Vittorio Prina. Cinema, periferia e “astrazione metafisica”

“L’astrazione metafisica (…) è uno sguardo contemplativo sulle cose per coglierne l’intima comunione nella irriducibile irripetibilità; è il cogliere l’assolutamente incomunicabile”. (A. di Maio, Il concetto di comunicazione)

Tre film per tre periferie

Tre film profondamente differenti per tematiche, accadimenti, luoghi, epoca, sono accomunati da tre declinazioni della lettura della periferia italiana che possiamo definire “astrazione metafisica”. Una composizione astratta, estraniata, a tratti surreale che utilizza lo spazio, il paesaggio e l’architettura quali elementi fondamentali della struttura comunicativa nella narrazione filmica. La particolare restituzione astratta e metafisica adottata è complementare alle caratteristiche estraniate ed estranianti dei racconti e delle atmosfere.

Il deserto rosso (secondo i titoli di testa e i dizionari più accreditati, e non Deserto rosso), di Michelangelo Antonioni del 1964, Leone d’oro a Venezia, primo film a colori dopo la cosiddetta “trilogia dell’incomunicabilità” e quarto della tetralogia sulla crisi della donna quale simbolo della “crisi della civiltà contemporanea”.

L’imbalsamatore, inquietante opera di Matteo Garrone del 2002 che ha ottenuto numerosi premi e riconoscimenti.

Et in terra pax, eccellente opera prima del 2010 di Matteo Botrugno e Daniele Coluccini, realizzata in 17 giorni, due mesi di prove e un budget di soli centomila euro, interpretata da giovani attori di teatro alla prima esperienza cinematografica; significativamente il film non è stato accettato e finanziato da Rai e Ministero.

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Il deserto rosso

Antonioni propone la città di Ravenna rappresentata da una periferia industriale inedita, deserta, astratta, irreale a comporre un “potente paesaggio tossico” (Don DeLillo). Riportiamo le consuete definizioni che individuano l’opera di Antonioni: incomunicabilità, cinema dell’alienazione, crisi dei valori della società e della civiltà industriale, insofferenza e nevrosi. Di fatto Antonioni, in un’intervista rilasciata a Jean-Luc Godard nel 1964, sostiene: “È troppo semplicistico dire, anche se sono stati in molti a dirlo, che io faccio un atto di accusa contro questo mondo industrializzato ed inumano che schiaccia l’individuo e lo nevrotizza. Al contrario, la mia intenzione (…) era di rendere la bellezza del mondo. Anche le fabbriche possono essere dotate di grande bellezza. Le linee rette e curve delle fabbriche e delle loro ciminiere possono essere anche più belle di un filare di alberi che l’occhio ha già visto troppe volte. È un mondo ricco, vivo, utile.
(…) Posso dire che, situando la vicenda de Il deserto rosso nel mondo delle fabbriche, sono risalito alla sorgente di questa specie di crisi che come un fiume riceve mille affluenti e si divide in mille bracci per sommergere tutto e, spargersi dappertutto”.

L’astrazione metafisica: il colore

Dai titoli di testa: “I colori ‘TINTAL’ sono stati forniti dal colorificio italiano MAX MEYER”.
La cifra innovativa introdotta da Antonioni è costituita dalla sperimentazione cromatica: l’uso del colore applicato artigianalmente a mano (con costi altissimi; oggi si interviene con tecniche digitali) ad architetture, interni, macchinari, porzioni del paesaggio naturale, provoca uno spaesamento determinato da immagini metafisiche che raggiungono l’astrazione. Osserviamo continue analogie con l’arte moderna nel dettaglio di alcune superfici o nei primi piani di frammenti estrapolati dal contesto. Immagini che, è stato scritto, sono riferibili alla pittura informale o all’espressionismo astratto.

I dialoghi – volutamente superficiali, scontati, estranei – risultano un sottofondo, inutili di fronte alla ricerca di una bellezza ricercata ed estraniante che modifica la percezione dei luoghi, dello spazio e delle architetture da parte dello spettatore. Il colore astratto rende surreale un paesaggio di fatto irreale. Le tonalità di grigio sono la base che contraddistingue il marciume delle campagne limitrofe all’industria chimica, alle fabbriche, ad alcune vie, al paesaggio nebbioso: forme e colori sono ripresi in ogni inquadratura con sapienza compositiva e citazioni artistiche.

