Clelia Tuscano_intervista a Giancarlo De Carlo

Giancarlo De Carlo

Luoghi condivisi, reali e non
04/08/2010
Ho riletto con grande piacere l’intervista che avevo fatto negli anni ‘90 a Giancarlo De Carlo, pubblicata da NAI Rotterdam nel 2005, cercando i passaggi che potessero essere pertinenti al tema dell’abitare collettivo.
Al di là di un paio di riferimenti alla partecipazione, ciò che più mi sembra utile raccogliere da De Carlo è il suo approccio al tema progettuale, sia nel caso del Quartiere Matteotti di Terni come negli altri suoi progetti.

Giancarlo De Carlo era una mente libera per eccellenza e la qualità e l’aspetto innovativo dei suoi lavori derivano dalla capacità di inquadrare un tema e/o un contesto fisico sorvolando sulle più facili evidenze e spogliandosi sempre di quelle idee che – come dice Galimberti- “si annidano nella pigrizia del nostro pensiero”: idee che noi crediamo di pensare, ma che in realtà manteniamo per abitudine, e ci impediscono di capire il mondo.

E per questo esercizio continuo che Giancarlo De Carlo a Terni ha saputo ridefinire il ruolo dell’architetto in base alle potenzialità della situazione specifica, in cui le famiglie che avrebbero abitato gli appartamenti non solo erano già note ma, come sottolinea GDC nel libro intervista di Franco Bunčuga, erano parte di una comunità di operai metalmeccanici già abituata a discutere i loro problemi. Ciò che dobbiamo imparare dal progetto di De Carlo a Terni è la sua costante e ostinata e rigorosa capacità di leggere i contesti fisici e sociali cogliendone gli aspetti qualificanti e spingendone le potenzialità con forza ed energia oltre la comune percezione del proprio tempo.

Parlare di abitare collettivo oggi significa affrontare un tema estremamente mobile che sarà soggetto a cambiamenti radicali nei prossimi decenni, perché le relazioni fra le persone stanno cambiando e si svolgono su piani diversi dal contatto fisico e dalla condivisione dello spazio, e utilizzano mezzi molto vari. E’ possibile tenere contatti a distanza con frequenza e familiarità e livelli di condivisione insospettabili fino a pochi anni fa. Occorre pensare che la generazione degli adolescenti di oggi invecchierà in una solitudine diversa, forse meno aspra, sapendo gestire gli equivalenti futuri delle caselle di posta elettronica, delle chat e dei profili su facebook.
Anche nelle cooperative di co-housing o autocostruzione l’aspetto della comunità sociale sarà integrato per ciascun membro da costellazioni di comunità virtuali con condivisioni parziali, su piani diversi con persone diverse.

Occorre rivisitare il concetto di luogo, e di storia individuale e collettiva, e integrare la percezione che ne abbiamo come base di socializzazione: occorre immaginare i “luoghi” delle comunità virtuali. Esigenza già peraltro manifesta in quella moltitudine di contesti virtuali dalla fattoria a “second life” dove viene riproposto un luogo per le relazioni virtuali. La condivisione dell’abitare sarà complementare ad altre condivisioni. Il senso della nostra appartenenza ad un luogo ed ad una storia comune diventa uno dei livelli di socialità fra molti altri. Non sappiamo più prescindere dalla rete delle relazioni on line.
E’ su questo che bisogna sforzarsi di essere immaginifici oggi: sulla molteplicità dei rapporti sociali e sul significato della condivisione nell’abitare collettivo, inquadrandola nella rete sempre più complessa delle condivisioni virtuali.

Se torniamo al 1970 per capire ciò che è successo a Terni, dobbiamo farlo con l’obiettivo di prendere la rincorsa per proiettarci verso un futuro di almeno altri 40 oltre il tempo presente!

Non si può fare a meno della storia

Intervista con Giancarlo De Carlo sul Team Ten realizzata il 24/11/1999 a Milano, Via Pier Capponi 13
sotto gli occhi di un angelo di Piero della Francesca e di un Buddha nepalese

CT_Il Team Ten è nato dai CIAM, e tu hai respirato in prima persona l’atmosfera dei congressi CIAM (La Sarraz, Otterlo). Come potresti dipingere l’immagine del Movimento Moderno che avevi allora, attraverso i CIAM, e attraverso i tuoi contatti?

GDC_Quando si parla del Movimento Moderno si pensa a una grande armata messa insieme per combattere grandi battaglie. In un certo senso era così, perché l’atmosfera nella quale il Movimento Moderno si era formato non era pacifica. La scena architettonica era dominata dagli accademici dell’eclettismo, che pensavano l’architettura in termini di commistione di stili; fuori dalla scena c’erano molti giovani architetti che vedevano la via eclettica come un vicolo cieco e, per combattere l’accademismo, si erano uniti in un grande gruppo internazionale.

Però quei giovani, e meno giovani, che si erano uniti, erano di tendenze diverse. Se si scorre la lista dei partecipanti al primo convegno CIAM - il gruppo che poi, a ragione o a torto, è stato identificato col Movimento Moderno - si vede che sono persone che si esprimevano con linguaggi architettonici assai diversi perché diverse erano le loro convinzioni sull’architettura. In quell’elenco, per esempio, si trovano Berlage e il giovanissimo Le Corbusier: entrambi rifiutavano l’eclettismo, ma non avevano certo la stessa idea su cosa doveva essere l’architettura del loro tempo.

CT_Queste differenze si sono poi amalgamate abbastanza velocemente …

GDC_In realtà il Movimento Moderno è stato e ha continuato a essere l’incontro di una pluralità di tendenze che avevano in comune l’idea di cercare metodi di progettazione e linguaggi architettonici capaci di esprimere l’essenza del mondo contemporaneo. In comune credevano che era necessario liberarsi dallo storicismo e dagli stili e trovare riferimenti nei nuovi modi espressivi aperti dalle correnti più avanzate della pittura e della scultura, più sensibili di quanto non fosse stata l’architettura alle novità portate dalla scienza e dalla tecnologia.

