto all’attitudine illocutoria del gesto, unica presenza di forza comunicativa scelta definitivamente dall’artista a partire dal 1970-1971.

La presenza di documenti inediti, lettere e oggetti d’archivio, accuratamente collocati a margine di ogni sala, restituisce invece l’importanza delle fasi intermedie di studio e analisi sulla parola e sul comportamento comunicativo degli individui avviato dall’artista fin dagli esordi, evidenziando così il suo atteggiamento di tenace e costante operosità verso le pratiche più sperimentali di taglio performativo.


Documenti dall’Archivio Ketty La Rocca. Dettaglio dell’allestimento in mostra, fotografia Marco Caselli Nirmal 

A chiudere il quadro su questa nuova panoramica del lavoro di Ketty la Rocca è stata la prima esecuzione dal vivo della performance “In principio erat verbum” a cura di Elisa Leonini con gli studenti del Liceo artistico Dosso Dossi di Ferrara. La partitura inedita della performance, elaborata tra il 1970 e 1972 da Ketty La Rocca e mai realizzata quando l’artista era in vita, è stata eseguita per la prima volta all’interno del contesto espositivo, evento che sottolinea l’importanza della dimensione performativa e gestuale nell’opera dell’artista e del suo impegno volto a sviluppare forme “altre” di comunicazione attraverso il gesto.


In principio erat verbum (gioco performance), 1970

La parte iniziale della mostra è dedicata alle ricerche che Ketty la Rocca sviluppa tra il 1964 e il 1968 circa, periodo strettamente connesso alle sperimentazioni verbo-visuali portate avanti nel momento di attiva partecipazione e collaborazione con il Gruppo 70 e finalizzato alla realizzazione di collage e alla formulazione di combinazioni linguistiche su supporti di varia natura.

I collage elaborati in questo periodo, dapprima molto ricchi di testi sovrapposti a immagini, a partire dal 1966 vanno via via assumendo un carattere più minimale e rarefatto sulla superficie sia dal punto di vista dei contenuti, focalizzati in seguito principalmente sulla figura femminile, che della tecnica.

“Non commettere sorpassi impuri”, un collage su legno del 1964-1965, preannuncia questo spostamento: su un fondo ligneo monocromo la fotografia di una donna nuda estratta da una pubblicità è affiancata a quella di un uomo borghese e di una scritta che con dura ironia fa riferimento al film di Dino Risi del 1962, come a rimarcare quell’atteggiamento di entusiastica vitalità senza scrupoli dell’Italia del boom economico. In “Bianco Napalm” del 1967 il distacco dalle suggestioni della poesia visiva si fa ancora più netto. Qui l’artista rappresenta l’immagine di una giovane vietnamita che porta sulle spalle un neonato a cui associa quella di un militare con un’arma e del cardinale e arcivescovo americano Spellman, al tempo favorevole alla guerra in Vietnam. L’immagine fotografica, plastificata su una grande tavola di legno, conferisce all’opera una superficie più lucida e liscia, una natura più artificiale rispetto al tradizionale collage in carta che crea in mostra un dinamico dialogo con le opere che l’artista inizia a realizzare dal 1967.

Bianco Napalm, 1967

Si tratta di un’ampia serie di cartelli stradali molto spesso anche oggetto di azioni estemporanee svolte dall’artista in prima persona e in cui la parola viene investita di una nuova centralità. Come lo smalto su tavola “Segnaletiche (Io tu e le rose)” del 1967 o il collage “MIA6” del 1967, entrambi utilizzati per due installazioni/azioni in autostrada, probabilmente realizzate nei pressi di Fiumalbo dove si sarebbe svolta la mostra “Parole sui muri” per cui la poesia visiva e concreta svolsero un ruolo fondamentale.


MIA6, 1967-1968

Questo primo corpus di opere, sebbene coerenti con gli sviluppi verbo-visivi del Gruppo 70, offre a Ketty La Rocca l’occasione di analizzare più da vicino i diversi aspetti del linguaggio e della parola, al punto che, in questa direzione e in maniera autonoma, l’artista imposterà una ricerca volta a far letteralmente emergere la parola, o meglio la lettera, in maniera fisica dalla superficie, rivelando un suo significato e un’esistenza al di fuori dalla comunicazione.

Infatti dal 1970, La Rocca, non soddisfatta di una relazione solo visiva con il linguaggio, inizia ad approfondire gli aspetti socio-culturali di quest’ultimo come struttura dominante predeterminata da un sistema patriarcale. Realizza in questo periodo le “J”, oggetti scultorei a grandezza quasi umana che significano, come nel francese “je”, “io”, un pronome che però resta muto e nascosto tra i segni del linguaggio e nei processi della comunicazione. Sempre nello stesso anno elabora in una dimensione testuale invece più critica il testo “Dal momento in cui”, una sorta di breve manifesto sulla superficialità dei processi di informazione veicolati dal mezzo linguistico. Il testo, seppur grammaticalmente corretto, non arriva a formulare nessun significato compiuto.


