Massimo Ilardi. Il generico Koolhaas

parcoleonardo

Roma, Parco Leonardo, fotografia di Alessandro Lanzetta

Per un ripensamento radicale dello spazio urbano: è questo il sottotitolo del libro di Rem Koolhaas, Junkspace (Quodlibet 2006), curato da Gabriele Mastrigli. Un sottotitolo forte ma fuorviante perché nasconde la natura profondamente antipolitica e per nulla radicale, anzi garante dello status quo, degli scritti dell’architetto olandese e che ne fa una specie di cospiratore in favore dell’ordine costituito. Ma intanto una premessa: sono d’accordo con l’indicazione del curatore che invita a leggere il volume come l’incarnazione di “un progetto didascalico ma deliberatamente senza futuro, per il quale non a caso abbandona il ruolo rassicurante dell’archistar, assumendo l’atteggiamento lucido, aggressivo scettico, a tratti pessimista, dello scrittore.” In questo caso, dunque, Koolhaas va valutato come scrittore (anche se gli va consigliato di scrivere in maniera più chiara) piuttosto che come architetto. La separazione si può fare, anzi si deve fare proprio perchè il giudizio negativo su Koolhaas sociologo e urbanista non ha nulla a che vedere con l’opera di Koolhaas architetto.

La riflessione dell’autore è inchiodata agli anni Novanta del Novecento e da lì non si muove. Per questo Junkspace non è un libro sul presente: proprio perché si ferma a quella coincidenza tra spazio socialmente percepito come significativo e superficie dell’intero mondo e che era al centro del primo passaggio della rivoluzione spaziale (globalizzazione) scatenata dal mercato, ma che oggi non è più sufficiente a spiegare la complessità dei rapporti che si sono man mano stabiliti tra spazio e soggettività sociali.

Le manca completamente la nozione di territorio come determinazione politica, e cioè la percezione che il luogo e il territorio, vissuti oggi come controtendenze ai processi in atto, abbiano assunto forme completamente diverse da quelle che le istituzioni globalizzate volevano loro assegnare. Queste nuove forme, che sul suolo possono tradursi o in una serie di restrizioni a difesa degli spazi privatizzati o, al contrario, in azioni di resistenza al potere esercitato dalle regole del mercato, rappresentano l’ultimo passaggio della rivoluzione spaziale. E’ il conflitto tra la domanda di libertà e il desiderio di consumo, da una parte, e le specifiche forme di potere e di controllo, dall’altra, a dividere la società in bande, movimenti, minoranze, sette, individui e a trasformare lo spazio liscio in territorio striato. Siamo agli antipodi della Città Generica teorizzata dall’autore e che è la vera utopia del sistema di mercato: una città “di sensazioni deboli e rilassate”, sempre uguale a se stessa in qualsiasi parte del mondo appaia, liberata “dalla camicia di forza dell’identità”, “sedata”, dominata da “una terribile quiete”, “profondamente multirazziale” e dove “la strada è morta”.

Se vogliamo rimanere nell’ambito della letteratura, sarebbe sufficiente leggere qualunque libro di J.G. Ballard, che di sociologia se ne intende, per capire come proprio l’agire consumistico proietti immediatamente sul territorio e sulla strada utopie e desideri che li strutturano in connessione ai diversi rapporti di forza che di volta in volta vi si esercitano. L’utopia del mercato di estendere il suo potere alla totalità generica della vita sociale si è infranta davanti a un qualsiasi cancello di una qualsiasi enclave residenziale o commerciale e di fronte agli atti di insubordinazione sociale che quotidianamente sfociano, oltre che nella visibilità del conflitto, nella devianza e nella follia.

Le linee di fondo della nuova divisione dello spazio scaturiscono dunque da questa opposizione tra mercato e sua società: tra le regole del mercato che tutto vorrebbero uguagliare e ordinare ma che invece sono costrette, per ragioni di sicurezza, a disegnare territori e l’agire consumistico che individualizza e territorializza nel massimo di una libertà che non vuole impedimenti. Alla fine, l’antitesi, come pensa Koolhaas, non è più tra un pensiero universalistico che non conosce confini e che guarda il mondo come una tabula rasa e un pensiero terrestre portatore del senso del limite. Le opposizioni si dipanano tutte dentro i territori che si trasformano in un riflesso tormentato e caotico di particolarismi in lotta tra loro.

