Kevin McManus. Tra “belle arti” e design. Esperienze italiane nell’università americana

Nel suo recente testo “Italiani ad Harvard” (Franco Angeli, 2015) Kevin McManus, analizza le forme del modernismo americano quando, nella prima metà degli anni Cinquanta, entra in contatto con i due artisti italiani Costantino Nivola e in seguito Mirko Basaldella. La lezione tedesca del Bauhaus si incrocia così con il “lerning by doing” tipico della Graduate School of Design di Harvard riflettendosi anche sulla formulazione teorica e la ricognizione artistica del modernismo newyorkese. La natura di questo rapporto dialogico sarà tra le cause della crisi del modernismo in America e, come afferma McManus, “alla fine della distanza tra università e arte, e all’ingresso in quella situazione, ancora attuale oggi ma particolarmente florida ai tempi delle neoavanguardie, in cui artisti e critici studiano insieme all’università formulando dall’interno il sistema didattico le basi teoriche e le realizzazioni pratiche dell’arte di ricerca.”
In questo contributo l’autore ricostruisce puntualmente l’alternarsi di queste vicende lasciando emergere punti di contatto tra artisti, architetti, designer italiani e americani.

[Caterina Iaquinta]

1956-nivola-harvard-Quincy-house1Costantino Nivola a Harvard nel 1956, courtesy Fondazione Nivola

L’anno accademico 1963-64 si segnala per una concomitanza di eventi curiosa e significativa. A Cambridge, Massachusetts, tra i campus della Harvard University, Mirko Basaldella occupa con il proprio atelier un ampio spazio al quinto piano del Carpenter Center, progettato da Le Corbusier, approvato da una commissione di cui Mirko stesso faceva parte, e fresco di inaugurazione (1). Nelle aule al piano inferiore si svolgono le attività del Design Workshop, che Mirko dirige coadiuvato da una vasta schiera di collaboratori (2).

A Philadelphia, Piero Dorazio e Angelo Savelli si dividono i corsi legati alla pittura nella rinnovata School of Fine Arts della University of Pennsylvania, dopo aver svolto un ruolo da protagonisti nella riforma dei piani di studio e dei programmi di insegnamento della scuola (3).

A Manhattan, Costantino Nivola assume l’incarico di Associate Professor of Sculpture presso la Columbia University. L’esperienza durerà un solo anno, a causa dell’incompatibilità fra il lavoro di artista e quello di docente di ruolo a tempo pieno (4), ma Nivola era già stato protagonista della nostra storia, dal momento che era stato proprio lui, nel 1956 a fondare il Design Workshop per la Graduate School of Design di Harvard, dove insegnava già da tre anni.

Nello stesso momento, quindi, quattro artisti italiani di primo piano sono impegnati come docenti in università appartenenti alla Ivy League, ossia alla schiera più esclusiva dei grandi atenei della costa atlantica.

È forse la vicenda di Nivola a costituire il primo e principale argomento di riflessione, non solo perché precede le altre cronologicamente, ma anche per l’importanza dei termini in gioco. Lo scultore sardo, già ricco di esperienze creative negli Stati Uniti (risiedeva a New York da una quindicina d’anni) e ben inserito negli ambienti legati al gotha della scultura mondiale, il CIAM e i suoi principali componenti, arriva a Harvard nel 1954, chiamato dal Dean della Graduate School of Design, Josep Lluis Sert, nell’ambito di una graduale ma decisa riforma della scuola, volta al recupero della formazione culturale degli studenti (5). Sert ritiene che alcuni insegnamenti, quelli legati ai “fondamenti” delle discipline progettuali, debbano essere affidati a personalità – gli artisti – slegate dal debito verso una specifica finalità d’uso (l’architettura, il design industriale, etc.), e che vadano adeguatamente corroborati da una solida preparazione culturale, dallo studio della storia dell’architettura e della storia dell’arte. Questa svolta “umanistica” non deve però ingannare sul carattere generale della formazione presso la GSD: se è vero che con Sert l’arte e la storia rientrano in campo dal punto di vista del bagaglio di conoscenze richiesto agli studenti, è altrettanto vero che lo sbocco professionale rimane legato esclusivamente all’ambito del progetto, senza contemplare la formazione universitaria di artisti nel senso tradizionale del termine. Una linea che sarà contestata a più riprese da studenti e docenti di Harvard, inclusi alcuni collaboratori di Mirko, come Robert S. Neuman (6), e che colloca Harvard su uno dei due estremi nel dualismo che riguarda la formazione dell’artista visuale nelle università americane, in quegli anni ma anche, per molti versi, ai giorni nostri.

