Maurizio Giufrè. Atget: sguardi sulla Vieux Paris

Eugene Atget

Accade sempre quando si guardano le fotografie di Parigi di Eugène Atget di volere scoprire quali cambiamenti quelle vie e edifici hanno subito nel tempo, se quei luoghi ci sono ancora così come li ha documentati il fotografo oppure no. E’ un meccanismo naturale e la mostra al Musée Carnavalet l’innesca secondo un piano distinto di temi architettonici che per Atget sono circoscritti tutti all’interno del perimetro della “Vieux Paris” prerivoluzionaria, quella antecedente alle radicali trasformazioni urbane che il barone Haussmann impose tra il 1853 e il 1870 e che le diedero l’assetto definitivo di “capitale del XIX secolo”. Soddisfare, però, questa curiosità potrebbe deludere, o meglio essere un esercizio sterile. La “vecchia” Parigi di Atget si è progressivamente contratta: quasi dissolta come prevede l’ultimo restyling a Les Halles, trasformate in un enorme giardino, o smarrita nelle forme dell’atopia, com’è accaduto alla Défense. Atget ha cercato a suo modo di contrastare questa perdita di valori storici che ancora la città esprimeva attraverso la sua scatola fotografica 18X24 capace di catturare un copiosissimo numero di soggetti della realtà urbana. Questi non riguardavano né le avanzate conquiste del progresso industriale – dalla metropolitana ai grandi magazzini – né i monumenti celebri della città – sia civili sia ecclesiastici sempre sullo sfondo della scena ripresa – piuttosto l’edilizia minore composta di vie strette e cul-de-sac, cortili e modesti negozi o quelle figure di uomini e donne umili dedite ai piccoli mestieri di strada, anch’essi protagonisti di un mondo che andava scomparendo divorato dalla modernità che imponeva nuovi stili di vita e di consumo.

E’ nelle prospettive o angoli della città, sempre la stessa, ordinaria e vuota che Atget ritrae la condition humaine dei suoi modesti abitanti. Come ha reso evidente Guillaume Le Gall in catalogo (Gallimard) il suo modo di “differenziare e escludere” ciò che va impressionato sulla lastra fotografica è un lavoro analogo a quello dello storico secondo l’accezione che ne diede Michel de Certeau. Con la sua “collezione di documenti”, costituita da circa 10.000 lastre di vetro eseguite tra il 1857 e il 1927, Atget gli fornirà, infatti, la prova sull’importanza dell’archiviare e il collezionare quale condizione essenziale dello scrivere la storia. Solo, infatti, distinguendo le cose secondo il tipo, i tempi e lo spazio, come fece il fotografo francese, che si trasformano gli oggetti in documenti. Sarà questo coerente processo di selezione il riferimento per la “fotografia documentaria” di Walker Evans o di quella “diretta” (straight photography) di Berenice Abbott, quest’ultima la più appassionata sostenitrice di Atget che ebbe la fortuna di conoscere grazie a Man Ray nel 1925.

