Alessandro Lanzetta. La lezione di Bernard Rudofsky

br1Architecture Without Architects, MoMA, 1964, courtesy MoMA

A partire da Le Corbusier, molta architettura contemporanea ha attinto temi, figure e procedure dal lato basso dell’architettura. Questo è successo perché l’avventura stessa del Movimento Moderno è ascrivibile a una democratizzazione dell’architettura, causata da un allargamento, quantitativo e qualitativo, del numero dei fruitori. Un processo inarrestabile che, lentamente, ha reso necessario il superamento dei codici linguistici delle precedenti classi dominanti. Dal tardo Rinascimento al Moderno, infatti, si è prodotta una graduale perdita di senso dell’architettura tradizionale alta, quella degli Ordini architettonici, con una progressiva confusione disciplinare che, infine, ha portato all’assunzione totale dei linguaggi e delle tecniche informali delle avanguardie artistiche.

Nella nostra disciplina il termine informe non ha ancora trovato una precisa collocazione, nonostante abbia alle spalle una lunga storia che, da Dada e Surrealismo, arriva ai nostri giorni, e sia ormai diventato un potentissimo paradigma, apparentemente vincente sui linguaggi tradizionali dell’architettura. Georges Bataille affermava che informe è un aggettivo che connota una situazione, ma, contemporaneamente, un termine che serve a declassare, poiché nella storia canonica dell’arte la forma è un valore: «Ciò che [l’informe] designa non ha diritti suoi in nessun senso e si fa schiacciare dappertutto come un ragno o un verme di terra. […]»(1). Ne consegue che l’informe, rispetto al formale, non ha codici da far rispettare e, quindi, si situa necessariamente su un pericoloso punto di rottura dei linguaggi correnti ed è debole rispetto a questi.

Lo stesso Bataille, tuttavia, affermava che questa condizione è presente in ogni cosa, come parte di una coppia dialettica: ogni cosa ha un doppio uso, un uso alto (dell’idealismo metafisico) formale e un uso basso, informale. Un esempio classico è quello degli organi umani che hanno quasi tutti un duplice uso, l’uno nobile e l’altro, a volte, disgustoso.

Ma è proprio quello basso che è indispensabile e nelle necessità stringenti ha più peso, mentre quello alto, il più delle volte, risulta accessorio. La parte in basso, infatti, trascina sempre l’altra metà nella sua caduta, caduta che spesso è una liberazione: questo abbassamento è come il sacrificio, che attraverso un’alterazione allucinata della realtà – un omicidio con sangue, escrementi, membra spezzate e smembrate – porta direttamente al suo opposto, cioè al Sacro.

Questo concetto di Bataille è il succo della lezione di Bernard Rudofsky, architetto di cultura viennese nato in Moravia nel 1905, che fu tra i primi a introdurre una critica totale e aperta alla radice stessa dei linguaggi formali classici dell’architettura, sostenendo ed esaltando l’edilizia vernacolare mediterranea come possibile modello. Attraverso le ricerche iniziate negli anni Trenta, le collaborazioni con altri architetti, tra cui Giò Ponti e Luigi Cosenza, gli articoli sulle riviste italiane e internazionali, ma soprattutto con la famosa mostra (e successivo catalogo) Architecture Without Architects del 1964 al MoMa, Rudofsky divulgò un’architettura informale radicalmente diversa da qualsiasi linguaggio in uso, senza appesantirla di riferimenti ideologici e politici, come invece fecero gli architetti italiani ed europei del dopoguerra.

