Luigi Manzione. Oltre l’urbanistica liberista. Quale città del dopo-crisi?

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Che cosa sarà della città e dell’urbanistica dopo la crisi (economica, globale, di paradigmi)? Difficile rispondere in un contesto segnato dalla perdita progressiva delle certezze. Per cercare di farlo, è utile riprendere alcune riflessioni di Alain Bourdin(1).
Il punto di partenza è capire che cosa sia diventata l’urbanistica liberista, ossia il paradigma disciplinare dominante negli ultimi trent’anni: se assistiamo al suo tramonto o alla sua ricostituzione o reinvenzione. Certo è che i simboli di questa maniera di fare le città e i territori non dimostrano di essere in buona salute: basta pensare, ad esempio, al fallimento di Dubaï World e delle ambizioni infinite della città spettacolare per eccellenza per rendersi conto che un ciclo si è chiuso, o sta per chiudersi.
I landmark europei del ciclo liberista, come Barcellona e Londra, hanno senza dubbio generato idee e proposte interessanti, ma non costituiscono più modelli ragionevolmente credibili. Le “città allucinate del neocapitalismo”, secondo Mike Davis e Daniel Monk,(2) sono catapultate in un universo che potrebbe invalidare, e non certo nella lunga durata, i loro stessi capisaldi, a partire dalla sovranità della concorrenza, dell’economia creativa, del consumo come attitudine primaria e interclassista di esistenza. Quale spazio potranno allora avere nel futuro le grandi operazioni urbane e i tentativi – ammettiamolo, spesso riusciti, come a Bilbao – di rivitalizzare, se non addirittura resuscitare, città e quartieri, secondo una visione che privilegia il progetto e l’evento? Una visione che ha creduto per un trentennio di poter fare a meno di riflettere sul versante del sociale, riducendo tutto a una questione di attrazione e di fluidità di risorse, di benchmarking, di centralità di una classe media più o meno “creativa” (secondo Richard Florida)(3).
Gli effetti (reali) della crisi sulla vita delle persone (reali) dimostrano, con il loro drammatico peso, quanto sia oggi illusorio pensare di fare la città inseguendo un’idea fantasmatica di progetto, legata ad una logica di firma e di pura visibilità mediatica. Gli esempi tardivi di questo paradigma – penso, tra l’altro, al folclore del New Urbanism e, nel dettaglio, al caso del Crescent di Salerno di Ricardo Bofill – appaiono insieme caricaturali e disperati. Ma soprattutto è illusorio pensare di eludere gli interrogativi riguardanti la società, l’economia, i modi di vita, le tecnologie (quotidiane e non solo spettacolari): in una parola, tutto ciò che favorisce in concreto il mutare degli spazi urbani. Di fronte alla dissoluzione del ciclo liberista dell’urbanistica, occorre decostruire, secondo Bourdin, le sue credenze più radicate e i suoi concetti imprecisi, elevati spesso a feticci senza mai essere stati rigorosamente verificati e provati. Occorre “metterne a nudo gli enigmi fondatori”, ossia le questioni a cui non si è data ancora una risposta semplice e univoca. Occorre, insomma, lavorare meno sulle certezze che sulle ignoranze.

