Emanuele Piccardo. Periferie italiane

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Dopo l’articolo di Renzo Piano sul “rammendo” delle periferie, archphoto rilancia il tema attraverso un’indagine nelle periferie italiane con lo scopo di definire modalità, nuove e vecchie, criticità, fallimenti e successi dei progetti degli spazi pubblici che, in qualche modo, abbiano contribuito a recuperare le periferie. La redazione è impegnata da un lato ad una elaborazione teorica sul significato attuale del termine “periferia”, e dall’altro individuare una serie di esempi paradigmatici di buone pratiche e comportamenti. Consapevoli del contesto normativo (e culturale) nel quale gli architetti sono costretti a muoversi, abbiamo appurato come sovente ci sia una attenzione a interventi architettonici spurii, a volte più vicini alle modalità degli artisti. Questa è una anomalia unicamente italica, dovuta alla scarsa possibilità per gli architetti (soprattutto i giovani) di accedere alla progettazione di spazi pubblici come parchi e piazze. Così ci siamo domandati dove sia oggi la periferia. Se nel recente passato era considerata periferia, quella parte di città al di fuori delle mura, oggi è periferia anche il centro storico con il conseguente svuotamento di funzioni. Quello che vogliamo sottolineare attraverso la nostra indagine sul campo è la definizione di un’area nella quale agire, dal punto di vista teorico e pratico. Dunque la periferia è un luogo geograficamente periferico, come una cittadina di una più vasta area metropolitana di Roma, Milano,Napoli, Genova, Firenze, Torino? Viceversa è un’area compresa tra il centro storico e la campagna fatta di edilizia residenziale pubblica, priva di servizi e infrastrutture?Per noi questa seconda definizione è quella che più ci interessa evidenziare, anche se gran parte del territorio italiano è costituito da paesi e borghi piccoli dimensionalmente (le città medie europee oscillano tra i 50.000 e i 250.000 abitanti, in Italia il 70% dei Comuni ha un numero di abitanti inferiore a 5000 unità-dati da L’Italia delle città medie).

Per cui si potrebbe dire che, al di fuori delle città metropolitane, ovvero quelle che hanno un numero di abitanti che oscilla tra i 500.000-1.000.000 e poi maggiore di 1 milione, (secondo la nuova proposta di Legge Del Rio), non esiste la periferia. Storicamente la periferia è fatta da quei luoghi come i quartieri di edilizia pubblica o convenzionata, costruiti dagli anni Settanta del Novecento a oggi, teatro di degrado sociale e culturale a causa di una distorta concezione urbanistica e di un profondo legame tra potere politico-affaristico-architettonico che, recentemente, ha generato i casi di Ponte di Nona, Porta di Roma e Parco Leonardo (entrambe realizzate dal gruppo Caltagirone) nella capitale d’Italia. Quartieri nati senza servizi, ma solo con promesse in mirabolanti slogan pubblicitari, che sono stati realizzati in sequenza come in un film ai bordi del Grande Raccordo Anulare.
Non dissimili da operazioni contemporanee, vendute come esempi di architettura, è il caso dei Cabassi a Milanofiori o Zunino nell’ex area industriale di Santa Giulia a Milano, che determinano le stesse condizioni di vita alienanti e vuote, da parte degli abitanti, delle edilizie residenziali figlie di progettisti al servizio del mercato. Questo accade sia con progettisti, figli di NN, sia con progettisti più famosi come il Foster autore del masterplan per Santa Giulia. Gli esiti progettuali sono differenti, forse, ma il comportamento dei fruitori e gli usi degli spazi, soprattutto quelli aperti, è analogo a un qualsiasi altro quartiere degradato della penisola. Perchè la periferia ha bisogno certamente di spazi ma soprattutto ha una necessità imprescindibile: fare comunità. Senza un senso comunitario dei luoghi non si può pretendere rispetto per le cose che appartengono a tutti, e la periferia è un fatto culturale che va radicalmente cambiato.

Occorre innanzitutto partire da un progetto politico di città e quindi anche di “periferia” con strumenti legislativi adeguati, dalle assegnazioni degli alloggi al finanziamento di micro attività commerciali per rafforzare il senso di appartenenza e di indipendenza dal centro. Far crescere la periferia attraverso strumenti e pratiche che coinvolgano non solo gli architetti, ma anche gli amministratori locali, sempre più succubi dei comitati di quartieri spesso sorti per difendere interessi personali e non quelli dell’intera comunità. Così archphoto vuole dare un contributo utile alla discussione che avrà un primo passaggio nelle pagine della webzine, con la pubblicazione dei progetti, che di volta in volta selezioneremo, e stabilire insieme alla redazione altre modalità come l’organizzazione di una giornata per la periferia, in cui invitare i progettisti a presentare live i loro progetti in una conferenza pubblica in una delle città che indagheremo.

[Emanuele Piccardo]