Antonioni risponde a Godard: “Sento il bisogno di esprimere la realtà in termini che non siano del tutto realistici. La mia linea bianca, astratta, che entra nell’inquadratura all’inizio della sequenza della stradina grigia m’interessa molto di più della macchina che sta arrivando: è un modo di affrontare il personaggio partendo dalle cose, più che dalla sua vita (…)”.

Luoghi, colori e arte

Lo sfondo dei titoli di testa è costituito da immagini sfocate della periferia industriale di Ravenna. La prima immagine è costituita dall’apice di una ciminiera che emana grandi fiammate; in seguito vediamo la nube che si eleva dalla grande torre di raffreddamento, vicina al canale Candiano (o canale Corsini, dal grande scalo portuale di Ravenna, Porto Corsini). Le sequenze iniziali dell’enorme complesso industriale limitrofo all’ area portuale, nel quale lavora il marito di Giuliana/Monica Vitti, mostrano la raffineria SAROM – Società Anonima Raffinazione Oli Minerali, fondata nel 1950 da Attilio Monti – dalle quali svettano le grandi torri di raffreddamento Hammon, e il complesso petrolchimico ANIC – Azienda Nazionale Idrogenazione Combustibili – realizzato dall’Eni di Enrico Mattei negli anni Cinquanta. Le aree industriali citate sono attualmente dismesse. Tutto è grigio: il cielo, gli edifici, i fumi e i vapori, il terreno marcescente e i cumuli di rifiuti tossici che emanano fumo. Unici elementi colorati sono le figure solitarie di Giuliana e del figlioletto, rispettivamente con cappotti verde e marrone.

Proseguiamo nella Centrale Elettrica SADE (ora Enel) di Porto Corsini, progettata da Ignazio Gardella nel 1957-60: particolarmente riconoscibili sono la palazzina per uffici e l’edificio della sala macchine, rivestite in mattonelle di clinker scuro. Nel 2000-05 la Centrale è stata riqualificata e ampliata su progetto di Michele De Lucchi. Giuliana si aggira tra macchinari, tubi, condotti, scale e strutture. Dalla massa grigia spiccano parti dipinte in verde, rosso, rosa, blu, giallo; nella sala macchine osserviamo un grande mosaico realizzato negli anni ’50 dall’artista veneziano Mario De Luigi.

Una via della città è rappresentata da edifici grigi su cielo grigio, immagini che si alternano a particolari di muri grigi e sgretolati. In una sequenza surreale Giuliana, con cappotto grigio, si siede a lato del carretto di un fruttivendolo: tutto è dipinto di grigio, compresi i frutti e le verdure esposte. La coppia prosegue nella campagna e raggiunge gli immensi tralicci di metallo bianco e rosso del radiotelescopio a Medicina (Bologna), gestito dall’Istituto di Radioastronomia dell’INAF (Istituto Nazionale di Astrofisica): è la Croce del Nord – di proprietà dell’Università di Bologna – in funzione dal 1956, costituita da due rami perpendicolari lunghi 564 metri.

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Vediamo in seguito Giuliana, Corrado e il marito Ugo in una campagna grigia e putrefatta con acquitrini neri e lanche di acqua melmosa verde con arbusti viola: “le anguille sanno di petrolio”. Unico elemento “reale” un boschetto di pini marittimi verdi, dietro i quali scorre la sagoma di un’immensa nave. I tre personaggi con alcuni amici si riuniscono in un capanno dipinto in blu sull’argine del Porto Canale a Marina di Ravenna. L’assito interno è bianco e grigio intaccato dal nerofumo: la superficie scabra e corrosa ricorda le opere di Burri e di Rauschenberg. I convenuti dialogano sdraiati in un letto alcova con pareti rosse, simbolo di eccitazione sessuale, in seguito demolito per accendere un fuoco. All’esterno la nebbia avvolge il luogo e i personaggi che fuggono quando una nave issa la bandiera che segnala malattia infettiva a bordo.