brArchitecture Without Architects, MoMA, 1964, courtesy MoMA

Il pensiero e l’architettura di Rudofsky non nacquero dal nulla. Quando, nel 1922, il futuro architetto s’iscrisse alla Technische Hochshule di Vienna, il Movimento Moderno era già iniziato, conosciuto e riconosciuto. Così, l’«architettura senza architetti» di Rudofsky sembra avere una possibile origine dall’Avanguardia vicina alla figura di Adolf Loos che dava molta importanza al contesto domestico dell’architettura, alla tradizione delle arti applicate dei suoi abitanti, alle decorazioni e agli elementi architettonici. È in questa cultura viennese, crocevia dell’ex impero asburgico, che si sviluppò una visione critica e antidogmatica dell’architettura moderna, volta alla soddisfazione degli interessi materiali dei residenti. Una concezione molto differente da quella del Movimento Moderno nordeuropeo e, per molti versi, affine a quella della quieta Avanguardia latina francese, italiana e spagnola, che invano Le Corbusier cercò di guidare.

Come quest’ultimo, anche il giovane Rudofsky cercò una formazione più complessa, inseguendo nuove suggestioni nei viaggi: nel 1923 andò alla prima esibizione del Bauhaus a Weimar e, quindi, a vedere le opere di Gunnar Asplund e degli altri Classicisti nordici in Svezia; nel 1925, tredici anni dopo Le Corbusier, viaggiò in Bulgaria e in Turchia, passando per Istanbul, Asia Minore e Mar Nero; nel 1926 e nel 1927 visitò ripetutamente l’Italia e nel 1929 tornò sul Mar Nero e a Istanbul; infine, sempre in quegli anni, viaggiò in Grecia, da Atene fino alle Cicladi, dove soggiornò nell’isola di Santorini folgorato dal primitivismo mediterraneo (2) delle sue architetture vernacolari, che divennero il soggetto della sua dissertazione di dottorato discussa nel 1931: Eine Primitive Betonbauwaise auf den südlichen Kykladen (3).

Anche per Rudofsky la Grecia fu la meta decisiva del suo Viaggio in Oriente. Ma, a differenza di Le Corbusier, l’apice dell’esperienza formativa non fu la classicità delle rovine auliche dell’Acropoli, ma la «Pompei preistorica»(4) dell’isola di Thera. Tanto il Maestro svizzero trovò nel Partenone la conferma dell’esistenza di un’eterna legge delle proporzioni, poi espressa nel Modulor, quanto il viennese vide nelle case di Santorini il segreto primordiale dell’origine dell’abitazione. Quegli archetipi abitati gli sembrarono «i documenti vivi delle più antiche case del nostro pianeta» (5), le tracce viventi di un modo di vivere in relazione con la natura.

Dopo la dissertazione dottorale del 1931, Rudofsky fece varie mostre fotografiche a Vienna e a Berlino sull’architettura vernacolare delle coste turche, greche e italiane, che possono essere considerate un’anticipazione della mostra al MoMa del 1964. La sue ricerche, tuttavia, non erano solo indagini teoriche ma anche lineamenti per il suo lavoro di architetto, tanto che nel 1938, commentando il suo progetto della casa a Procida – una non meno interessante e «più vicina Santorini»(6) insieme a Ischia e Capri – scrisse: «non ci vuole un nuovo modo di costruire, ci vuole un nuovo modo di vivere»(7).

Di nuovo assistiamo all’introduzione di temi mediterranei nell’architettura del Movimento Moderno per mezzo di «gente del Nord», un fenomeno notato anche da Giuseppe Pagano (8), che nei suoi scritti dell’epoca criticava «chi vuol far risalire la responsabilità delle case squadrate, a tetti piani, tutte chiarità ed ampie superfici, a concezioni addirittura mediterranee che dalle rive del nostro mare sarebbero emigrate a Nord, donde ci sarebbero ritornate col crisma dell’esotico»(9).

Non è strano che la formazione di Rudofsky passasse per l’Italia del Sud, poiché da secoli, in particolare dalla riscoperta di Ercolano e Pompei, l’educazione dell’artista occidentale comprendeva il Grand Tour d’Italie che, dalla fine dell’Ottocento includeva – oltre alle rovine monumentali greco-romane – anche le architetture anonime dei villaggi e dei borghi, in particolare della Campania.