Con Inquietudine, 1970

L’anno 1970 nell’opera di Ketty La Rocca rappresenta un’importante fase di cesura e transizione, ben riportata in mostra collocando nella sala al piano superiore la serie di opere fino al 1975, anno della morte prematura dell’artista, in cui la parola come segno tipografico o sarà l’equivalente di un non-sense o sparirà del tutto per lasciare campo aperto alle diverse intuizioni legate alle forme di gestualità.

Del 1971 è il primo libro d’artista “In principio erat” in cui alle immagini fotografiche del gesto delle mani sono associate frasi in italiano e inglese senza senso. L’impossibilità del linguaggio di raggiungere la forza comunicativa del gesto si dimostra nella capacità che questo ha di mettere in mostra l’identità e la relazione di coppia o collettiva attraverso l’estrema sintesi di un comportamento della mano. Il libro è immediatamente seguito, nel 1972, dal video “Appendice per una Supplica” dove La Rocca si spinge oltre le forme della pacifica relazionalità espressa nel libro, avanzando una denuncia di sopraffazione insieme ad un appello di rivalsa sempre espresso dal gesto delle mani ma questa volta in un serrato dialogo tra le sue e quelle di un attore.

Senza Titolo, 1974. Dettaglio dell’opera in mostra, fotografia Marco Caselli Nirmal 

Sarà proprio da questi due lavori che si svilupperanno contestualmente le serie successive: le “Riduzioni” e le “Craniologie” scandite dalle serie di fotografie su tele emulsionate che isolano gesti delle mani associati a frasi illogiche e il secondo libro d’artista “Senza Titolo” del 1974, una serie di ritratti fotografici del volto dell’arista presentato in 32 espressioni diverse mai effettivamente montato. Un lavoro “anomalo” quest’ultimo nella produzione di Ketty La Rocca che, come le “J”, resta quasi in sospeso accennando le possibili e auspicate aperture verso la dimensione performativa.

Rispetto alle “Riduzioni”, che rimangono lavori apparentemente più intimi e lievi, segnati dal ritorno stavolta calligrafico del testo, nell’uso parola “you” o come estratti del testo “Dal momento in cui”, utilizzato dall’artista per ricostruire i contorni di immagini fotografiche estratte dal mondo pubblicitario o dalle sue stesse opere, le “Craniologie” rappresentano un’intensificazione della dimensione gestuale.

La Rocca qui mette in scena e amplifica lo schema di prevaricazione già annunciato, il gesto della mano è ingabbiato non più da altre mani, come nel video “Appendice per una Supplica”, ma in una radiografia del cranio dell’artista nella quale l’immagine della mano è mostrata aperta, tesa, appena più morbida o richiusa, serrata in un pugno, quasi a sottolineare che è dentro la nostra parte razionale, la testa, che il gesto si origina libero e si sostituisce ai sistemi dominanti e ordinari della comunicazione.

Craniologia n. 12, 1973

Sebbene lo sviluppo della dimensione gestuale in Ketty La Rocca sia considerato un aspetto dialetticamente consequenziale alle ricerche verbo-visuali, le opere dell’artista, così come sono state presentate in occasione dell’ultima esposizione ferrarese, sembrano suggerire nuove possibilità di analisi e riflessione legate in particolar modo ad una rilettura del gesto come unità radicalmente separata da qualsiasi possibilità interpretativa o sostitutiva del linguaggio, come se quest’ultimo non potesse più garantire un grado di autenticità della comunicazione e il gesto, attraverso il suo non immediato significare logico, acuisse questa percezione e la superasse.

Se dunque il gesto di Ketty La Rocca non nasce per un consumo linguistico né come accessorio alla lingua e non ha funzione decorativa, ma si origina da un rifiuto della cultura dominante come atto di denuncia di prevaricazione e invito ad una liberazione del corpo e del pensiero, allora, come sostiene Giorgio Agamben, è proprio nella dimensione di una “gestualità integrale” che questo si definisce nella sua completezza, ovvero come “ mezzo puro, esposizione di una medialità senza fine”, poiché sostiene il filosofo, “solo un corpo che agisce e si muove liberato dalla relazione volontaria verso un fine è in grado di sondare tutte le possibilità di cui è capace ed esprimere così la sua identità”.

[Caterina Iaquinta]

7.6.18

Immagine di copertina: Dichiarazione d’artista, 1971 (tutte le opere qui pubblicate appartengono all’Archivio Ketty La Rocca)