Ma un’altra componente importante era sullo sfondo - sentita dagli architetti del Movimento in modo così diverso da creare linee di demarcazione molto nette tra loro - ed era l’utopia sociale. Si credeva (alcuni più di altri, ma tutti ne erano influenzati) che l’architettura potesse collaborare a assicurare a tutti condizioni di vita migliori e a colmare le ingiustizie sociali.

Di unità e di monoliticità del Movimento Moderno si può cominciare a dire dopo la fondazione dei CIAM, e cioè di quella numerosa riunione di architetti del Movimento Moderno che, sollecitati da Le Corbusier e organizzati criticamente da Siegfried Giedion, cominciarono la compilazione di un “manifesto” con il quale le forze dell’architettura moderna si affacciavano alla ribalta pubblica, per affermare e propagandare le proprie idee, per iniziare una grande azione di proselitismo.

I CIAM pian piano divennero monolitici e col tempo cominciarono a formare al loro interno una specie di struttura burocratica: Giedion stava scrivendo “Spazio, tempo ed architettura”, con l’idea che sarebbe diventata la bibbia del Movimento Moderno architettonico; e in realtà lo è diventata, ma solo di una sua parte. Alcuni allievi di Giedion e seguaci di Le Corbusier, che si occupavano dell’organizzazione dei CIAM, avevano il compito di organizzare un Congresso ogni due anni. Ogni Congresso mobilitava molte energie su un tema che il più delle volte era di grande interesse e richiedeva molta preparazione. Con la formazione di una struttura organizzativa quasi permanente, i CIAM hanno finito per allinearsi all’interpretazione delle idee di Le Corbusier data da Giedion.

L’aspetto interessante è che l’allineamento non avveniva sulle idee di Le Corbusier ma piuttosto sulla interpretazione che ne dava Giedion. Tanto è vero che a un certo punto Le Corbusier aveva cominciato a essere piuttosto disinteressato ai CIAM e li aveva disertati. Seguiva la sua strada e non aveva più curiosità per una organizzazione che si era progressivamente irrigidita; al punto che, a Otterlo, in un baleno è crollata.

CT_A parte la rigidità, che anche fisicamente corrisponde a fragilità, quali sono state secondo te le principali cause che hanno causato il collasso ad Otterlo?

GDC_La apparente solidità dei CIAM era minata da alcuni tarli. Uno era l’ostilità nei confronti della Storia. Questo atteggiamento, senza dubbio settario, si poteva ancora capire nel periodo eroico, quando era stato deciso di sostenere che la Storia, essendo pastura degli accademici, era anche fonte di corruzione. Gli accademici eclettici non parlavano altro che di Storia, di culto del passato e di stili; per opporsi alle loro contraffazioni “storiche” bisognava farne piazza pulita: “punto e a capo”, come diceva Persico.

Ma come si può fare a meno della Storia? Come, nell’architettura, ci si può permettere di ignorarla? Se non si accetta la Storia si nega anche il contesto; non si capisce più la città, non si sa più cosa sia una strada o una piazza, si perde la grande ricchezza dell’eteronomia. E l’architettura non può permetterselo. Del resto la Storia, anche quando viene ufficialmente cacciata, resta sempre ben presente nei pensieri dei personaggi più intelligenti. Le Corbusier ne era appassionato e per rendersene conto basta leggere “Le voyage en Orient”. Nei suoi libri e anche nelle sue opere la Storia trapela: lo interessano gli edifici antichi più gloriosi, molti suoi disegni sono di luoghi e edifici storici, che poi sono diventati suoi riferimenti progettuali.

Anche Alvar Aalto era impregnato di Storia, in un modo diverso, senza dubbio: come di nostalgia, di affettuoso ricordo di scuola. I suoi concorsi erano sempre titolati con motti latini e i suoi riferimenti, dichiarati o no, erano spesso architetture greche o romane. Lo stesso si può dire per Gropius, Rietveld, Dudok, Markelius e molti altri. Col tempo infatti la Storia è tornata ed è diventata torrente impetuoso; forse anche distruttivo delle strutture dogmatiche alle quali i CIAM erano rimasti ancorati.
A Otterlo era arrivato il tarlo della Storia, anche per merito degli italiani che avevano riproposto il problema in modo esplicito, parlando di Storia non come riserva di forme da copiare ma come premessa per comprendere il presente e immettersi nel circuito della contemporaneità. Solo se sanno dove sono in senso temporale e esistenziale - sostenevano - gli esseri umani diventano capaci di intervenire per cambiare, altrimenti restano fermi fingendo di muoversi.

Il ritorno alla Storia che gli italiani avevano riproposto ha avuto un impatto decisivo su quei partecipanti che avevano capito cosa intendevano.

CT_Questa posizione nei confronti della storia in quel momento non era consolidato nemmeno in Italia.

GDC_Bisogna dire che nemmeno tutti gli italiani presenti al Convegno erano sulla stessa linea: la mia posizione, per esempio, era diversa da quella di Ernesto Rogers, molto più storicista e anche ecumenico; Avevo portato un forte attacco a un progetto che proponeva interventi in un centro storico che mi sembrava non tenessero conto dei suoi caratteri fondamentali. Per la prima volta avevo sostenuto la necessità di una lettura critica del contesto condotta con mente progettante, e questo aveva suscitato forte curiosità in alcune persone: per esempio Candilis e Woods e anche van Eyck e Erskine.

Nel Team X di storia si è poi continuato a discutere, e anche di morfologia. Anche questo problema, prima per pudore ma poi per ignoranza, era stato dimenticato. Molti seguaci del CIAM disegnavano l’impianto distributivo e pensavano che il progetto fosse già a posto, tutto finito!