Il tema della nave si ripresenta nel colloquio tra Giuliana e Corrado – tubi neri che contrastano con strutture e serbatoi rossi – e nel tragitto notturno di Giuliana nei cantieri navali che propone sfondi stupendi di chiglie: arancioni in contrasto con rottami di tubi neri, colori corrosi e scrostati, parti color ruggine o superfici nero bitume. Un continuo omaggio a Burri e all’arte moderna. Uno stacco totale è costituito dalle stupende immagini di una ragazza sulla spiaggia rosa di Budelli nel mare azzurro e verde smeraldo della Sardegna mentre Giuliana racconta una favola al figlio.

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L’ultima sequenza mostra Giuliana che passeggia con il figlio nei pressi di una fabbrica: il terreno trasuda fumi accanto a bidoni colorati e impilati: dalle ciminiere esce fumo giallo. Il figlio chiede perché il fumo sia giallo e Giuliana risponde che c’è il veleno. Il figlio: “ma allora se un uccellino passa lì in mezzo muore”. Giuliana: “ma ormai gli uccellini lo sanno e non ci passano più”.

 Spazi interni

L’interno dell’appartamento di Giuliana e del marito, dal quale si vede il porto, ha superfici bianche che si alternano a pareti e parapetti metallici tubolari blu: appeso a una parete il dipinto “La Sagra della Primavera” di Gianni Dova. Giuliana e Corrado si recano all’interno del negozio che la donna vorrebbe avviare: le pareti bianche mostrano ampie campiture di prove di colore. Evidente è il riferimento all’opera di Mark Rothko. Antonioni a Godard: “Bisognava scegliere tra colori caldi e colori freddi. Per il negozio Giuliana vuole colori freddi, sono quelli che cozzano meno con i prodotti in esposizione (…). Volevo questo contrasto tra colori caldi e colori freddi: c’è l’arancio, il giallo, il soffitto marrone, e il mio personaggio si accorge di come tutto questo non vada bene per lei”.

Giuliana si reca all’hotel dove risiede Corrado, con il quale farà l’amore: gli interni sono tutti dipinti di bianco, piante e arredi compresi. Il letto in piatto metallico curvato color “rosso Cina” è “Vanessa” di Tobia Scarpa. In una successiva immagine i due giacciono a letto nella stanza interamente dipinta di rosa – tende, lenzuola, abiti e arredi compresi.

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L’imbalsamatore

È un film angosciante e torbido dedicato alla tragica ricerca della bellezza da parte di un tassidermista napoletano, omosessuale e affetto da nanismo – l’imbalsamatore Peppino o’ profeta, interpretato dal bravissimo Ernesto Mahieux – che si innamora del giovane Valerio, bello e molto alto. Garrone, che si è ispirato a un fatto di cronaca realmente accaduto, cercava “Una storia nella quale la ricerca della bellezza coincidesse con l’impossibilità di essere felici”.

Peppino convince Valerio a lasciare il lavoro, a diventare suo aiutante e trasferirsi nel suo appartamento: subisce il fascino ambiguo di Peppino che lo riempie di attenzioni e lo coinvolge in feste e serate con prostitute. Peppino di fatto è umiliato e ricattato dalla camorra che lo costringe a trasferte durante le quali taglia e ricuce cadaveri ripieni di droga. Durante uno di questo “viaggi di lavoro” a Cremona, Valerio conosce Deborah che si unisce a loro e si trasferisce nello stesso appartamento. La convivenza diventa impossibile e la coppia torna a Cremona presso i genitori di Deborah, incinta. Peppino raggiunge la coppia e convince Valerio a seguirlo in un viaggio esotico; Deborah riesce a dissuadere Valerio mentre Peppino li minaccia con una pistola; salgono sull’automobile dove un colpo dell’arma uccide Peppino (non sappiamo se si è ucciso o se l’ha ucciso Valerio). La coppia spinge l’automobile con il corpo di Peppino nel Po.