Come ben documentato in un saggio di Michael J. Lewis (7), questo settore dell’educazione superiore statunitense si era evoluto infatti, fin dall’inizio del secolo, all’insegna della «battaglia» fra la tradizione francese delle beaux-arts e quella tedesca della cultura politecnica. Uno scontro impari, dal momento che la politica culturale dominante negli anni successivi al New Deal aveva favorito una concezione più professionale, “normale”, dell’artista rispetto allo stereotipo del genio bohémien legato, nella visione comune, al modello francese delle belle arti (8), ma soprattutto per il conseguente successo in America, fin dalla metà degli anni trenta, del grande modello didattico del Bauhaus, portato oltreoceano, in modi diversi, da László Moholy-Nagy, da Josef Albers e in particolare da Walter Gropius, che nel 1937 aveva preso il controllo della Graduate School of Architecture di Harvard, favorendo in prima persona la sostituzione, nella denominazione della scuola, del termine “Architecture” con quello di “Design”.

Harvard costituisce dunque, nel 1954, l’esempio più prestigioso della linea politecnica, e anche Nivola deve fare i conti con un’impostazione dell’insegnamento che ricalca quella del Bauhaus. Il suo primo corso, chiamato “Design Fundamentals”, è un adattamento del Vorkurs, un’introduzione generale al design, da intendersi non nell’accezione riduttiva legata alla progettazione di oggetti d’uso, ma come traduzione del tedesco Gestaltung, parola tanto cara a Gropius (9); design è dunque la progettualità del visivo, la consapevolezza formale, o meglio la capacità di costituire una forma, tipica tanto della percezione (il cervello che organizza il visibile in forme consapevoli) quanto della produzione visuale. Il corso di Nivola, affidato appunto a un artista non coinvolto in un’attività progettuale legata alla produzione di oggetti, ha dunque lo scopo di insegnare agli studenti la grammatica formale sottesa al visuale, lungo una tradizione che aveva sì avuto nel Bauhaus la sua veste più radicale e meglio organizzata, ma che affondava le radici anche nelle meno conosciute teorie del “Pure Design”, portate avanti in America, e proprio a Harvard, già a inizio secolo da autori quali Denman Waldo Ross e Arthur Wesley Dow (10) . Un debito, quest’ultimo, ampiamente dimostrato da alcuni appunti ritrovati fra le carte di Nivola conservate allo Smithsonian (11).

La stessa impostazione assume carattere seminariale-laboratoriale nel già citato Design Workshop, diretto da Nivola nel 1956-57 per poi passare sotto la direzione di Mirko, chiamato appositamente a Cambridge. In questo laboratorio organizzato da artisti, la pratica artistica è paradossalmente lasciata sullo sfondo, trattata perlopiù come un’attività preliminare utile all’acquisizione di dimestichezza nella “grammatica” del design; le attività conclusive – su cui erano costruiti gli esami dei corsi di laboratorio – sono quasi sempre riferibili alla progettazione architettonica e urbanistica (12) o a particolari operazioni di design industriale – come il progetto di mattonelle colorate in vetro per la ditta Pittsburgh Corning (13), mentre manca un gruppo di allievi che abbia poi fatto carriera nel mondo dell’arte, fatta eccezione per alcuni casi isolati.

