Anna Rita Emili. Non solo Bucky

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Non solo Bucky

Per comprendere la ricerca di Fuller, occorre abbandonare un’analisi di tipo tradizionale, cioè quell’impostazione analitica di tipo metafisico che finisce per ridurre l’opera a semplice oggetto architettonico, per inserire le architetture considerate, all’interno di un’analisi di tipo fenomenico (l’architettura si rivela nel fenomeno) e fenomenologico, cioè un’analisi allargata alla realtà (considerata in tutti i suoi aspetti) entro cui un’architettura si definisce e si fa comprendere in termini concreti ed esistenziali.
Fuller è un attento osservatore della realtà che lo circonda, analizza i fenomeni in atto che interessano l’interno globo terrestre, eventi d’ordine naturale, sociale, antropologico, politico, ma soprattutto scientifico. Fenomeni sulla base dei quali imposta delle vere e proprie profezie che si sintetizzano però nella creazione di uno spazio concreto e di fronte ai quali si comporta di volta in volta come un ingegnere, un architetto, un matematico, fisico, un filosofo, un sociologo, un biologo, un poeta, un inventore. Per alcuni scettici, egli non approfondisce mai ciascuno di questi settori disciplinari, al contrario riesce a dare un contributo diretto a ognuno di loro, e sempre in modo strumentale all’architettura.

Ma ricerca a servizio dell’umanità
L’approccio analitico di Fuller sottintende un aspetto che rimarrà il filo conduttore della sua ricerca, cioè la volontà di porsi a servizio dell’umanità. Il suo l’interesse è rivolto all’individuo, al mondo che lo circonda e il fatto di concepire l’esistenza non come dato fine a se stesso, ma come fattore che lavora sul principio delle relazioni (con il mondo, con le cose e con gli altri uomini). In quest’ottica anche lo spazio deve tener conto di questi fondamentali presupposti, garantendo ciò che Fuller definisce il miglioramento della qualità della vita.
Per la realizzazione di questi intenti Buckminster Fuller pone a servizio tutta la propria ricerca scientifica, inventando nuove tecnologie e utilizzando nuovi materiali, anche se afferma. Fuller inventa perché rifiuta le offerte del mercato dell’industria che, lui stesso, reputa obsoleta e incapace di porsi in linea con la modernità, focalizzando l’interesse piuttosto sulla conoscenza e il conseguente sfruttamento delle risorse naturali, che vede come unica alternativa al sistema industriale. Per meglio dire i suoi lavori rappresentano il frutto di un’integrazione tra tecnica e natura. Ad esempio le lenti collocate all’interno del pilastro centrale che utilizzano la luce ed il calore del sole nella Dymaxion, il sistema di raccoglimento dell’acqua piovana, attraverso lo stesso pilastro (riscaldato), i dispositivi per la ventilazione degli ambienti nella Wichita, ecc…. rappresentano un modo ecologico di rispondere a nuovi fabbisogni abitativi. Non esiste il computer, ma esistono sistemi alternativi utilizzati in aeronautica e in marina: corpi militari che diventano per Buckminster Fuller un mondo da cui attingere, raccogliendo preziose informazioni per ciò che concerne materiali e tecnologie, ma anche nuove forme. Strumentalizza tutto ciò per un intento che sta alla base di tutte le sue architetture, cioè il raggiungimento del concetto d’autosufficienza. Per questo motivo lavora con quella razionalità ed efficacia che derivano da una approfondita conoscenza della natura dal punto di vista scientifico.