CT_Possiamo parlare dei tuoi ricordi di come e quando sia nato il Team Ten ? Sai che è una questione un po’ controversa…

GDC_La storia della nascita del Team X ognuno di noi la ricorda in modo diverso; e questo è anche interessante, oltre che strano. Per esempio quando racconto a Peter Smithson come secondo me è nato il Team X, lui sostiene che non gli sembra vero e che ci deve essere stato un altro modo di nascere che anche lui non ricorda bene. A me sembra di essere sicuro di quello che ricordo, ma se lui sostiene che non è così ci sono buone ragioni di dubitare.

In ogni caso, secondo me il Team X è nato nel castello di La Sarraz - dove i CIAM nel 1938 erano stati fondati - nel corso di una riunione promossa dal Segretario Generale Siegfried Geidion per discutere della preparazione del Convegno di Dubrovnik. Alla riunione era stato invitato il Consiglio Direttivo (Max Bill, Jacqueline Tirwitt, André Wogenski, Ernesto Rogers e qualcun altro che non ricordo) e ogni membro del Consiglio era stato autorizzato a invitare un giovane del suo paese; Ernesto Rogers, generosamente, aveva invitato me. Nei CIAM ormai c’era un po’ di maretta e Giedion, che era un fine politico, aveva deciso di placarla invitando a discutere anche i giovani più critici.

Così a La Sarraz mi sono trovato insieme a Peter Smithson, Shadrak Woods, Blomsted, Petaia e Pietila, John Voelker (van Eyck non aveva potuto venire e neppure Candilis), Josic, Oscar Hansen e qualche altro di cui ho perso il nome. Il primo giorno, dopo le presentazioni e i saluti, il Consiglio si era chiuso in una stanza a discutere cosa si sarebbe dovuto discutere, e i giovani erano rimasti a aspettare le decisioni in un’altra stanza adiacente e, nel mio ricordo, piuttosto oscura. Passavano le ore e le decisioni non arrivavano. Ogni tanto usciva Max Bill, che era molto simpatico, ammiccava prima di rientrare ma non diceva una parola. Poi, a un certo punto, è uscito Vogensky e ha annunciato che il Consiglio aveva deciso di mandare un telegramma di auguri a Le Corbusier perché la sua mamma non stava bene: e pensava che avremmo potuto firmarla anche noi. Lo avevamo mandato al diavolo e gli avevamo detto che non avremmo firmato niente perché eravamo stufi di aspettare.

Poi, visto che non succedeva nulla, abbiamo cominciato a discutere tra noi, dei nostri personali lavori. Ciascuno aveva con se qualche fotografia e qualche disegno, pensando che prima o poi gli avrebbero chiesto cosa stava facendo. Io mi ero portato dietro tre disegni e due foto delle case di Baveno. Abbiamo attaccato le nostre immagini alle pareti e cominciato a parlarne; poi a discuterne; con qualche difficoltà di comunicazione perché si era allora in un momento di trapasso tra il francese e l’inglese e pochi conoscevano le due lingue.

Questa è stato secondo me la vera nascita del Team X.

CT_Effettivamente ciò non corrisponde ai racconti di altri (Candilis, Smithson, ..)che collocano la nascita del Team X in altre situazioni e in altri momenti.

GDC_So bene che Peter Smithson e sua moglie Alison e altri loro amici inglesi avevano già un gruppo a Londra e che proprio Alison considera ancora quel gruppo la vera matrice del Team X; così infatti ne scrive nel Team X Primer. Ma non è così: il Team X è nato dallo scambio tra giovani di diverse culture che a La Sarraz avevano manifestato concretamente il loro disappunto per i metodi dei CIAM e avevano cominciato a scambiarsi idee in modo diverso dal consueto. Del resto il nuovo gruppo si era chiamato Team X perché Giedion, quel giorno a La Sarraz, per placare la loro insofferenza aveva dato loro il compito di preparare il Decimo Congresso dei CIAM che si sarebbe riunito a Dubrovnik l’anno dopo.

A Dubrovnik, dove io non ero potuto andare, alcuni di quei giovani che erano a La Sarraz si erano ritrovati e ne avevano cooptato altri egualmente persuasi che i CIAM fossero diventati una nuova accademia e si sentivano confortati in questa supposizione dal fatto che Le Corbusier, e anche Gropius e Aalto e altri “padri”, avevano cominciato a disertare i Convegni perché li trovavano noiosi. Hanno continuato a tenersi in contatto quei giovani e, come capita sempre nei cambiamenti, alcuni della vecchia guardia hanno accolto le loro idee.

CT_Chi del gruppo CIAM era più vicino alle vostre idee?

GDC_Jaap Bakema e Jerzy Soltan erano tra i nuovi arrivati più di rilievo e interessanti. Soltan aveva lavorato a lungo con Le Corbusier al Modulor, Jaap Bakema apparteneva alla grande stirpe degli architetti olandesi che avevano costruito i Bergpolder e la Van Nelle. Tutti e due erano personaggi di grande qualità: Soltan particolarmente acuto, Bakema molto competente, appassionato e eccezionalmente generoso. Col loro entrare nel circuito critico, nel quale avevano cominciato a orbitare anche Ralph Erskine, Oscar Hansen, Charles Polonyi e poco dopo José Coderch, lo scambio tra tutti noi è diventato più frequente e più ricco di argomenti.