Il modello opposto, quello legato alle beaux-arts, ottiene come detto un successo più limitato. Non mancano tuttavia esempi di atenei illustri che adottano questa scelta con consapevolezza militante: è il caso ad esempio della Graduate School of Fine Arts della University of Pennsylvania, per la quale tanto il Dean Holmes Perkins, quanto gli influenti architetti Louis I. Kahn e Romaldo Giurgola, a inizio anni sessanta, optano per una resistenza alla moda del design, mantenendo l’antica denominazione e aprendo corsi specifici legati al disegno, alla pittura e alla scultura. Protagonisti dell’organizzazione della scuola, come detto, Dorazio e Savelli, capaci di arricchire il programma dei loro insegnamenti invitando grandi artisti della scena newyorkese come Robert Motherwell, Barnett Newman e David Smith (14).

Proprio questi nomi possono dare un’idea dell’importanza del dibattito, che riguarda sì innanzitutto la cultura del progetto, ma che ha forti ricadute anche sulla scena artistica. Rispetto al modello politecnico di Harvard, quello della Penn sembra più inserito nelle vicende dell’arte contemporanea americana, anche grazie alla fondazione, nel 1963, dell’ICA (Institute for Contemporary Art), al quale Dorazio e Savelli offrono un notevole apporto, e che contribuisce a leggere “in tempo reale” il complesso passaggio di decennio, dalla tarda pittura modernista alla Pop Art. Tra i numerosi ospiti dell’ICA, si segnala il nome di Clement Greenberg  (15), il cui pensiero raccoglie probabilmente i più importanti elementi di distinzione tra i due approcci, nel rispettivo rapportarsi alla storia dell’arte di quel tempo.

Negli scritti di Greenberg i riferimenti al Bauhaus sono rari e poco lusinghieri; il termine “design” è usato perlopiù con accezione riduttiva, quasi come sinonimo di “decorativo”, concetto che per il critico newyorkese rappresenta il principale rischio di degenerazione dell’arte astratta (16) . Decorativo è ciò che concilia opera e spazio espositivo, che porta cioè il quadro a proiettarsi al di fuori della cornice per riferirsi a questo spazio. “Arte” è invece ciò che crea tensione con lo spazio circostante: il quadro basa il proprio funzionamento poetico su ciò che sta dentro la cornice, trova dentro di sé tutti i possibili criteri di valore; e di conseguenza il critico legge il quadro come immagine spazialmente delimitata, a prescindere dal suo rapporto con l’esterno. Non c’è sintesi fra le arti nel modernismo definito da Greenberg; l’immagine non deve “funzionare”, non deve dare una risposta conciliante, non deve insomma costituire una soluzione, come sembra invece implicito nel concetto di “problem solving” tipico della formazione di tipo politecnico, ispirata come detto al Bauhaus e al Pure Design, ma anche all’insegnamento di John Dewey.

Per Greenberg, insomma, l’arte non si apprende come un qualsiasi mestiere; si tratta invece, al massimo, di coltivare e alimentare una sensibilità innata attraverso il dialogo, secondo il modello delle scuole sperimentali come “Subject of the Artist”, fondata nel 1948 da Baziotes, Hare, Motherwell e Rothko, e durata poco più di un anno (17), o della più fortunata Hans Hofmann School. Non a caso, Greenberg rinuncia senza complimenti a collaborare stabilmente con il Black Mountain College, portatore dell’evidente impronta di Albers (18), mentre abbraccia con entusiasmo il progetto didattico-espositivo proposto da Perkins e Dorazio a Philadelphia, tra School of Fine Arts e ICA.