 I luoghi

Spiega Matteo Garrone: “Volevo un paesaggio costiero la cui desolazione facesse da sfondo alla solitudine dei tre personaggi e cercavo la vicinanza ad un mare che seminasse inquietudine, per ricreare al meglio un’atmosfera fiabesca”. Il luogo protagonista del film è il Villaggio Coppola Pinetamare (“Città dell’uomo, paradiso dei fiori”) nei pressi di Castel Volturno, in provincia di Caserta: una vicenda iniziata negli anni ’60 di scempio del paesaggio, abusivismo, connivenza politica, infiltrazioni della camorra, omertà, sequestri, processi e quant’altro a comporre uno scenario da incubo che ci lascia in eredità una situazione di incolmabile degrado.

Voluto dalla famiglia Coppola supportata da un’amministrazione che ha sconsideratamente “sdemanializzato” il territorio demaniale, il “villaggio” è nato con l’intenzione di creare un enorme polo turistico diventato negli anni una città isolata nel territorio: una vera a propria “cattedrale nel deserto”. Chilometri di pineta marittima, mare stupendo, dune di sabbia e spiagge alla foce del fiume Volturno – un immenso paradiso naturale – sono stati distrutti e sostituiti da 4 chilometri di edificazione sconsiderata, 864.000 metri quadrati per un milione e mezzo di metri cubi.

La sabbia estratta dalle spiagge, le opere di difesa dal mare, il porto e le costruzioni hanno drasticamente alterato la conformazione del territorio: il mare ha invaso il fiume per più di due chilometri, intere spiagge scomparse, flora e fauna perse per sempre. Il complesso comprende una quantità enorme di palazzine residenziali nonché 8 grattacieli (le “torri”) di 12 piani, 80 appartamenti l’uno e 1300 posti auto per un totale di quindicimila persone (la “vista mare” decantata è occlusa dalle costruzioni stesse). Cinquecento licenze edilizie per 12.000 edifici: quasi tutto è abusivo.

L’agglomerato “urbano” è dotato di hotel, residence, ristoranti, negozi, cinema, presidi medici, chiesa, uffici postali, caserme di polizia e carabinieri, scuole, sportelli bancari, farmacie, discoteche, centro congressi, parco acquatico e un porto privato dotato di 600 ormeggi. Il “villaggio” gode inizialmente di un grande successo, imperdibile il lungo video pubblicitario dell’epoca, ma ben presto gli abitanti iniziano ad abbandonarlo. Le torri sono affittate per vent’anni alla Marina degli Stati Uniti. In seguito ospitano le famiglie dei terremotati. Il destino è quello del progressivo abbandono e degrado. Solo nel 1995 è eseguito il sequestro della darsena e del complesso residenziale con bonifica della pineta affidata al Corpo Forestale. Le torri sono abbattute completamente nel 2004. Il difficile progetto di risanamento e recupero della città fantasma è in corso.

 Astrazione metafisica

La fotografia e la luce appaiono dense, torbide e pervase da tonalità cupe e contrastate; toni di colore intensi e caldi sono contrapposti a toni acidi e freddi sia nelle sequenze diurne che notturne. I luoghi deserti e le architetture isolate restituiscono un’atmosfera metafisica e irreale, peraltro pienamente credibile: il complesso isolato simile a un fortilizio in un territorio brullo e deserto; strade e lungomare non conclusi e abbandonati; palazzine con facciate scrostate; vie deserte; edifici semidistrutti, moli e darsena in condizioni di degrado; spiagge vuote e con detriti, mare scuro, cielo plumbeo; oniriche vedute aeree del complesso completamente deserto nel territorio devastato; i resti abbandonati degli scivoli dei giochi acquatici e le piscine svuotate del complesso balneare “Rio Blu”.

L’unica inquadratura contrastante è costituita da un verdissimo prato, sullo sfondo delle “torri”, dove Peppino e Valerio giocano a golf. Si aggiungono vedute notturne surreali del complesso, ingressi diroccati alle residenze illuminati da luci fredde e acide, spazi pubblici inquietanti, assurdi ritrovi sulla spiaggia con tavoli e chioschi provvisori limitrofi a relitti di barche e di edifici. Ritroviamo l’atmosfera onirica e spaesata nelle nebbiose sequenze urbane o fluviali a Cremona: la tragedia finale si consuma in uno squallido portico di un edificio residenziale illuminato da fredde e verdognole luci al neon. Una nebbiosa strada alberata, ritratta in una penombra bluastra, conduce al fiume nel quale la coppia affonda l’autovettura.