Tutto ciò pone in primo piano l’opportunità di riconsiderare la città e il territorio, spostando lo sguardo verso la riflessione critica e la ricostituzione di un discorso, e non solo verso l’invenzione di un progetto. Il che significa collocarsi nella prospettiva della ricerca: porre domande, elaborare problematiche, individuare scenari e percorsi di offerta urbana pertinenti, oltre che legittimi nell’interesse generale (senza negare l’esistenza di azioni, decisioni, soggetti molteplici e conflittuali). In un contesto di incertezza e di complessità come l’attuale, appare necessario abbandonare la tentazione dell’immagine e del progetto facile per incamminarsi nei sentieri, più impervi, dell’analisi (concreta di realtà concrete). E tutto questo a partire proprio dai feticci dell’urbanistica liberista – dallo sprawl alla sostenibilità pervasiva, dalla densità alla mixité, dalla concertazione al marketing territoriale – i quali interagiscono in un quadro d’insieme dominato dalla logica (e dalle ossessioni) della concorrenza, della sicurezza e dell’evento.
Le politiche urbane e le strategie di sviluppo locale potranno ancora far leva su queste credenze, trasformate in pilastri dell’azione e della governance? Una città o un quartiere potranno ancora essere valutati sulla base di esclusivi criteri di performance (economica, culturale, ambientale)? Possibili risposte non verranno certo dall’insistere sulla circolazione delle esperienze declinate tout court in modelli, ma piuttosto dal “dialogo tra saperi sistematici”. Né verranno probabilmente dalla riproposizione acritica di certe nozioni, o figure, come la città creativa o la città innovativa. Intendiamoci: non si tratta di dismettere in blocco gli elementi costitutivi dell’urbanistica liberista, ma di rileggerli criticamente, riconoscendone le pieghe ormai decisamente superate e quelle ancora fertili. Uno dei paradossi sui quali non si è esercitata la dovuta attenzione risiede nel fatto che nel trentennio scorso si è cercato, a mio avviso, di far convivere l’idea che l’urbanistica non potesse (più) avere la pretesa di cambiare il mondo con la convinzione, altrettanto diffusa, dell’influenza dell’urbanistica sull’innovazione, quindi sul successo economico e produttivo di certi territori. Ciò ha spesso indotto a vedere nell’urbanistica il punto di forza delle politiche di sviluppo locale, con il conseguente fraintendimento nella comunicazione (e nell’azione) tra cittadini, amministratori e tecnici. In realtà – lo evidenzia anche Bourdin – la città e l’urbanistica non sono in se stesse vettori di innovazione, ma piuttosto quadri contestuali che possono favorire gli attori dell’innovazione, grazie alla messa in campo di opportune strategie e pratiche.

Ma chi sono gli attori dell’innovazione urbana? Ridurli alla sola “Creative Class” e agli operatori dell’economia cognitiva, mi sembra esattamente il segno della crisi del progetto politico dell’urbanistica del ciclo liberista. Di fronte al 99% dell’Occupy movement, di fronte al peggiorare in Italia delle condizioni di vita di nove persone su dieci (4), di fronte all’incendio della Grecia e di altri possibili incendi futuri – solo per limitarci all’Occidente – ci si può chiedere quanto siano ancora realistici il culto della città spettacolo e la messa in scena della città innovativa. E qui si disegnano i tratti di un altro feticcio dell’urbanistica liberista: il circolo cultura-innovazione-ricchezza, con il conseguente dispiego di progetti urbani più o meno spettacolari (penso a Paris Rive Gauche a Parigi o anche a Greenwich Peninsula a Londra) (5). A fronte della ricerca spasmodica di attrezzature e di spazi culturali e di intrattenimento, a fondamento di questo paradigma, si intravede la dubbia sopravvivenza della città come supermarket della cultura, nell’epoca della crisi globale…
Per dirla in breve, la sfida della città di domani e dell’urbanistica del dopo-crisi si gioca sul terreno dell’approccio alla complessità e all’incertezza. Le grandi semplificazioni dell’urbanistica liberista non reggono più l’urto con la realtà, producendo ciò che Bourdin definisce il “naufragio dei saperi”. L’interdisciplinarità, praticata come formula o come slogan, dovrà essere ripensata per penetrare i tanti “enigmi” che ancora avvolgono la città: le pratiche degli abitanti, i modi di vita, gli usi concreti degli spazi concreti, direi anche la creatività dispersa dell’invenzione del quotidiano di cui ci ha parlato Michel de Certeau (6). Solo il confronto tra i saperi e le discipline può fornire risposte, al di là del narcisismo del progetto dell’era, forse definitivamente tramontata, dell’opulenza. Risposte che non si limitano alla creazione di immagini e di comunicazione – altre ossessioni dell’urbanistica liberista – ma di usi e di significati.

In questo ambito si troverà ad operare un’urbanistica del dopo-crisi, i cui contenuti e le cui scelte non possono essere determinati unicamente da una logica di mercato, ma dovranno inserirsi in un contesto di offerta urbana, che potrà investire anche una domanda non solvibile (per esempio quella dei senza-tetto che hanno bisogno di un alloggio, specie in un paese come l’Italia così drammaticamente colpito da catastrofi più o meno naturali). Si tratterà allora di far incontrare scelte politiche e decisioni urbanistiche: è qui che si definiscono gli ambiti di una domanda che, se riconosciuta e condivisa, può dar luogo a diritti urbani(7).
L’offerta urbana rappresenta quindi un sistema articolato nel quale si collocano l’accesso alle risorse urbane, gli usi (mobilità, autonomia, flessibilità), soprattutto la coesione sociale (solidarietà e compartecipazione). Tutto ciò appare tanto più pertinente, quanto più si assiste alla diffusione dei processi di individualizzazione, differenziazione, parcellizzazione, con l’eclissi della nozione tradizionale di società e di comunità locale, o localmente costituita.