La prosecuzione del dibattito sul (tardo) modernismo in America nell’università, quindi, si radica fin da subito nelle diverse filosofie che animano tradizionalmente i singoli atenei. Mentre l’enorme diffusione del modello-Bauhaus porta nei college un modernismo europeo, improntato al superamento delle distinzioni mediali e basato sull’idea di progettualità, l’arte che si espone nelle gallerie risente più chiaramente della formulazione di un altro modernismo, quello basato sulla specificità del medium e sulla sua messa a tema nel lavoro degli artisti, creando così un dualismo evidente tra insegnamento accademico e pratica artistica. Pochi atenei colgono già a inizio anni sessanta la necessità di aggiornare la didattica sulla base di ciò che accade fuori dalle aule, tornando paradossalmente a un concetto in apparenza superato come quello delle beaux-arts. Con le esperienze di Nivola e Mirko da una parte, di Dorazio e Savelli dall’altra gli artisti italiani si trovano a contribuire in prima linea a questo complesso discorso.

[Kevin McManus]

22.1.17
Peer review CI

(1) Report of the Committee on the Practice of the Visual Arts, for the year 1957-58, Harvard University Press, Cambridge 1957.

(2) Per una descrizione dettagliata delle attività del laboratorio e una ricostruzione dei programmi didattici di Nivola e Mirko, si veda il mio Italiani a Harvard. Costantino Nivola, Mirko Basaldella e il Design Workshop (1954-1970), Franco Angeli, Milano 2015.

(3) Cfr. A. Strong, G. Holmes Perkins: Architect of the School’s Renaissance, in A. Strong, G.E. Thomas, The Book of The School, Graduate School of Fine Arts, University of Pennsylvania, Philadelphia 1990, pp. 141-142.

(4) C. Nivola, Lettera ad André Racz, 1 November 1964, Archives of American art, Smithsonian Institution, Washington, D.C., Costantino Nivola Papers, Box 1, Folder 2.

(5) Cfr. A. Alofsin, The Struggle for Modernism: Architecture, Landscape Architecture and City Planning at Harvard, Norton, New York 2002, pp. 248-253.

(6) R.S. Neuman, Oral History Interview, Archives of American Art, Smithsonian Institution, Washington, DC, tape 2.

(7) M.J. Lewis, The Battle between Polytechnic and Beaux-Arts in the American University, in J. Ockman (ed.), Architecture School. Three Centuries of Educating Architects in North America, MIT Press, Cambridge-London 2012, pp. 69-89.

(8) Cfr. H. Singerman, Art Subjects. Making Artists in the American University, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1999, p. 27 ss.

(9) Cfr. W. Gropius, Teaching the Arts of Design, «College Art Journal», VII, 3, Spring 1948, pp. 160-164.

(10) Cfr. M. Frank, The Theory of Pure Design and American Architectural Education in the Early Twentieth Century, «Journal of the Society of Architectural Historians», LXVII, 2, June 2008, pp. 248-273.

(11) Costantino Nivola Papers, circa 1938-2003, box 1, folder 5.

(12) Un esercizio conservato negli archive ipotizza ad esempio la progettazione di un padiglione per l’Expo di Bruxelles del 1958 (Design problem: Pavillon at the Brussels World Fair, GSD Archives, Harvard University, Frances Loeb Library, Student Work, 1955-1970. Courtesy of the Harvard University Archives).

(13) A Preview of Tomorrow’s ‘House for Cheerful Living, Pittsburgh Corning Company, Pittsburgh 1945.

(14) Cfr. Strong, G. Holmes Perkins, p. 141.

(15) Cfr. University of Pennsylvania Archives, Philadelphia, G. Holmes Perkins Papers, Box 8.4 – 0115, Folder “Seminar 1963-64”.

(16) Cfr. C. Greenberg (1941), Recensione di mostre di Joan Miró, Fernand Léger e Wassily Kandinsky, in L’avventura del modernismo, a cura di G. Di Salvatore e L. Fassi, Joahn & Levi, Monza 2011, p. 157.

(17) Cfr. Singerman, Art Subjects, p. 133 ss.

(18) H. P. Blume, Lettera a Clement Greenberg, August 20, 1973, Archives of American Art, Smithsonian Institution, Washington, D.C., Clement Greenberg Papers, Correspondence, Folder 3.