L’architettura come sistema
La concezione sistemica rappresenta un modo alternativo di concepire l’architettura. Per comprenderla è necessario abbandonare un atteggiamento che vede l’opera architettonica come composizione di parti o di elementi, per abbracciare una principio che intende l’architettura come unità indissolubile, come insieme, la cui forma e il cui significato va ricercato all’interno del sistema stesso. Spiegheremo con maggior approfondimento questo concetto nei prossimi capitoli, per ora è sufficiente sottolineare che il processo sistemico ideato da Buckminster Fuller supera l’applicazione strettamente legata alla progettazione architettonica di tipo industriale, visto che, in quest’ultimo caso, il procedimento compositivo avviene per assemblaggio di componenti architettoniche, concepite autonome figurativamente, tecnologicamente e strutturalmente. Alla luce dei fatti il geode, ancora una volta, non è semplicemente una forma pura, ma un sistema indissolubile, perfetto, complesso, che rientra all’interno di un sistema più ampio, dal quale non è possibile prescindere delle parti. La visione cosmica adottata da Fuller rappresenta l’unico momento di astrazione dalla realtà, l’unico strumento che lo avvicina alle teorie dei visionari: non a caso realizza una città sospesa su sfere galleggianti, strutture di un’utopia vista come processo fisico, matematico. Una utopia che viene ripresa dal Superstudio nel Monumento Continuo,nelle Dodici città ideali o nell’Architettura interplanetaria, in cui l’architetto d’avanguardia si trasforma da progettista di oggetti a creatore di immagini, lavorando sul piano dell’autosignificatività dell’immagine stessa e non più sulla sua significanza strumentale e tecnologica. Da queste affermazioni traspare un aspetto che forse accomuna Fuller al Superstudio e cioè la volontà di rispondere all’architettura tecnologica del mercato con un atteggiamento dissacrante e provocatorio. Fuller perplesso sul ruolo dell’industria risponde alla logica industriale con marcato interesse verso la ricerca scientifica. In tal senso la sua ricerca può considerarsi indipendente dall’industria, concepita esclusivamente come mezzo per utilizzare i risultati della sua ricerca. Lotta per rendere operativa la possibilità di liberazione dai vincoli tecnologici precostituiti, per sperimentare nuove concezioni che nascono da nuove intuizioni sul piano scientifico. Ma a differenza del Superstudio, Buckminster Fuller non trascura mai l’aspetto empirico, del quale si serve per comunicare e diffondere la propria ricerca con chiarezza ed estrema semplicità.
L’entusiasmo per la propria ricerca che riesce a trasmettere agli interlocutori è la chiave per comprendere il suo enorme successo tra i giovani, entusiasmo che lo accompagnerà per tutta la vita.
L’atteggiamento goliardico giovanile si dimostra un valido supporto alla filosofia di Fuller. Sono per lo più studenti di molte facoltà quelli che sperimentano, sulla base delle sue ricerche, nuove ipotesi progettuali, attraverso l’utilizzo di tecnologie avanzate, ma non solo. Vengono riproposte le cupole geodetiche realizzate anche con materiali poveri, riciclati. Ciò testimonia un rifiuto delle istituzioni vincolate dalla logica industriale tradizionale, del tutto insufficiente alle nuove proposte. Del resto lo stesso Buckminster Fuller, anni prima, quando si accorge dello stato d’arretratezza e d’ottusità in cui versa il mercato industriale, abbandona la sua ricerca Dymaxion, per collaborare direttamene con gli emarginati alla realizzazione di ripari nelle grandi città, utilizzando materiali poveri riciclati e rientrando nell’ottica della filosofia del consumo, confrontandosi direttamente con gli oggetti, non rappresentati ma presentati, che hanno animato la cultura Pop e successivamente il pensiero radicale. Fuller stesso realizza cupole di cartone come il Paperboard domes, e i Drop out realizzati con materiali di rifiuto, precisamente scarti d’autovetture.

L’insegnamento di Buckminster Fuller
Più il generale la sua dottrina si trasforma in una vera e propria filosofia di vita, adottata soprattutto dalle nuove avanguardie. La cupola geodetica viene utilizzata da coloro che ritengono di doversi allontanare dalle comunità istituzionalizzate, entrando, così, nei manuali di tecnologia radicale e trasformandosi in una struttura simbolo del rifiuto, della gestione tecnocratica, dell’apparato produttivo. Lo dimostra la serie di Domebook, realizzati negli anni settanta che sono semplici manuali di istruzione per cupole di ogni genere.
In sostanza la cupola riporta inconsciamente allo stadio pretrilitico, avvertito come stadio non inquinato della produzione razionale, che ha dato origine all’industria: il sistema del trilite per un radicale deve essere rifiutato in quanto rappresentazione dell’apparato istituzionalizzato. La cupola rappresenta dunque libertà ed economia di realizzazione. Tutto ciò allontana in modo anche drammatico Buckminster Fuller dal campo accademico-compositivo. Questo distacco si risolve in una dura emarginazione, tanto che la sua opera non viene considerata come afferente all’ambito dell’architettura.
Ma Buckminster Fuller sa che la fine dell’architettura storica come possibile categoria culturale della società, la scienza come ricerca di nuove forme e strutture, l’utopia come strumento di studio sulla crisi definitiva del concetto degli equilibri urbani, la biotecnologia, le tecnologie povere come testimonianza della crisi dei meccanismi tradizionali di produzione della cultura, e ancora la creazione di un nuovo linguaggio utilizzabile e comprensibile per chiunque, sono argomenti scottanti e allo stesso modo di grande interesse sul piano culturale e architettonico. Lo dimostrano gli esiti progettuali delle avanguardie degli anni settanta, che molto hanno ripreso dalla sua ricerca, focalizzando l’interesse su gran parte degli argomenti considerati da Fuller, anche quelli che riguardano la tecnonologia avanzata. Tutti i progetti legati alla cultura radicale, indipendentemente dalle loro diverse qualificazioni sul piano delle analisi, sugli usi sulla distribuzione delle funzioni o sulla loro integrazione presentano un’immagine analoga o quantomeno unificata ed è l’immagine fornita dalle tecnologie avanzate. L’analisi delle tipologie strutturali proposte è sintomatica: strutture reticolari, gusci sottili, membrature.
Gli stessi temi tornano ad essere di grande attualità ed interesse nella realtà architettonica di questi ultimi anni.

[Anna Rita Emili]