Un’urbanistica del dopo-crisi dovrà in primo luogo riflettere sui temi della coesione sociale, con un lavoro specificamente orientato sui “dispositivi urbani”, oltre che sulla costruzione di reti relazionali e di intelligenza collettiva. Fare città può allora (ri)diventare fare società: elaborando progetti collettivi e inventando metodi e procedure diversi da quelli dell’urbanistica liberista (fondati sulla logica dell’individualismo). Un’urbanistica della coesione sociale implica la definizione condivisa di diritti urbani: all’accoglienza, alla mobilità e all’accesso (non solo di luoghi, ma anche di informazioni e servizi), ad un ambiente sano (anche mediante una maggiore presenza di natura nella città), alla sicurezza (non certo nel senso di una illusoria “tolleranza zero”).
Ma la scommessa dell’urbanistica del dopo-crisi si apre in particolare sulla città delle persone meno abbienti. Qui si rivela in pieno l’inadeguatezza di una maniera di pensare e di fare la città per episodi, eventi e attori maggiori, segnali visibili di un tenore di vita e di ambizioni non più sostenibili. L’attenzione verso i modi di vita, molteplici e spesso contraddittori, non potrà non tener conto dei bisogni delle popolazioni dei nuovi migranti e delle comunità etniche e religiose che chiedono accoglienza. Ciò permetterà di non creare nuovi ghetti per tali categorie di persone, le cui migrazioni saranno probabilmente ancora più intense e imprevedibili delle attuali, ma luoghi e quartieri dai quali queste genti potranno ripartire per creare le basi di una esistenza degna di questo nome. Un’urbanistica del dopo-crisi dovrà farsi carico di un impegno finora mai seriamente affrontato: il pieno esercizio del “diritto alla città” da parte delle categorie sociali disagiate.

[Luigi Manzione]

Architetto, Ph.D. in urbanistica dell’università di Parigi VIII, ha insegnato alla facoltà di architettura di Paris–La Villette. Si occupa in particolare di storia e teoria dell’urbanistica, delle forme insediative e delle trasformazioni del paesaggio della periferia europea contemporanea. Ha pubblicato su riviste e volumi collettivi in Italia, Francia e Belgio. Suoi scritti sono apparsi sulle riviste Espaces et sociétés, Urbanisme, Lieux communs, Le Visiteur, Urbanistica, AreaVasta, Archphoto, Arch’it, Atopia. Ha in corso di pubblicazione il volume L’urbanisme comme science. La France et l’Italie dans l’entre-deux-guerres con le edizioni MētisPresses (Ginevra).

(1)Di A. Bourdin, sociologo e professore all’Institut français d’urbanisme, v. in particolare L’urbanisme d’après crise, La Tour d’Aigues, L’Aube, 2010.
(2)M. Davis, D. Monk (a cura di), Evil Paradises: Dreamworlds of Neoliberalism, New York, The New Press, 2007
(3)R. Florida, The Rise of the Creative Class. And How It’s Transforming Work, Leisure and Everyday Life, New York, Basic Books, 2004.
(4)V. M. Pianta, Nove su dieci. Perché stiamo (quasi) tutti peggio di 10 anni fa, Roma-Bari, Laterza, 2012.
(5)Di cui ho discusso rispettivamente in “Paris Rive Gauche. L’espace des infrastructures entre réinvention et refoulement”, in D. Rouillard (a cura di), L’Infraville/Futurs des infrastructures, Parigi, Archibook, 2012, e in “Grenwich Peninsula”, archphoto, 2010
(6)M. de Certeau, L’invention du quotidien t.I, Arts de faire, Parigi, Gallimard, 1990
(7)In una prospettiva che parte da (e reinterpreta) Le droit à la ville, vers la sociologie de l’urbain de Henri Lefebvre (Parigi, Anthropos, 1968).