Nel ‘59 ci siamo ritrovati tutti al Convegno di Otterlo. Ci eravamo già scambiati idee per lettera, avevamo parlato a piccoli gruppi tra noi. Il convegno di Otterlo è stata l’occasione per riconoscerci e per renderci sicuri che eravamo diversi dalla massa di convegnisti tranquilli che militavano nei CIAM come fossero in un grande partito. Noi, del gruppo dei giovani nervosi, che non volevano più accettare le regole e proponevano altri argomenti, eravamo molto diversi uno dell’altro ma egualmente determinati a rinnovare. Ma come rinnovare? Su questo le idee divergevano. Gli Smithsons per esempio avevano portato al convegno Louis Kahn pensando che potesse agire da catalizzatore e alcuni di noi, che del resto lo rispettavano, anche ne diffidavano perché temevano che la sua presenza potesse significare un ritorno ai Beaux Arts.

Altri avevano portato Kenzo Tange, che però se ne stava impassibile a sentirci discutere senza prendere posizione e forse senza capire.

CT_Forse ad Otterlo la disapprovazione dei veterani dei CIAM è stata di aiuto per superare la vostra eterogeneità; molti progetti sono stati criticati, oltre alle tue case di Matera; tu personalmente cosa pensavi degli altri progetti, così diversi dal tuo?

GDC_I lavori presentati dagli italiani (Gardella, Rogers, Magistretti e io) erano stati attaccati con fervore; soprattutto la Torre Velasca e, con indignazione, la mia casa di Matera. Non facevano differenza tra le due, i Ciamisti di stretta osservanza: e invece la distanza era abissale.
Van Eyck aveva presentato il primo progetto per la Casa dei ragazzi a Amsterdam e anche lui era stato criticato perché le sue invenzioni formali inquietavano i Ciamisti più ortodossi. Candilis, Woods e Josic avevano un progetto di inserimento di nuove costruzioni nel centro storico di Bagnole-sur-Cèse e Bakema aveva presentato uno dei suoi numerosi progetti.

Nessuno di noi era del tutto persuaso dei progetti degli altri - a me per esempio non piaceva molto il progetto di Bagnole-sur-Cèse né il progetto di Bakema, mentre mi interessava molto il progetto di van Eyck - però sentivamo che tra noi c’era qualcosa in comune e che eravamo ormai su una strada diversa da quella dei CIAM. Allora abbiamo attaccato e ci siamo trovati sulla stessa linea critica.
La notte delle grandi decisioni era stata particolarmente eccitante. La riunione era cominciata nel pomeriggio e alle quattro di mattina non era ancora finita. Noi avevamo attaccato l’ “istituzione” che un tempo era stata grande e ora secondo noi era finita, ma non ci eravamo messi d’accordo su che cosa volevamo ottenere. Tutti i nostri interventi dimostravano che bisognava sciogliere i CIAM ma non lo chiedevano. Si diceva che bisognava dare aria nuova all’architettura, liberarla dai dogmi e rimettere in moto la ricerca. Ma nessuno aveva presentato mozioni, raccolto una maggioranza, chiesto che si votasse. Si discuteva e con furore si portavano argomenti per dire che bisognava cambiare.

Così i CIAM si sono sciolti da soli. Alle quattro di mattina Giedion, a nome del Consiglio Direttivo, ha annunciato che i CIAM erano finiti.

CT_Credo che in quel momento non fosse ancora chiaro che si era formato un gruppo che aveva obiettivi “costruttivi”, oltre a quello “distruttivo” di contestare i CIAM.

GDC_Infatti, non era chiaro, ma il giorno dopo, per trasformare l’evento in positivo, quelli che forse erano già - o sarebbero stati - il Team X, si sono riuniti e abbiamo (c’ero anch’io) ridiscusso i progetti che avevamo già presentato al Convegno. Questo è stato il primo vero incontro del Team X che ha preso subito i caratteri che avrebbero avuto tutti gli incontri successivi: concentrarsi sui progetti di ciascuno, partire dai disegni e non dalle dichiarazioni verbali, criticare con sincerità e anche con durezza proprio perché si aveva stima del criticato, non cercare a tutti i costi unità di opinioni per pervenire a conclusioni unanimi: la ragione dei nostri incontri era la curiosità di scambiare idee con persone il cui lavoro consideravamo serio, creativo, significante; senza necessariamente condividerne i risultati.

In quell’incontro, a Otterlo, la discussione era stata dura. Alison Smithson in particolare era stata spietata; (credo perché sopportava male i nuovi arrivati - e io tra loro - che forse considerava intrusi). Non era sicuro, sosteneva, che ci saremmo incontrati di nuovo perché forse non eravamo un gruppo e forse avevamo idee divergenti (e comunque la maggior parte di noi non apparteneva al suo gruppo originale). Ma nel corso della riunione era venuto fuori che invece avevamo voglia di rivederci e di continuare la discussione. Così infatti è accaduto, anche per merito di Bakema che si era assunto il compito di promuovere altre riunioni e aveva aperto una Casella Postale.

CT_Così Alison da subito ha considerato il Team Ten un suo territorio.

GDC_Ho sempre apprezzato il rigore di Alison Smithson anche quando non riuscivo a sopportare la sua asprezza - qualche volta perfino sgarbata. Aveva una chiarezza intellettuale singolare e non cedeva in nessun modo ai luoghi comuni così frequenti nei comportamenti degli architetti. Inoltre aveva sincera ripugnanza per l’organizzazione, perché temeva che generasse burocrazia. La Casella Postale aperta da Bakema è stata l’unica struttura organizzativa sulla quale il Team X ha potuto contare nel corso della sua esistenza. Ogni volta Bakema proponeva un incontro, fissava una data e ci invitava. Ciascuno di noi indirizzava la risposta alla Casella Postale.

Il primo incontro dopo Otterlo è stato a Bagnole-sur-Cèse, dove Candilis e Woods avevano realizzato un loro progetto. Così era stato instaurato un metodo seguito anche negli incontri successivi: si andava dove uno di noi aveva realizzato qualcosa e tutti gli altri portavano un progetto che avrebbero discusso con gli altri nel luogo scelto per ospitarci. Dopo Bagnole credo che ci siamo incontrati in Olanda, perché era dove Bakema e van Eyck avevano fatto qualcosa e poi a Berlino e poi in altre città Europee. Il motivo dell’incontro era quasi sempre connesso con la conclusione di un cantiere. Non si sapeva mai se e quando ci saremmo incontrati di nuovo. A un certo punto arrivava una proposta di Bakema e ciascuno di noi partiva con il suo rotolo, le sue foto, le sue diapositive.

