Emanuele Piccardo. Intervista a Fabrizio Gallanti

Emanuele Piccardo: Fabrizio Gallanti, architetto, docente, co-fondatore del gruppo A12. Ti sei formato con Stefano Boeri, hai collaborato con lui durante la direzione di Abitare, hai lavorato con Mirko Zardini come senior curator al CCA. E’ notizia di queste settimane la tua nomina a direttore di arc en rêve, il centro di architettura di Bordeaux, quale sarà il tuo progetto culturale?

Fabrizio Gallanti: Con Stefano Boeri, insieme a una parte consistente del gruppo A12, mi sono laureato a Genova nel 1995, e ho collaborato poi con lui in diverse occasioni, come curatore alla Triennale di Milano, tra il 1998 e il 2000, e dopo alcuni anni trascorsi in Cile (2002-2006), nella redazione di Abitare tra il 2007 e il 2011, prima di raggiungere il Canadian Centre for Architecture a Montréal come direttore associato dei programmi, ruolo che ho mantenuto sino al 2014.
Al CCA, ho imparato molto dai miei colleghi, soprattutto Martien de Vletter, che dirige la collezione e gli archivi, Albert Ferré, incaricato delle pubblicazioni e da Maristella Casciato, adesso al Getty Institute a Los Angeles, ma che rivestiva il ruolo di direttrice associata della ricerca. Inoltre al CCA, ho avuto la fortuna di incrociare numerosi curatori esterni ai quali sono affidate le mostre: ho avuto il privilegio di aiutare il lavoro di Jean Louis Cohen, Guido Beltramini, Tony Vidler, Tom Avermaete, Saskia van Stein, Davide Deriu, Dan Handel, David Gissen e Greg Lynn. Una caratteristica dell’attitudine del CCA, è che tutte le decisioni sono considerate come curatoriali, ossia, per esempio, la grafica e l’allestimento, non avvengono mai dopo che si sia chiusa la scelta degli oggetti da presentare in mostra, ma sempre in sincronia con le decisioni sui contenuti, dove esiste quindi un’influenza reciproca.

Devo dire che le influenze maggiori sul mio lavoro sono state però quelle di Jean-Baptiste Joly, per molto tempo direttore della Akademie Schloss Solitude a Stoccarda, per quanto riguarda come si conduce una istituzione culturale, bilanciando da un lato l’efficienza amministrativa con la possibilità di essere sempre al servizio della sperimentazione. E l’attitudine di ricerca attraverso discipline diverse, uscendo da canoni europeisti, sempre accompagnata a un interesse politico di tre curatori d’arte francofoni: Catherine David, che diresse la documenta X a Kassel nel 1997, dove per la prima volta arte e architettura erano connesse in maniera affascinante, Jean-Francois Chevrier, grande storico della fotografia, che ha esplorato gli impatti politici delle produzioni estetiche, e Corinne Diserens, della quale mi ha sempre interessato il doppio ruolo di curatrice, molto vicina agli artisti, e di educatrice, avendo diretto accademie di belle arti, prima a Bruxelles e adesso a Cergy, appena fuori Parigi.

Devo aggiungere, che la curiosità, apertura e generosità di Hans Ulrich Obrist, frequentato già a partire dalla fine degli anni ’90, continuano ad essere importanti come modelli di relazioni tra pratiche diverse. Il soprannome che un certo punto gli era stato affibbiato era “Nokia” per via dello slogan “connecting people”: per me, agire da collante e connettore, rimane uno degli obiettivi ai quali aspirare. Rispetto a arc en rêve sono felice di poter dire di non avere nessun progetto culturale che non sia quello che già da 40 anni caratterizza l’istituzione: considerare l’architettura come un bene pubblico da discutere collettivamente. La mia intenzione à quelle di continuare su questa linea. Direi solo che ci sono alcuni temi che mi stanno a cuore: i primi che potrei menzionare sono il mondo del lavoro e il tempo libero. Una delle questioni che mi affascina del mestiere di curatore di architettura, è che nella maggior parte dei casi si tratta di rendere leggibili al pubblico, magari riuscendo a diventare emozionanti, materiali che non sono stati concepiti per essere esibiti. Plastici, disegni, schizzi non sono creati per finire in vetrine e bacheche. Questo significa che ogni mostra agisce con protocolli diversi, dove bisogna introdurre un metalinguaggio che addomestichi e metta in scena i contenuti in maniera allo stesso tempo profonda ma anche piacevole. Per metalinguaggio considero azioni eterogenee, che vanno dai testi di accompagnamento all’allestimento, alla grafica fino alla commissione di nuovi contenuti, fotografie o video per esempio. La vera questione è come rendere vivi, materiali d’archivio, siano questi antichi o molto recenti. Per me un centro di architettura è un luogo ambiguo, a metà strada tra un archivio, una galleria d’arte, un centro sociale e un museo della scienza e della tecnica.

EP: arc en rêve è uno dei centri più sperimentali di produzione culturale di architettura, come imposterai il rapporto con le altre istituzioni europee dell’architettura?