Per primo Goethe, in una lettera a Alexander von Humboldt sulle bellezze italiane, affermava l’importanza dell’edilizia vernacolare d’ogni giorno, utile anche per capire la grande architettura monumentale classica. Sempre in questo periodo John Ruskin e William Morris indirizzavano l’interesse generale verso l’architettura vernacolare e, nel 1896, Josef Hoffman si interessava proprio a quella campana, che reputava indice di un’immutabile, astratto ed astorico stile di vita, derivato dalla spensieratezza, dall’affabilità e dalla serenità dei suoi costruttori. Anche Gottfried Semper riteneva che l’edilizia vernacolare del Sud Italia, identica da secoli, discendesse direttamente dalla primitiva idea di architettura e, quindi, rispecchiasse i bisogni e i desideri elementari delle popolazioni. Persino Frank Lloyd Wright, nel Wasmuth Portfolio (10) del 1910, sosteneva che l’edilizia popolare tradizionale costituiva la base di qualsiasi studio serio sull’arte e l’architettura e che la corretta riproposizione dei suoi principi basilari e delle sue forme legittimavano le architetture moderne.

Rudofsky, conoscendo i testi di questi architetti, decise ben presto di passare dalla lettura ai viaggi nel Sud Europa. Come il Le Corbusier del Viaggio in Oriente e del Cabanon, non cercò il «mito delle origini» nell’edilizia vernacolare, ma volle vivere e abitare direttamente la terra degli archetipi dell’architettura occidentale. A differenza di molti intellettuali precedenti, non viaggiò nel Mediterraneo per costruirsi una poetica creativa, ma per collezionare immagini, storie, oggetti e costumi di vita ancora utilizzabili.

Cesare De Seta (11) lo definì come uno dei tanti architetti nordeuropei che, affascinati dal Mediterraneo a seguito del Grand Tour, prolungarono il loro soggiorno collaborando con alcuni Maestri italiani. Ma, a differenza di altri, Rudofsky non fu affatto un semplice collaboratore, quanto piuttosto una specie di «strana levatrice» per il tema del recupero delle architetture vernacolari locali.

Affrontò, infatti, la questione mediterranea proprio nel momento in cui gli esponenti del Moderno ne scoprivano le assonanza etiche ed estetiche ai loro programmi. Lo stesso Le Corbusier, nonostante il viaggio del 1912, solo negli anni Trenta indicò pubblicamente l’«ordine mediterraneo» come una delle fonti del Movimento Moderno. È nello stesso periodo che i razionalisti italiani esaltarono l’edilizia popolare del golfo di Napoli e i catalani, con Sert in testa, scoprirono l’architettura quotidiana delle Baleari. Entrambi i gruppi guardarono al vernacolare locale come base per un Movimento Moderno latino, visto come una sorta di Neoclassicismo con basi popolari. Una visione feconda che, tuttavia, fu gravida di molte ambiguità (12), come dimostrano le architetture dell’E42 in Italia.

Come già accennato, Rudofsky andò oltre, ricercando nella vita autentica che osservava – con le sue implicazioni architettoniche, antropologiche e sociologiche – non tanto le basi per una nuova disciplina, ma addirittura per un nuovo modo di vivere (13). E, così, diventò un pioniere di quella concezione contemporanea della disciplina che ritiene che l’essenza delle esperienze esistenziali sull’architettura siano domestiche: «The ruined houses and gardens of Pompei have exatctly nothing in common with the cabalistic system of classical Orders»(14).

Rudofsky, insomma, s’interessò principalmente ai modi in cui gli edifici erano abitati e fu ossessionato dalla qualità della vita materiale. Alla pari di Rudolf Schindler riteneva che: «il senso per percepire l’architettura non è la vista, ma la gioia di vivere»(15) e, come Le Corbusier, che «la casa è una macchina per abitare»(16)

[Alessandro Lanzetta]

16.1.17

Estratto da A. Lanzetta, Opaco Mediterraneo. Modernità informale, Libria, Melfi 2016

(1)Y.A Bois, R. Krauss, L’ informe. Istruzioni per l’uso, Bruno Mondadori, Milano 2003, p. 18.