CT Gli incontri dopo Otterlo sono stati circa una decina, ma tutti voi avete ricordi molto vividi delle riunioni. Nei vostri racconti sembra che lo scambio avvenisse in profondità, su molti piani. Come si creava un coinvolgimento così intimo?

GDC_Ogni riunione cominciava in modo quasi casuale: ci si sedeva intorno a un tavolo, ci si informava su quello che si era fatto dall’ultima volta, si parlava delle famiglie e dei figli. Questo mi piaceva molto: nessuna cerimonia, nessun discorso, niente retorica, molta attenzione a non entrare in modo drammatico nelle cose, ma piuttosto di scivolarci dentro senza quasi farci caso. A un certo punto qualcuno si avvicinava a una parete e cominciava ad appendere un paio di foto, qualche schizzo, un disegno; mentre gli altri continuavano a chiacchierare. Finché qualcuno diceva a chi aveva appeso le sue cose: “allora, vediamo un po’ cos’hai fatto…”. Così cominciava la spiegazione e poi si discuteva. Qualche volta la discussione diventava molto accesa. A Royaumont van Eyck era stato attaccato in modo piuttosto violento per un progetto di suoi allievi che aveva presentato. In quella circostanza lo avevo difeso. Altre volte l’ho criticato io, altre mi ha criticato lui, altre ancora ha preso la mia parte. A Berlino, parlando di un suo progetto criticato da altri, avevo detto che aveva spirito borrominiano. Shad Woods, che quella volta non c’era, aveva ascoltato un nastro e si era irritato perché nel contesto di quello che dicevo c’era una critica alla sua Università di Berlino e aveva scritto una graziosa poesia dove chiedeva perché diavolo mi era venuto in mente di paragonare Borromini all’ “olandese”.

Durante gli incontri, che duravano tre o quattro giorni, i progetti di ognuno di noi venivano minutamente analizzati e si discuteva e, senza peli sulla lingua, reciprocamente ci si criticava. Alla fine ci si lasciava sempre con rammarico perché tra noi si era formata grande amicizia alimentata da stima.

CT_Non tutti gli incontri però hanno avuto un’atmosfera così famigliare; forse a Berlino e ad Urbino era più “pubblica”, e ciò ha creato dei problemi.

GDC_Nel meeting di Berlino c’era stata un’aria più ufficiale del solito, forse perché era presente anche Ungers che avevamo invitato insieme a un altro architetto tedesco che si occupava dell’I.B.A. Erano arrivati i giornalisti che chiedevano di incontrare il Team X e la rivolta era stata unanime. Alison Smithson, a nome di tutti, aveva detto che i giornalisti non li volevamo, che non eravamo lì per far parlare la stampa di noi e che se lo avessimo fatto tutto sarebbe cambiato; e aveva proprio ragione.

Non abbiamo mai avuto contatti con i mass-media. Qualche volta abbiamo usato il registratore, ma con parsimonia: tanto è vero che delle nostre discussioni non è rimasto quasi niente. Questo mi sembra importante soprattutto oggi: noi non parlavamo per la storia. Le pubbliche relazioni hanno dilagato dopo nell’architettura, con i postmoderni e con gli architetti manager.

Allora noi eravamo persuasi che i nostri discorsi interessavano solo noi. Discutevamo per cercare di capire meglio quello che stavamo facendo, ma non pensavamo di fare storia. Nessuno di noi ha mai pensato che quello che stavamo dicendo era storico! Il Team X era, in un certo senso, una società anarchica: non c’erano capi, né gerarchie, né regolamenti, né programmi: tutto nasceva da come si svolgevano le cose e dagli interessi che ciascuno di noi manifestava. Per questo l’atmosfera era molto tesa, c’era sempre tensione tra noi; perché non c’era ombra di passività: ciascuno, nel suo modo personale, era attivo. Non eravamo uniti, come si dice di un gruppo organizzato, perché eravamo critici verso noi stessi e ci prendevamo la libertà di non condividere, e di dirlo francamente quando accadeva.

CT_Come erano in particolare i tuoi rapporti con gli altri? Conosco la tua profonda amicizia con Peter Smithson, e ho visto la tua sintonia con Aldo Van Eyck, ma cosa ti legava agli altri?

GDC_Le connessioni fra noi erano molto differenziate. Per esempio, io avevo molta simpatia per Peter Smithson, e credo lui per me. Avevamo - e continuiamo a avere - un forte, reciproco interesse per il nostro modo diverso (ma spesso convergente) di interpretare le motivazioni e le conseguenze dei pensieri e degli atti architettonici. Meno interessati siamo stati invece tutti e due al nostro rispettivo modo di fare architettura. Con Aldo van Eyck era il contrario e anche con Erskine. Van Eyck ha certamente influenzato i miei lavori, e io i suoi. Lo stesso, più tardi, è accaduto tra me e Erskine.

Mi ha interessato molto Shad Woods per la sua sensibilità sociale; però non mi piaceva del tutto il suo edificio per la Libera Università di Berlino, anche se lo trovavo intelligente. Woods era del resto un personaggio interessante anche per la sua storia personale. Era americano e durante la guerra era stato mandato a bombardare l’Europa. Appena finita la guerra, angosciato dalle distruzioni che involontariamente aveva provocato, era andato da Le Corbusier e gli aveva chiesto di farlo partecipare alla ricostruzione. Era laureato in lettere e non aveva mai preso la matita in mano, ma Candilis che era già in studio aveva perorato la sua causa e Le Corbusier lo aveva assunto e lo aveva mandato a Marsiglia per lavorare - con Candilis, appunto - alla direzione lavori dell’Unité d’Habitation.