Se questo è il contesto in cui un architetto deve operare, allora “fanculo il contesto” scrive Koolhaas.
La Bigness, l’architettura estrema, fuori scala, che crea mostri smisurati, serve proprio a questo: rompere radicalmente “con la scala metrica, con la composizione architettonica, con la tradizione, con la trasparenza, con l’etica”. La Bigness non fa più parte di alcun tessuto, non ha più bisogno della città. Significa “resa alle tecnologie, agli ingegneri, agli appaltatori, ai realizzatori, ai politici, ad altri ancora. Promette all’architettura una sorta di status post-eroico, un riallineamento alla neutralità.” Il nuovo paese delle meraviglie, il mondo immaginario dalle possibilità illimitate inventato dai media (il mondo dell’et…et invece che dell’aut…aut) chiudono, dunque, l’architettura dentro una astrazione storica perché tutte le forme si possono reinventare in qualsiasi luogo.

Il bello è che Rem Koolhaas spaccia tutto questo per realismo. Ma se realismo, come sostiene lo stesso Koolhaas, è accettare qualunque cosa purchè cresca al posto dell’idealismo, allora lo stesso realismo si traduce solo in subordinazione allo status quo, svilendosi in una esaltazione dell’esistente e delle sue regole. Ed è esattamente quello che avviene quando si teorizza una Architettura Generica per una Città Generica abitata da Gente Generica. E così il mercato, che vuole ridurre la metropoli a scintillanti e colorate superfici, l’architettura alla costruzione di un mondo di immagini che facciano spettacolo e pubblicità e l’architetto a uomo mediatico che deve imbonire la gente, ha trovato il suo profeta. Ora, niente di scandoloso se tutto questo venisse tradotto solo nel fare architettonico perché si è consapevoli che è difficile per gli architetti progettare qualcosa di diverso da quello che un sistema, in questo caso di mercato, richiede.

Ma teorizzarla addirittura questa subordinazione al sistema, assumendo i fatti e i fenomeni economici passivamente, come dati sovrani, legittimati da se stessi, fonte di legale obbligazione per riallineare il progetto di architettura al processo di normalizzazione e all’ “epoca della facilità e della volgarità” quale quella che viviamo, questo sì dovrebbe suscitare scandalo. Questo sì produce Junkspace (spazio spazzatura) e non, come sostiene l’autore, l’obsolescenza dei modelli architettonici del Novecento. Junkspace non “è ciò che resta dopo che la modernizzazione ha fatto il suo corso” ma ciò che resta dopo aver rincorso affannosamente la moda e i suoi codici espressivi senza alcun tentativo di resistenza culturale. Ha scritto un mio vecchio ma ancora giovane maestro: “E’ grande, o è vocato alla grandezza, solo quel movimento storico, o quel soggetto politico, capace di tradurre i contenuti di ciò che è stato nelle forme di ciò che sta per venire, sempre, sempre, sempre, contro il presente.”

Un’ultima considerazione. Se alla fine ciò che Koolhaas esprime è la nuova ideologia dominante, e cioè la fine della storia, la sussunzione dei luoghi nello spazio dei flussi, la fuga dalle società storicamente radicate, allora dobbiamo collocarlo nel posto che gli spetta. E così tutto diventerà meno opaco a cominciare dai suoi scritti. E il posto che gli spetta è appunto nello spazio del flussi che, come afferma Manuel Castells, riguarda l’organizzazione spaziale delle èlite dominanti. E’ la logica spaziale dominante perché è la logica spaziale degli interessi dominanti. Una tendenza principale “della distintività culturale delle èlite nella società informazionale è la creazione di uno stile di vita e la progettazione di forme spaziali [il monumentale, il Bigness appunto] volte a unificare in tutto il mondo l’ambiente simbolico delle èlite […]”

[Massimo Ilardi]