Maurizio Giufré. Big bang architettonico

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Solo Rem Koolhaas poteva provocare la netta discontinuità con le passate edizioni della Biennale che hanno visto sempre un «allestitore di presenze altrui» misurarsi con un tema da lui scelto. Questa volta Fundamentals-il nome che prende la XIV Biennale Architettura-alle Corderie dell’Arsenale, non ha chiesto agli architetti di cimentarsi con installazioni sensazionali o sofisticate scenografie; questa volta tutti si sono fatti seri e studiosi e l’antica fabbrica contiene così uno dei tre “progetti di ricerca” con i quali si articola l’esposizione veneziana: Monditalia. È questa una “scansione” che attraverso il mezzo cinematografico e quarantuno casi-studio indagati da giovani ricercatori, racconta luoghi e paesaggi emblematici del nostro paese per disagio e forti contraddizioni nei quali l’architettura è il soggetto: dall’Aquila post-terremoto a Lampedusa terra di confine, dagli abbandoni edilizi di Roma e Torino, fino alla Libia colonia italiana nel ventennio.
Più di trecento metri di tela con su riprodotta l’antica Tabula Peutingeriana unisce come un filo le diverse tappe di un percorso interessante perchè il solo autenticamente politico, ma noioso perchè didascalico. È il rischio immaginabile quando si ricorre a un maestro con vinto, com’è Koolhaas, a ordinare ogni cosa per sostenere le sue tesi.

Il dominio del mercato

L’architetto olandese si è accorto-trentaquattro anni dopo la sua prima partecipazione alla Biennale-di come l’economia di mercato “ha corroso la dimensione morale dell’archiettura», chiedendo con disincanto, nell’introduzione al catalogo (Marsilio), “in quale modo siamo giunti a questo punto?”. Non sappiamo se l’interrogativo è retorico visto che certo la sua carriera non l’ha escluso dall’essere, come pochi altri architetti, tra gli interlocutori privilegiati delle più importanti istituzioni mondiali. Sarebbe, quindi, più ovvio che altri ponessero a lui la stessa domanda.
Torniamo però alla mostra. Koolhaas ha accentrato l’intera organizzazione: ha chiesto ai singoli paesi ospiti di allinearsi alle sue idee e con pochi contributi esterni ha realizzato la manifestazione che già dal titolo non nasconde le ambizioni di qualificarsi per il futuro come riferimento obbligato per qualsiasi ragionamento sull’architettura e non solo di questa. Tuttavia con l’occasione datagli in laguna Koolhaas non ha fatto altro che riproporre e ampliare sotto altre forme la sua riflessione di sempre: dimostrare che ciò che ancora definiamo architettura moderna è solo un “ingannevole Modernismo”. Nella seconda “componente” della mostra, Absorbing Modernity 1914-2014, i singoli padiglioni nazionali raccontano quale è stato il contributo originale alla modernizzazione inserita all’interno delle loro tradizioni storiche e culturali. È questo il più soddisfacente risultato che è stato raggiunto a Venezia, perchè la diffusione degli etimi del modernismo noti in larga parte in molti paesi periferici non lo erano in altri: ad esempio il mondo arabo.

Un problema comunicativo

Nell’insieme l’esposizione veneziana è per Koolhaas l’occasione più importante e mediaticamente impegnativa per esporre le sue problematiche convinzioni in bilico, come un equilibrista, tra la consapevolezza che da tempo sono falliti gli strumenti e i modelli che ci ha consegnato la modernità architettonica e la necessità, comunque, di farne ancora riferimento pur revisionandone i contenuti attraverso nuove strategie comunicative. Emblematico per spiegare ciò è dato dal suo recente edificio De Rotterdam che segna lo skyline della sua città: una architettura che commenta criticamente sia la tradizione del grattacielo dal quale proviene sia ciò che in quel contesto gli sta intorno imponendo se stessa come “città verticale” e unica alternativa per il futuro della città portuale. Rem Koolhaas si pone come la più avanzata ed egemone forma di criticismo contemporaneo.
Il suo “sperimentalismo”-per usare una categoria ancora efficace- è ciò che più lo contraddistingue e questa Biennale riflette fedelmente la sua weltanschauung.