Dopo Marsiglia, insieme a Candilis e Josic, aveva aperto uno studio in rue Dauphine. Era un uomo ispirato e aveva senso sociale. Dopo un incidente che gli era capitato aveva deciso di non mettere più piede su un’automobile perché lo considerava uno strumento di violenza. Un altro personaggio interessante era José Antonio Coderch: ottimo architetto; uomo di destra che però si era opposto all’accademismo franchista pagando di persona. Le sue prime opere erano molto fini. A Otterlo aveva preso subito posizione con noi e poi aveva continuato a venire ai nostri incontri. Con lui veniva anche Federico Correa che però non si è mai considerato, ne è stato da noi considerato, parte del Team X: alle riunioni non appendeva alle pareti i suoi lavori.

Poi c’era Alison Smithson che ogni tanto suscitava negli altri ire incontenibili, perché il suo narcisismo la portava a essere aggressiva e perfino villana. Se il progetto di uno di noi non le piaceva lo copriva di contumelie. A Otterlo un giovane americano era stato attaccato da lei con violenza inaudita e pare che non se ne sia mai ripreso. Ne è rimasto affranto per tutto il resto della sua vita. Di essere franchi era la regola del gioco, ma lei la portava all’estremo. Nessuno hai mai fatto lo stesso con lei. Perché era una donna? Perché era la moglie di Peter che era più mite? Perché non c’era censura?
Gli Smithson erano una coppia di ferro; non si è mai vista una discrepanza tra loro, anche se erano molto diversi, anche se con Peter si stava più volentieri.

CT_Gli Smithson si sono sempre arrogati il ruolo di coordinatori degli incontri del Team X, e della stesura di riflessioni a posteriori. Hanno fatto l’immane lavoro di raccogliere le idee che circolavano e darne la loro versione nel Team Ten Primer, che è diventato la versione ufficiale del Team X. Ti riconosci nel Team Ten Primer?

GDC_Il Team Ten Primer è l’unica fonte sul Team X, scritto da Alison e condiviso del tutto, a quanto pare, da Peter. Non condiviso invece da me, van Eyck, Erskine, Candilis, Woods e gli altri - credo - ai quali Alison aveva attribuito pensieri e atti non del tutto veri. In sostanza il Primer parla del Team X come fosse una creatura degli Smithson e come se tutti noi ci fossimo stati dentro saltuariamente e per caso. Perché? Per narcisismo e non certo per malafede. Hanno raccontato il Team X come fosse cosa loro, perché così credevano che fosse; e questo ci ha fatti infuriare tutti. Aldo van Eyck in particolare. Ma fino a un certo punto: dopotutto che importanza può avere? Non era forse uno dei principi del Team X di non volere fare “storia”?

In questi ultimi anni all’ILAUD con Peter ho ridiscusso tante cose. Mi è servito molto perché è singolarmente intelligente e ha una cultura assai diffusa. Penso sia servito anche a lui e credo che non condivida più alcune idee che nel Team X Primer erano attribuite a tutti noi e invece erano solo sue e di Alison. In particolare, una serie di schematizzazioni sul senso dell’architettura contemporanea e sul suo rapporto con la tecnologia e con la storia. Hanno influito molto sul pensiero di Peter le esperienze che ha fatto all’ILAUD a Urbino e a Siena.

Credo si sia persuaso che esistono tanti altri valori nell’architettura contemporanea, oltre quelli del periodo eroico e del Team X; che Alvar Aalto è un grande architetto, che Mies per certi aspetti (molti, secondo me) è discutibile, che è possibile trovare in Gran Bretagna altri architetti di valore oltre i pochissimi che lui e Alison avevano legittimato. Il Team X - quello vero, dopo Otterlo - è servito anche a lui, come a quasi tutti noi, per capire che si può discutere di architettura solo partendo dai fatti; perché se si parte dalle idee, o peggio dalle ideologie, c’è rischio di pre-giudicare.

Al Team X non abbiamo mai detto: adesso discutiamo della partecipazione. Se capitava di discutere un progetto coinvolto con la partecipazione (Terni, Byker) allora veniva fuori il discorso sulla partecipazione. Non affrontavamo mai i problemi in termini astratti. Quando a Amsterdam abbiamo discusso della chiesa di van Eyck - uno dei progetti più belli tra quelli che ha fatto - siamo andati a visitarla, poi abbiamo visto i disegni, abbiamo ascoltato van Eyck che ci diceva del processo che aveva seguito, poi abbiamo discusso e solo alla fine abbiamo parlato di caratteri specifici di un edificio religioso. Non siamo partiti teorizzando su quale sia il carattere di un edificio religioso, né su come deve esprimersi in architettura la religiosità. Si partiva sempre dai fatti per arrivare alle idee e poi si tornava ai fatti.

CT_Vuoi parlarmi di qualche incontro in particolare?

GDC_Non ricordo quanti incontri abbia fatto il Team X: saranno stati 10 o 12; ma questo lo si può sapere con esattezza perché qualcuno li avrà pure elencati. Alcuni incontri sono stati tra poche persone, altri abbastanza numerosi. Tra i più numerosi c’è stato quello di Royaumont dove erano stati invitati anche Stirling, Alexander, Kurokawa, Colin Saint John, alcuni architetti olandesi e catalani, numerosi giovani che erano vicini allo studio Candilis. Il Convegno era stato molto interessante ma c’era stato allarme: qualcuno aveva detto che eravamo troppi e stavamo diventando un partito.