FG: Innanzitutto, non solo europee, credo vada scardinato l’eurocentrismo, o comunque un pensiero dell’Occidente come luogo dove si generano idee poi riprese altrove, quando invece abbiamo capito come la modernità in architettura vada riletta come una storia molteplice, composta di infiniti poli, che hanno dialogato tra loro senza dover per forza di cose passare da Londra, Parigi o New York. Se uno osserva la traiettoria del centro, si tratta già di un approccio cruciale: per esempio, negli ultimi quattro anni, sono passati progettisti dall’India, Bangladesh e dall’America Latina. In generale, dubito dei modelli culturali, che talvolta replicano ideologie neocoloniali, dove si “scopre” la produzione culturale di altri contesti. Nel sistema attuale della comunicazione, la mostra sul Giappone o il Messico, immaginata a Roma o Francoforte, che poteva avere un senso negli anni ’60, non ha più diritto di esistere. Idealmente si tratterebbe di continuare a sviluppare progetti di coproduzione alla pari, dove arc en rêve sia in posizione orizzontale con altre gallerie, centri, musei, ONG, riviste, sempre intorno a temi di interesse trasversale. Sono contrario a ipotesi che vedano le istituzioni in concorrenza tra loro, quando credo invece che si debba lavorare di concerto.

EP: A Bordeaux dovrai sostituire Francine Fort che ha caratterizzato fortemente il centro con una politica culturale internazionale e nazionale, come imposterai il rapporto con il mondo dell’architettura francese?

FG: Innanzitutto, spero di poter condurre una ricognizione, che mi permetta di capire quali siano i nuovi equilibri e le forze emergenti, non solo in Francia, ma direi, dopo aver vissuto in Québec per nove anni, nel mondo francofono, includendo Svizzera e Belgio, se si rimane nel territorio europeo. Ho l’impressione che una nuova generazione di progettisti francesi, sulla quale la crisi del 2008 ha avuto un impatto notevole e che è uscita con molta intelligenza da un ambito talvolta troppo nazionale, stia adesso iniziando a manifestare una produzione molto ricca, di respiro internazionale e spesso contaminata con altre discipline.

L’approccio di Lacaton e Vassal e di Patrick Bouchain, credo sia stato fondamentale per liberare nuove energie e maniere di costituire la professione. Penso a Bruther, Studio Muoto o Dominique Coulon, a curatori come Cedric Libert, ad artisti interessati all’architettura come Kader Attia, alle diverse facoltà di architettura, uscendo fuori dalla Francia verso il Belgio o Losanna, alle piccole case editrici che continuano ad esistere – per fortuna libri e lettura in Francia sono ancora importanti. Un aspetto che sto lentamente scoprendo, prima ancora di aver viaggiato, è che esiste una vera decentralizzazione, dove progettisti a Lille, Bordeaux, Nantes o Toulouse riescono a realizzare opere significative, spesso rivolte al bene comune. Mi pare che ci sia un ruolo, ancora virtuoso se uno pensa ad altri paesi, giocato dalle amministrazioni pubbliche.

EP: L’avvento della pandemia ha cambiato il nostro rapporto con lo spazio pubblico, non solo le piazze ma anche i luoghi della cultura. Durante il lockdown molte istituzioni hanno attivato programmazioni alternative sfruttando i canali social trasmettendo in streaming
conferenze e organizzando visite guidate alle mostre in corso. Come cambia il rapporto tra spazio culturale, opere e pubblico?

FG: Al di là della pandemia, avendo da anni, con FIG Projects (Francisca Insulza ed io), lavorato sula comunicazione digitale, direi che un’istituzione culturale contemporanea debba immaginarsi in maniera bipolare. Ancorata a un luogo fisico, una galleria e uno spazio, dove avere un rapporto diretto con opere e materiali e in grado di trasmettere, quasi come se fosse una radio, a pubblici remoti che non avranno forse mai l’opportunità di visitarla. I due aspetti si completano a vicenda, ma soprattutto un sito Internet e i social media di un centro culturale, devono essere uno spazio attivo quotidiano e autonomo, e non solo una vetrina statica. Il progetto della Bauhaus Imaginista è esemplare in questo senso.

EP: La Biennale di Architettura di Venezia 2020 si terrà a maggio 2021. Ovviamente rinviare non è la soluzione perché il Covid potrebbe ripresentarsi. Non sarebbe stato più opportuno ripensare il format Biennale che da un decennio è diventato un evento autocelebrativo senza un progetto politico rivolto alla società, nonostante le
intenzioni populiste dell’ex presidente Baratta?

FG: Il problema non sono le biennali e triennali di architettura di per sé, anzi credo che siano ancora troppo poche, potrebbero moltiplicarsi per 100 e credo che sarebbe una buona cosa, quanto come renderle significative soprattutto per i pubblici locali. Il formato forse un po’ vetusto, lo conosciamo: inaugurazione cosmopolita e mondana, forse con qualche evento e conferenza parallela, seguita da mostre di pannelli, disegni e plastici, di solito con un’allocazione di spazio e risorse falsamente egualitaria: ogni partecipante con gli stessi XX metri quadri e YY soldi. Già basterebbe, in certi casi, preoccuparsi che i video continuino a funzionare fino all’ultimo giorno.

