Sin dagli albori della nostra specie, il primario istinto dell’uomo è stato quello di costruirsi un rifugio per ripararsi dagli agenti atmosferici esterni. Marc-Antoine Laugier, nel suo trattato Essai sur l’architecture del 1753,  descrive la capanna, prima forma ancestrale di architettura, come la perfetta sintesi di una dialettica profonda tra natura e ragione. Qualche secolo prima Filarete aveva definito la nascita dell’architettura attraverso l’immagine di Adamo che, coprendosi la testa con le mani, cercava di trovare rifugio e riparo dalla pioggia. Lo scopo primario della creazione degli oggetti, ormai divenuti parte integrante della nostra cultura, sembra essere stata generata dallo stesso impulso: il riparo, la sopravvivenza. Gli esseri umani sono creature omotermiche, ovvero hanno bisogno di mantenere la temperatura corporea tra i 35.5° e i 36.7° per permettere all’organismo di produrre correttamente gli enzimi
necessari per lo svolgimento delle funzioni vitali. Questo impulso ha generato, in diverse aree geografiche del mondo, una concatenazione di azioni di adattamento al clima che sono alla base della nostra storia culturale e dei nostri più antichi rituali. Il cambiamento climatico che stiamo cominciando ad osservare non è altro che un processo naturale della Terra, accelerato dalle negligenze umane.

Filarete, Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale , Cod. II, I, 140, f. 4v.

Riguardando alcuni esempi dell’architettura vernacolare è interessante comprendere la sua capacità di essere pensata perfettamente per un determinato luogo. Essa deriva dalla più profonda dialettica tra il clima ad essa appartenente, alle risorse naturali, ai materiali e alla più essenziale delle funzioni. L’avvento dell’era industriale e della meccanizzazione ha generato un sempre più complesso dialogo con il paesaggio e il suo clima, un processo di chiusura. L’edificio oggi è definito per classi energetiche che non sono altro che l’accentuazione estrema di questo concetto di isolamento. Non importa che l’edificio non sia adatto al clima in cui viene costruito, basta collocare al suo interno una macchina per climatizzare. Tale processo, paradossale vanto “di efficienza ecologica”, è un fattore che influenza il surriscaldamento urbano e l’effetto delle isole di calore.

Quello che manca, per comprendere veramente l’incidenza del clima sulla nostra vita quotidiana, è la consapevolezza di come esso sia stato, prima di ogni cosa, generatore di cultura, di riti, di architettura, di usi, di costumi. Ogni nazione del mondo presenta di per sé archetipi e tradizioni fortemente definite dal clima in cui tale nazione si trova. Il clima determina e ha determinato le nostre coltivazioni, i nostri più ancestrali rifugi, il modo in cui abbiamo costruito gli spazi della città, la nostra economia, i nostri abiti ecc. L’istinto odierno, nei confronti del cambiamento climatico, è quello di chiudere ermeticamente i nostri edifici dall’esterno, far si che diventino isole protette dove poter vivere al fresco di un ventilatore, perdendo, quasi completamente, il dialogo tra esterno/paesaggio e edificio. Questo processo, che sembra dar eco al “Fuck the Contest” citato da Rem Koolhas in Junkspace sta dando forma a spazi sempre più anonimi, completamente estranei al contesto, stillicidio replicabile in ogni parte del globo, e alimentando una perdita di identità comune necessaria per poter sentirsi parte di un luogo. 

Sezione longitudinale di un igloo, incisione 1890

Ripensando ai modelli spaziali sociali della città stratificata a cui siamo abituati è sicuramente chiaro che il surriscaldamento delle città renda ostile modelli spaziali a cui fino ad oggi siamo stati abituati. Che forma avrà l’architettura e lo spazio pubblico nella città futura? In che modo possiamo adattare gli spazi che viviamo al cambiamento climatico?

Uno dei passi necessari per il processo di adattamento è un ritorno ad un primitivismo vernacolare in cui la forma architettonica risulti essere diretto prodotto delle condizioni climatiche di un luogo. L’architettura deve dar forma tangibile al clima, dar forma ad un processo di regionalismo architettonico. Credo sia questo il vero senso del termine “ecosostenibile”, ovvero la consapevolezza di un dialogo stretto tra clima, materia, luogo ma anche la nascita di nuove forme di spazio in grado di assecondare e respirare con i cambiamenti frenetici del clima. In questo senso lo spazio diventerebbe qualcosa di non definito a priori ma mobile, adattabile, che si possa rigenerare e ricreare. La consapevolezza più importante, per combattere il problema del cambiamento climatico, è capire quanto questo dipenda da noi e sia interconnesso con noi.

Alessia Rapetti

22.3.22

Bibliografia

Marc-Antoine Laugier, Saggio sull’architettura, Palermo, Aesthetica, 1987

Filarete, Antonio Averlino, Trattato di Architettura, Milano, Il Polifilo, 1972.

Rem Koolhaas, Junkspace, Macerata, Quodlibet, 2006.

Stefano Mancuso, La nazione delle piante, Bari, Laterza, 2019.

Phillipe Rahm, Histoire naturelle de l’architecture. Comment le climat, les épidémies et l’énergie ont façonné la ville et les bâtiments, Parigi, Pavillon de l’Arsenal, 2020.

Bernard Rudofsky, Architecture without Architects, University of Messico, UNM Press, 1987.

Wolfgang Behringer, Storia culturale del clima. Dall’era glaciale al riscaldamento globale, Torino, Bollati Boringhieri, 2016.

Immagine di copertina: Michael Wolf, Architecture of density, Hong Kong, 2014.