Eravamo tutti d’accordo sul principio che i contatti con l’esterno erano necessari ma non ci saremmo mai dedicati al proselitismo. Però alcuni di noi volevano allargare il gruppo originale cooptando altri architetti che senza dubbio erano in sintonia con i nostri modi di lavoro. Altri invece - e tra questi gli Smithson - vedevano l’allargamento come una minaccia di corruzione. La crisi su questo dissidio è scoppiata in occasione dell’incontro di Urbino. Due incontri del Team X sono avvenuti in Italia: uno a Urbino nel 1966, quando avevo finito il Collegio del Colle, e uno a Spoleto nel 1976, quando avevo finito le abitazioni di Terni.

A Urbino , d’accordo con Bakema e van Eyck, avevo invitato alcuni architetti che consideravamo molto vicini al Team X: Doshi, Maki, Kurokawa, Stirling, Colin St. John, Chris Alexander, Ungers e, tra gli italiani, Ignazio Gardella e Gino Valle oltre a vari giovanissimi che volevano assistere ai lavori.
Gli Smithson non avevano accettato, avevano protestato e si erano rifiutati di venire all’incontro: negli scritti successivi hanno sostenuto che l’incontro di Urbino non era stato un Team X meeting.
Un pasticcio analogo era successo a Amsterdam qualche anno dopo, quando Bakema e van Eyck avevano invitato Hertzberger e gli Smithson avevano reagito energicamente. Quando penso a queste storie provo un po’ di rammarico perché era giusto non dedicarsi al proselitismo però era anche giusto accogliere architetti che pensavano e lavoravano in modo simile al nostro. Il loro ingresso avrebbe allargato i nostri orizzonti e forse il corso dell’architettura contemporanea sarebbe stato diverso.
Non sarebbero stati consegnati ai Postmoderni personaggi come Stirling che erano senza dubbio più vicini a noi che a loro.

Bisogna però anche dire che il rigore di chi non voleva allargamenti ha preservato il Team X dal rischio di diventare una “organizzazione”, come era stato per i CIAM. L’appartenere al Team X è sempre rimasto un fatto non istituzionalizzato, al punto che nessuno di noi ha mai potuto dire con certezza se nel Team X c’era o non c’era. Molti infatti erano solo nell’orbita, qualche volta venivano invitati agli incontri e dal Team X erano influenzati: tra questi Sverre Fehn, Bengt Edman e molti altri architetti di grande qualità che anni dopo hanno partecipato all’ILAUD.

CT_Sono stati questi problemi ad allentare i gruppo? Forse i rapporti fra di voi erano diventati più individuali, mentre includere nuove persone avrebbe portato di nuovo discussioni collettive? Perché il Team è finito?

GDC_Il Team X è finito perché abbiamo smesso di riunirci; e questo è accaduto quando Bakema è morto e ha chiuso la sua Casella Postale. Abbiamo continuato a vederci ma riunioni, dopo la morte di Bakema, non ce ne sono più state. L’ultima riunione era stata a Bonnieux dove Candilis aveva una casa. Eravamo molti quella volta e era venuto anche Erskine che da tempo non avevamo più visto. Aveva parlato del risparmio di energia che in Svezia stava cambiando l’aspetto degli edifici. Aveva parlato anche di partecipazione e aveva insistito molto su questi due argomenti che, secondo lui, erano la vera novità. Poi aveva ironizzato sul nostro discutere di forma architettonica dicendo che eravamo diventati vecchiotti se eravamo tornati a parlare di queste cose. Nessuno più di lui si occupava di questioni formali, ma conservava il pudore dei pionieri: il parlare di forma era meglio lasciarlo all’abuso impudente degli accademici; per gli architetti seri la forma architettonica doveva essere e restare una questione implicita.

Dopo Bonnieux non ci sono più state riunioni. Il Team X era finito. Ma non era stato sciolto. Nessuno ha mai detto “lo sciogliamo”, come nessuno aveva mai detto “lo facciamo nascere”.

CT_Che rapporti hai mantenuto tu con gli altri architetti, e quale immagine hai oggi del gruppo, in relazione al Movimento Moderno e al momento presente dell’architettura?

GDC_Per me personalmente dopo il Team X è venuto l’ILAUD. Che è tutta un’altra cosa anche se naturalmente, quando ho fondato l’ILAUD, mi sono portato dietro molte idee del Team X.
Negli ultimi anni del Team X andavo spesso negli Stati Uniti. Anche van Eyck ci andava e anche Bakema, Candilis, Erskine. Soltan e Woods ci vivevano da alcuni anni. Così le idee del Team X si sono diffuse nelle Università americane e molti architetti di qualità ne sono stati influenzati. Tra questi Charles Moore, che poi è venuto all’ILAUD ripetutamente. Solo gli stolti se ne sono meravigliati perché avevano classificato Charles Moore “postmoderno” e quindi incompatibile con Team X, ILAUD, G.D.C., ecc..ecc… Invece Charles Moore era un architetto intelligente e sensibile, che si occupava anche di partecipazione e l’aveva in atto nella progettazione di alcuni suoi edifici pubblici californiani. Tra l’altro, lavorava con Donlyn Lyndon, uno dei fondatori dell’ILAUD che hanno molto influenzato il suo sviluppo.

Ma tornando al Team X, io credo che se oggi se ne volesse parlare bisognerebbe ricordarsi prima di tutto che non era un gruppo convenzionale, che non ha avuto una storia chiusa, che per capirlo bisogna guardarlo da molti punti di vista perché era poliedrico. Rispetto al Movimento Moderno e ai CIAM non è stato né un colpo di stato né una presa incruenta del potere. E’ stato, si potrebbe dire, una specie di perestroika. Nessuno del Team X ha mai detto che il Movimento Moderno era da buttare. E’ stato detto che si era anchilosato e che la sua struttura organizzativa - i CIAM e l’apparato che lo dirigeva - lo avevano portato alla paralisi. Ciascuno di noi pensava che Le Corbusier era un grande architetto, ma tutti rifiutavano di dedicarsi al culto della sua personalità.