Al di là degli eventi glamour iniziali dei giorni delle aperture, credo che ci siano grandi potenziali da esplorare proprio nella durata di un’intera biennale, quando i riflettori sono spenti. Per esempio, studi condotti dalla Triennale di Lisbona, dimostrano che il 70% dei visitatori sia locale, con molte scuole coinvolte. Si tratta di creature ancora giovani che devono ancora affrancarsi dal modello dalle quali derivano, quello delle mostre d’arte, ancora adesso valutate per numero di visitatori, affari e pettegolezzi condotti tra un tramezzino e una coppa di champagne, e recensioni sulla stampa specializzata. La questione irrisolta, è che una biennale d’arte si sovrappone a un mercato, cosa che non avviene con una mostra di architettura.

L’artista che va a Kassel o Venezia o al quale è dedicata una mostra monografica alla Tate o al Reina Sofia trascina con sé un sistema di gallerie e collezionisti, ben felici di finanziare le opere, installazioni, costi di trasporto e di assicurazione, perché la visibilità nella grande maggioranza dei casi si traduce in un aumento del valore commerciale. Per l’architetto invitato invece, trovare i fondi per un allestimento diventa spesso un dolore di capo. Sogno di una biennale di architettura che presenti il lavoro di dieci autori, con profondità e risorse adeguate, e non di 120. Sogno anche di curatori che facciano il loro lavoro e non si affidino esclusivamente alla pigrizia delle “open call” per identificare i contenuti. E sogno di una biennale che abbia effetti lunghi sul dibattito locale, in grado di orientare processi e trasformazioni in corso, insomma che lasci delle tracce. Le azioni delle ultime biennali di Chicago e Sao Paulo andavano nella direzione di servire soprattutto le comunità locali, attraverso la selezione delle opere e la realizzazione di interventi e attività puntuali, spesso al di fuori della sede della mostra principale. Provo ancora un’immensa ammirazione per Piero Bottoni, capace di deviare fondi di una Triennale per creare un quartiere residenziale a Milano, il QT8.

Rispetto a Venezia, vedo due questioni. La prima è che non ci sono proprio i veneziani, appunto, i Giardini e l’Arsenale sono un piccolo parco di divertimento immaginato per il turista colto di passaggio, sia che si tratti della mostra d’arte o di quella di architettura. Non sarebbe male che un pezzo di Biennale fosse a Mestre. La seconda, propria della gestione un po’ dogale di Paolo Baratta, è che dopo la mostra di Aaron Betsky nel 2008, per fortuna salvata dall’ottima sezione curata da Emiliano Gandolfi, tutte le direzioni artistiche successive sono state affidate ad architetti professionisti, augurandosi che ricevessero il Pritzker quanto prima possibile. Sejima, Chipperfield, Koolhaas, Aravena e Grafton si sono quindi improvvisati curatori in pochissimo tempo, con risultati altalenanti. Curiosamente nessuna biennale d’arte è mai stata affidata ad un artista. Uno dei problemi di una certa sovrapposizione di ruoli tra curatori, critici e progettisti, è che le biennali di architettura non sono per nulla pure, ossia dettate da scelte che hanno come centro lo sviluppo di un discorso, ma spesso contaminate da relazioni di potere. Si invitano spesso gli amici o i conoscenti, i colleghi delle scuole dove si insegna o chi si presume possa essere di vantaggio più tardi. Si invita più gente del necessario per non inimicarsi nessuno. Si tratta di camere di compensazione di logiche che sono esterne alle mostre di per sé e al rapporto con un pubblico.

Nel 2000, Massimiliano Fuksas spese una porzione enorme delle risorse per creare un lungo muro video, che attraversava quasi tutto l’Arsenale, lasciando briciole ai partecipanti, che poi dovettero autofinanziarsi: è normale che fosse così, per lui, la Biennale era innanzitutto una vetrina professionale. Al gruppo A12 venne detto a due settimane dall’inaugurazione che non c’erano soldi per i computer con i quali presentare il sito Internet, “parole”. Portammo i nostri desktop, in automobile da Genova. A due mesi dalla chiusura, ci arrivò una fattura per la connessione telefonica del modem con una richiesta che la rimborsassimo ma siccome non esisteva nessun contratto formale con nulla e nessuno, non la si pagò e venne cestinata, non senza una certa goduria.
Se uno pensa ai numeri spropositati di certi padiglioni nazionali a Venezia, si capisce che i curatori, che spesso curatori non sono ma professionisti architetti, oppure critici freelance affamati di consulenze, abbiano preferito non scontentare nessuno, prevedendo rischi futuri per le proprie carriere. Se uno pensa, invece alla chiarezza e concisione di certi padiglioni nazionali, come quelli del Belgio o quello del Bahrain, si vede bene come ci siano alternative molto più interessanti a queste modalità falsamente inclusive.

 

17.9.20