Ricordiamo che per estendere l’influenza del suo pensiero critico nel 1998 ha fondato Amo, una piattaforma globale che interviene in campi e in settori non architettonici e che partecipa alla mostra insieme a una ristretta, ma eterogenea compagine di soggetti: l’industria di serramenti belga Sobinco insieme alla gemella Biennale di Shenzhen Hong Kong, diverse istituzioni universitarie a lui vicine che vanno dall’Harvard Graduate School of Design, dove insegna, alla Tu di Delft fino al Mit. Lo spirito della ricerca ha avuto però bisogno in particolare di storici (Tom Avermaete), teorici dell’architettura glo bale (Keller Easterling), ingegneri (Arup, Claudi Cornaz), fotografi (Wolfang Tillmans e Hans Werlemann), ma di pochi architetti sui generis come lo stesso Koolhaas.

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Ecco allora aggiungersi, per completare l’elenco dei protagonisti, Alejandro Zaera Polo (già Foreign Office Architects) e Claude Parent, con Paul Virilio autore della poetica dell’obliquo.
È con loro che Koolhaas presenta la sua ampia reinterpretazione critica della modernità che già si conosce attraverso i suoi scritti: dal più famoso Junkspace (2001) fino al più recente Project Japan (2011). Il suo scavo interpretativo ha dato una chiara lettura del complesso mondo nel quale siamo immersi introducendo categorie nuove come quella del Bigness (l’architettura estrema) e di Città Generica. È però con quello che è stato il “Big Bang architettonico” del Moderno che Koolhaas intende misurarsi e forse dimostrare che in altri modi, secondo altri principi di interazione con altri saperi, l’architettura ha ancora delle possibilità per superare le contraddizioni e i conflitti che la società vive nell’epoca dell’economia globale. È infatti da questa irriducibile convinzione che l’architetto prende le mosse per elencare una serie di rappresentazioni affinché non risulti poi del tutto vano ciò che ha prodotto un secolo di storia dell’architettura moderna.

Con Elements of Architecture, al Padiglione Centrale, sono esposti, con il contributo del Friedrich Mielke Institut fur Scalalogie, la pluralità degli elementi con i quali si compone ogni edificio e dai quali ripartire per elaborare una nuova sintassi. Dopo la riflessione storica (Absorbing Modernity) quella politica (Monditalia) eccoci di fronte alle questioni del mestiere, anch’esso da rifondare. Suddiviso per ambienti si fa la storia di pavimenti, corridoi, muri, finestre, servizi igienici, ecc.: anche qui come alle Cor derie assistiamo a una manifestazione didattica senza una pedagogia. Manuali, trattati, codici-da Vitruvio a Neufert-sono allineati all’ingresso del padiglione superati come ferri vecchi perché a sostituirli ha provveduto lo stesso Koolhaas redigendo fascicoli tematici aggiornati, ma soprattutto storicizzati.

Una sterile verifica

L’opera di catalogazione, usando una aggiornata tassonomia, non può però di per sé costituire una soluzione: non si parla, né si legge e scrive architettura con i soli etimi del linguaggio moderno scriveva Zevi. In questo senso la verifica dell’architetto olandese appare sterile perché ciò che ha insegnato la modernità sono le molteplici grammatiche e sintassi che abbiamo a disposizione per “parlare” l’architettura e un solo pericolo: lo storicismo inteso nelle sue espressioni più retrive del revival- dallo stesso Koolhaas però rifiutato- e l’ordine accademico, ovvero l’autorità di chi ogni volta si assume il compito di indicare un vangelo. Elements of Architecture può rimandare a “una certa enciclopedia cinese” della quale parlava Borges e che ispirò Michel Foucault. Come si chiese il filosofo francese ci domandiamo anche noi: qual’è l’ordine, le regole e i confini con il quale quell’insieme di oggetti hanno generato il discorso dell’architettura della modernità? La visita nei padiglioni nazionali dimostra come il modernismo si è posto l’obiettivo di migliorare le condizioni delle vita urbana. Come ci ha insegnato, però, Foucault “disciplinare” ed “educare” le popolazioni è sempre stato il vero oggetto degli interessi del potere e in questo gli architetti continuano ancora a svolgere bene il loro compito.

[Maurizio Giufré]

Questo articolo è stato pubblicato su Il Manifesto il 6.6.14