Il Team X ha rappresentato la prima critica radicale e sistematica al Movimento Moderno ma, a differenza degli ignari e incolti postmoderni, gli riconosceva un importante patrimonio di idee e atti da preservare. Nessuno di noi credeva che la forma segue la funzione, ma neanche che la funzione deve seguire passivamente la forma come hanno sostenuto i fatui postmoderni. Ci interessava capire invece come attività, sistemi organizzativi e forme si influenzano reciprocamente e configurano lo spazio fisico.

Io credo che il Postmoderno, dopo aver prodotto danni incalcolabili (perché ha immiserito e reso vana l’architettura), sia già arrivato alla fine. E allora, visto che è finito, si può cominciare a pensare con ottimismo a che cosa, malgrado la sua inconsistenza, abbia prodotto di positivo. Del resto anche il Postmoderno non è stato monolitico: ha avuto varie componenti e, ai due estremi, una fascista e una vagamente libertaria. La tendenza vagamente libertaria che è esistita negli Stati Uniti (non in Italia) ha avuto il merito di fare riflettere sull’eclettismo, sul perché sia tornata a galla la necessità di mescolare o combinare linguaggi non omogenei. Deriva da una sorta di tortuosa compensazione: si cerca una cosa, se ne trova un’altra simile e si prova a adottarla lo stesso benché non sia la cosa ricercata? Se questo è il senso dell’eclettismo attuale, allora potrebbe essere interessante perché la risposta al problema che ancora inconsapevolmente pone non è la commistione di stili ma la formazione di un linguaggio molteplice. Si vorrebbe pervenire non all’eclettismo, che inevitabilmente è stilistico e quindi fin dal primo movimento mortuario, ma alla composizione di rappresentazioni stratificate e aperte, comprensibili in modo diverso secondo la sensibilità, la competenza, l’acume di ciascuno.

Il Movimento Moderno era univoco e esclusivo, mentre oggi non possiamo più fare a meno di rappresentazioni polivalenti e inclusive. La loro costruzione è assai difficile perché è sempre possibile, nei momenti di debolezza, scivolare di nuovo nell’eclettismo. Ma nei momenti di lucidità si può arrivare a risultati di grande significato complessivo.

CT_Mi puoi fare degli esempi?

GDC_Un esempio tratto dal passato è la magistrale Villa Adriana di Tivoli, dove la molteplicità di linguaggio è intrinseca alla sostanza compositiva: gli allineamenti, le dissonanze, le variazioni, le ripetizioni sono sottili; gli assi si incrociano, divaricano e si riconnettono con naturalezza tale da non riuscire a distinguere se i loro rapporti derivino da un calcolo a priori o siano stabilizzati da una combinazione a posteriori; per cui si confonde il programma con il risultato e ogni composizione dello spazio diventa significativa. Io non sono sicuro che tutti gli architetti che lavoravano con l’imperatore Adriano cercassero un linguaggio molteplice, ma è possibile perché vivevano in una società ricca di tensioni e cambiamenti come la nostra, in una società essenzialmente “extracomunitaria”.
Un altro esempio? Il Palazzo Ducale di Urbino, dove anche il visitatore più sprovveduto non può scampare l’incanto dei magici rapporti che legano i diametri dei torricini con l’altezza delle logge, le diagonali del giardino pensile, ecc..ecc….; e in quell’incanto trova il suo livello di comunicazione con l’eloquenza della fabbrica mirabile.

E ancora un esempio? Santa Sofia a Costantinopoli, dove in una serrata concatenazione le volte schioccano, si tendono e si lascano come vele; per cui si sente lo spazio anche per come suona. Anche qui ognuno ritrova la misura di quello che vede confrontandolo col suo corpo e la sua memoria.

E ancora un altro esempio? Il Portico degli Innocenti del Brunnelleschi, dove tutti i mendicanti che passano per Firenze si siedono sui gradini e sono distolti dalla qualità dello spazio dal loro mendicare.

E ancora un altro? L’Unité d’Habitation a Marsiglia che, malgrado alcune sue incongruenze, è un luogo di coinvolgimento totale, proveniente da molte direzioni.

E infine, per essere più chiaro sulla molteplicità di linguaggio, vorrei fare un ultimo esempio: “La febbre dell’oro” di Charlie Chaplin. Nella sala cinematografia dove lo si proietta ci possono essere professori, politici, amministratori, economisti, medici , operai, giardinieri e qualche architetto e tutti finiranno con l’essere coinvolti con la narrazione: nessuno penserà che il film sia una scemata. Infatti il film è un capolavoro, perché riesce a svolgere la sua storia su una trama di immagini mirabilmente stratificate. Gioca sul tragico, sul comico, sul patetico, sulla risata, sulla smorfia e sulla commozione; è salace ma anche sottile e sofisticato, ripete cose note e le intreccia con cose sorprendenti, il suo linguaggio è così poliedrico che tutti ci trovano qualcosa che capiscono in modo chiaro: i professori come i giardinieri (ma potrei dire i bianchi come i neri, i gialli, i meticci e tutti quelli che hanno diverse sfumature di colore), tutti trovano riferimenti con le specificità delle loro culture; perché il linguaggio del film è molteplice e quindi può descrivere e rappresentare e alludere situazioni che appartengono alla realtà di ciascuno.

Un’opera d’arte è significativa quando risuona con la realtà di chi la esperisce; è un capolavoro se è vecchia di secoli e continua a risuonare con la realtà di chi l’ha esperita da quando è nata.
Non è facile progettare architetture davvero significative, ma è molto probabile che il loro linguaggio sarà molteplice perché oggi la realtà potenziale delle società e degli individui è poliedrica, svariata e multicolore.

[Clelia Tuscano]

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