A tal proposito occorre ricordare che è grazie alla Abbott che si deve la scoperta del fotografo parigino non solo perché seppe valorizzarne parte dell’archivio dopo l’acquisto che fece dei suoi negativi, ma soprattutto perché editò sulla sua opera i primi libri illustrati e saggi. In mostra c’è il ritratto di profilo del fotografo che lei gli fece poco prima della morte: curvo e avvolto in un abbondante cappotto scuro. La foto somiglia a quelle segnaletiche della polizia e fa coppia con l’altra scattata sul davanti che si trova invece in catalogo. La Abbott prese alla lettera l’osservazione di Walter Benjamin: “Non deve il fotografo – discendente degli auguri e degli aruspici – scoprire la colpa e segnalare il colpevole nelle sue immagini?”. E’ stato, inoltre, il filosofo tedesco ad accorgersi come nelle foto di Atget “ogni angolo delle nostre città è il luogo di un delitto, ogni passante un malfattore”. Averlo messo in posa al termine della sua carriera come fosse anche lui l’autore di qualche misfatto non è, forse, stata un’autentica invenzione surrealista? In realtà Atget rientra nella schiera di quei flâneur – riferendoci anche questa volta al Benjamin dei “passages” – per i quali la città gravita tra “paesaggio urbano” o la “stanza”. E’ tra questi due “poli dialettici” che si scinde anche per lui lo spazio della quotidianità. La “stanza” nel nostro caso coincide con il suo salotto, la sua stanza da letto, ma soprattutto con il laboratorio fotografico dell’appartamento di rue Campagne-Première a Montparnasse: uno spazio ridotto e scarno di utensili se non lo stretto necessario per lo sviluppo dei negativi e la stampa, (rigorosamente a contatto). Gli angoli domestici della sua abitazione insieme agli interni “pittoreschi e borghesi” quali quelli di un operaio o di un artiste dramatique, nel 1910 avrebbero composto il secondo album del fotografo e compongono una sezione specifica della mostra. L’intérieur parisiens costituisce, infatti, per Atget uno dei temi, come quello dei dettagli architettonici o dei mezzi di trasporto, delle botteghe o dei chioschi, un materiale utile, pronto all’uso, per artisti grafici e caricaturisti che possono impiegarlo come eccellente fonte per le loro ambientazioni.

E’ indubitabile, come ha rilevato Andreas Krase (Taschen, 2001), che la produzione del fotografo parigino, “alla maniera di un venditore porta a porta” non smise di considerare la sua attività funzionale allo sviluppo delle arti applicate, un valido strumento di documentazione per chiunque aveva a cuore il mantenere in vita quelle forme che l’avanzare dello sviluppo industriale ben presto avrebbe cancellato. Per questa ragione è fuorviante ricercare una qualità artistica alla fotografia “topografica” di Atget: sia quella amata dai funzionalisti della “Nuova Oggettività” tedesca (sue foto comparvero a Stoccarda nell’esposizione “Film und Foto” nel 1929) sia quella cara ai surrealisti, come mostra l’album di Man Ray a conclusione della mostra. Conteso tra i primi che vedevano in lui il precursore dei “ritmi di accumulo ripetitivo” dell’oggetto e i secondi, che attraverso le sue foto di nudi e manichini in vetrina scoprivano l’effetto del collages, l’opera di Atget si è sempre voluto considerarla “artistica” nonostante è riconosciuto che è diseguale e incoerente per tecnica ed estetica. Rosalinda Krauss colse nel segno quando suggerì di interessarsi ai modi di codifica del suo catalogo piuttosto che all’analisi socioculturale o artistica delle sue fotografie: Scrisse: “Un catalogo non è tanto un’idea quanto una mathesis”, per intendere che è l’inventario del fotografo parigino, con le sue leggi di relazione riferite esclusivamente alla quantità e alla misura, la vera originalità del lavoro di Atget che mettono in discussione categorie quali quelle di autore, opera e genere.

Il Michel Foucault dell’“Archeologia del sapere” gli fecero comprendere l’importanza dell’archivio fotografico inteso come “pratica discorsiva” complessa, trovando così conferma, nelle ricche dimensioni di quello del fotografo parigino, alla tesi foucaltiana che: “parlare significa fare qualcosa, qualcosa di diverso che esprimere quello che si pensa”. A distanza di più di vent’anni la linea di ricerca della storica americana è confermata nella mostra parigina: nessun dubbio che l’opera di Atget coincida con la sua volontà di mettere la fotografia al servizio della storia, e lo fece con il suo “occhio di archeologo” con il vanto di poter dire di essersi “impossessato di tutta la vecchia Parigi”.

[Maurizio Giufrè]

Articolo pubblicato su Alias-Il Manifesto del 15 luglio 2012