 Spazi interni

Altrettanto inquietanti appaiono gli interni: il buio illuminato da luci radenti del laboratorio nel quale un toro viene lavorato per l’imbalsamazione; la casa di Peppino contraddistinta da colori intensi e contrastanti, moquette colorate o a decori, pareti rivestite con carte da parati a motivi ornamentali, luci fioche, animali vari imbalsamati. Una sorta di bordello kitsch simile ai locali notturni frequentati da Peppino e Valerio per abbordare prostitute. Spaesante l’inquadratura della stanza da bagno ripresa longitudinalmente – Peppino minuscolo nella vasca e Valerio enorme a lato – che determina una sensazione di “fuori scala” prospettico. Squallide camere di alberghi, la stanza da letto monumentale di Deborah, viste zenitali di oniriche camere mortuarie nelle quali Peppino disseziona i cadaveri nelle bare…

Fondamentale è la posizione della macchina da presa – ricordiamo che Peppino è affetto da nanismo – che riprende da una posizione bassa o dal basso verso l’alto enfatizzando la percezione di persone e spazi.

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Et in terra pax

Tre storie parallele che si incrociano determinano una progressione drammatica e un finale tragico. Marco, appena uscito dal carcere, tenta di lasciare il passato alle spalle ma è indotto a spacciare nuovamente, seduto tutto il giorno su una panchina isolata che diventa un osservatorio delle vite altrui. Sonia studia in università e vive con la nonna, lavora in un ambiguo bar, conosce Marco: la sua speranza di affrancarsi dalla criminalità sarà disintegrata dalla violenza dell’ambiente che la circonda. Tre giovani balordi trascorrono le giornate tra la droga e il nulla in attesa “de svoltà”, di una vita indefinibile e “soldi facili”. Violentano Sonia in una delle sequenze più intense, struggenti e drammatiche: la macchina da presa inquadra l’asfalto nero e a lato un braccio di Sonia tenuto fermo dalle braccia dei ragazzi che a turno la violentano. Sarà Marco inaspettatamente a uccidere i tre balordi e a bruciarne i corpi.

La sinossi potrebbe indurre a pensare al consueto film sulla violenza nella periferia (ne abbiamo già commentati alcuni in un precedente articolo): di fatto sequenze, immagini, inquadrature, composizione, qualità della luce, musica, determinano un film anomalo, estraniante, astratto e metafisico. I registi non forniscono giudizi, critiche o morale: senza eccessi di sorta registrano la solitudine dei protagonisti e “la speranza che lascia il posto alla disperazione”.

 Il luogo

I registi raccontano: “Il ‘Serpentone’ di Corviale è per noi un personaggio aggiunto. Un palazzo lungo un chilometro in cui abitano migliaia di persone era la location ideale per esprimere l’idea di isolamento. Inoltre riteniamo il Nuovo Corviale l’archetipo di tutte le periferie (…) le vicende che narriamo nel film non c’entrano niente con la vita reale del quartiere (…). Abbiamo rispettato la vita del quartiere e abbiamo sempre specificato che l’uso della location è stata dettata esclusivamente da motivi artistici.(…) ci è sembrato il luogo più adatto per raccontare un microcosmo di destini ed esistenze intrecciati fra di loro. L’immenso e isolato palazzo che fa da sfondo alla storia è un’ombra che opprime e che allo stesso tempo protegge (…) è un’isola, un quartiere, un’intera città, è la metafora stessa della vita di ogni individuo”.