(2)«Ingegnere era anche Bernard Rudofsky, il giovane e irrequieto viennese che nel 1932 aveva scelto Capri come momentaneo approdo di un ansioso viaggio di formazione che aveva alternato la frequentazione di Vienna e di Berlino con la sempre più irresistibile attrazione per il primitivismo mediterraneo di Ischia e di Santorini». In: F. Irace, Parentesi Mediterranea, in A. Buccaro, G. Mainini (Cur.), Luigi cosenza oggi. 1905/2005, Clean, Napoli 2006, p. 109.

(3) B. Rudofsky, Eine primitive Betonbauweise auf den südlichen Kykladen, nebst dem Versuch einer Datierung derselben, citata in: Bocco Guarnieri 2003, p. 311.

(4) B. Rudofsky, Origine dell’abitazione, in “Domus”, n. 124, aprile 1938, pp. 16-19.

(5) Ibidem.

(6) Irace, op. cit., p. 111.

(7) B. Rudofsky, Non ci vuole un nuovo modo di costruire, ci vuole un nuovo modo di vivere, in “Domus”, n. 123, marzo 1938, pp. 6-15.

(8) Che pubblicò le case di Cosenza e Rudofsky su «Casabella», n ° 117, settembre 1937.

(9) G. Pagano, I benefici dell’architettura. A proposito di una nuova costruzione a Como, in “La Casa Bella”, n. 27, marzo 1930. Anche in: C. De Seta (cur.), Pagano. Architettura e città durante il fascismo, Laterza, Roma-Bari 1990, p. 143.

(10) Sull’opera editoriale che lo fece conoscere in Europa: F.L. Wright, Ausgeführte Bauten und Entwürfe von Frank Lloyd Wright, Ernst Wasmuth A.-G., Berlin 1910.

(11) C. De Seta, Dalla Mitteleuropa al Mediterraneo, in G. Cosenza, F. D. Moccia, Luigi Cosenza. L’opera completa, Electa Napoli, Napoli 1987, p. 50.

(12) Il mito del Mediterraneo nell’Italia del ventennio fu assoluto. Mare, sole, luce, chiarezza di profili e semplicità di volumi, aderenza al sito, materiali e tecniche arcaiche divennero temi ricorrenti per un’Avanguardia che voleva essere accettata dal potere. Il solo Edoardo Persico vide e criticò il retrogusto autarchico e nazionalista del dibattito. Riguardo a questo tema vedi: Silvia Danesi, Aporie dell’architettura italiana in periodo fascista – Mediterraneità e Purismo, in S. Danesi, L. Patetta (cur.), Il razionalismi e l’architettura in Italia durante il Fascismo, ed. «La Biennale di Venezia», Electa, Venezia – Milano 1976.

(13) B. Rudofsky, Non ci vuole un nuovo modo di costruire… cit., pp. 6-15.

(14) B. Rudofsky, How to Travel without Being a Tourist, articolo inedito, scritto all’incirca nel 1978, riportato in: A. Bocco Guarneri, Bernard Rudofsky and the sublimation of the vernaculary, in J. F. Lejeune, M. Sabotino, Modern Architecture and the Mediterranean. Vernacular Dialogus and Contested Identities, Routledge, London and New York 2010, p. 234.

(15)«The sense of perception of architecture is not the eyes, but the joy of living», da un appunto di Schlinder, in: E. McCoy, Five California Architect, Reinhold, New York 1960, p. 149.

(16) Le Corbusier – Saugnier (Le Corbusier e Amédée Ozenfant), Manuel de l’habitation, in L’esprit nouveau, 9, luglio 1921.