Il co-protagonista del film è quindi il quartiere Iacp Corviale a Roma – Mario Fiorentino coordinatore e capogruppo – edificato dal 1973 al 1982. Il complesso, frutto di un’utopia irriproducibile, sintesi della sperimentazione e della cosiddetta “grande dimensione” tipica degli anni Settanta, “è composto da tre elementi tra loro paralleli: l’edificio residenziale di dimensioni più modeste, il corpo principale di undici piani che ospita 6.000 abitanti, la fascia delle attrezzature civiche, commerciali, culturali, sportive e religiose (…) da questi si dirama un edificio-ponte inclinato di 45° in direzione dei quartieri circostanti (…). Il corpo principale, suddiviso in cinque unità dai corpi scala cui corrispondono cinque piazze di ingresso, ha una sezione costante in cui i piani di alloggi, distribuiti da un ballatoio interno, sono interrotti da un piano con botteghe e studi professionali”. (G. Di Cristina)

È molto difficile esprimere giudizi sull’opera: posso solo aggiungere che la mancata realizzazione di infrastrutture e degli spazi e attività collettive del piano libero, da imputare a manchevolezze croniche e patologiche dell’amministrazione pubblica italiana, ha contribuito a comporre il progressivo degrado.

Altri luoghi

La partitella a calcio e la rissa tra tifosi sono girate nel Cinodromo di Roma, realizzato per le corse di levrieri nel 1958, in via della Vasca Navale vicino a Ponte Marconi e chiuso nel 2002. La struttura abbandonata è occupata da un centro sociale e dal 2005 è compresa in un programma di riqualificazione previsto dal Progetto Urbano Ostiense redatto da Insula Architettura, Francesco Cellini, Alessandro Anselmi, Giorgio Ciucci, Giorgio Piccinato, Vieri Quilici. La galleria voltata in metallo azzurro e vetro dell’ospedale è parte dei percorsi di distribuzione dell’immenso complesso del Policlinico Tor Vergata. Anche la corte nella quale Sonia attende prima di sostenere un esame fa parte del complesso, la Facoltà di Lettere e Filosofia del CSPS (Centro Studi e Documentazione “Religioni e Istituzioni Politiche nella Società Post-Secolare”, Università degli Studi di Roma Tor Vergata). Il progetto del Campus Universitario di Tor Vergata – oggetto di un concorso internazionale del 1987 – è stato redatto dallo Studio Valle Progettazioni e da A. Lambertucci.

 Astrazione metafisica

Fotografia e luce sono caratterizzate da tonalità livide e contrastate. La prima immagine propone il fuoco, elemento riproposto alla fine – consumata la tragedia – e al centro del film, dopo il colloquio sereno tra Marco e Sonia, riconducendo lo spettatore a un’atmosfera inquietante. La colonna sonora è costituita dal secondo movimento del Gloria di Vivaldi Et In Terra Pax, il titolo del film. La musica sacra compare a tratti, nei momenti più salienti del film, scelta quale elemento estraniante e di contrasto con le immagini profane e drammatiche. Nella prima sequenza la macchina da presa segue Marco – con inquadrature sempre assiali – dall’ingresso del complesso, lungo le scale, i ballatoi e nell’appartamento. Molte sequenze sono effettuate lungo l’asse principale, frontali e restituiscono con campi e controcampi i movimenti dei protagonisti; sono contrapposte a movimenti di camera circolari e a prospettive scorciate o ruotate.

Alcune immagini deserte, fisse e frontali o prospetticamente esasperate, propongono viste incombenti di parti dell’edificio principale: ritmano il film e corrispondono agli stacchi principali tra i vari capitoli, accompagnate talvolta dalla citata musica sacra. Tra queste: le immagini simmetriche e frontali del prospetto che incombe sull’anfiteatro deserto e sullo spettatore o del vano scala semicilindrico che collega due blocchi; l’edificio ripreso da lontano, fortilizio isolato nella campagna; inquadrature degli stretti cavedi dal basso verso l’alto o ruotate. L’ultima sequenza propone il primo piano della panchina vuota sullo sfondo della vista frontale del prospetto. Marco si siede, la macchina da presa ruota e inquadra la fuga prospettica dell’edificio che sembra infinito.

[Vittorio Prina]

30.11.14

Questo articolo è stato scritto dall’autore per L’Architetto n.21 mensile del Consiglio Nazionale Architetti PPC. Archphoto ringrazia Pierluigi Mutti per averci consentito di ripubblicarlo.