Claudia Baghino. Intervista a Paolo Minetti/Galleria Forma

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Robert Morris, allestimento, GALLERIAFORMA, Genova 1973, fotografia agenzia Publifoto, Archivio Paolo Minetti, Archivio d’ Arte contemporanea, Università degli Studi di Genova (DIRAAS)

In un’ottica di conservazione della memoria e di testimonianza dell’esperienza della Galleriaforma, si è ritenuto indispensabile avvalersi della preziosa fonte orale rappresentata dal direttore della galleria, Paolo Minetti. Di seguito si è cercato di fissare, nell’agevole forma dell’intervista, le varie conversazioni avute durante lo svolgimento del lavoro, allo scopo di rendere un’immagine della realtà e dell’atmosfera degli anni di attività fornita direttamente da chi li ha vissuti.

Claudia Baghino: Come è avvenuta la sua formazione culturale?
Paolo Minetti: Nell’immediato dopoguerra, in una città ridotta dai bombardamenti a ciò che fu definita «la Stalingrado dei teatri», cominciai a partecipare all’attività del Centro Universitario Teatrale. Francesco Della Corte, illustre latinista, amava ridurre in forma teatrale i processi celebri, come ad esempio quello di Socrate, che noi giovani appassionati recitavamo; un approccio non convenzionale, come gli spettacoli messi in scena alla Borsa di Arlecchino, che mi hanno fatto appassionare ai temi dell’avanguardia. Più avanti, il lavoro multi-disciplinare nella cooperativa della Galleria del Deposito, gomito a gomito con artisti, critici, architetti, mi ha messo in contatto con il meglio della produzione culturale europea di quegli anni.

CB: Come è maturata la sua scelta di occuparsi di cultura attraverso il mezzo della galleria?
PM: Agli inizi degli anni settanta esperienze vivaci e stimolanti come quella della Galleria del Deposito si erano esaurite; l’attività della galleria Carabaga era stata breve ma intensa e la redazione della rivista Marcatre, ideata e promossa da Eugenio Battisti, nata nelle lunghe chiacchierate sulla spiaggia di Boccadasse, era stata spostata a Roma. In città si sentiva il bisogno di non disperdere il patrimonio di esperienze che avevano arricchito quanti le avevano vissute e, per quel che mi riguarda, per un breve periodo ho proseguito l’attività realizzando una serie di multipli con artisti come Agostino Bonalumi, Ettore Spalletti ed Enrico Castellani. Questa necessità, l’attenzione dei collezionisti e il fatto curioso che nella Genova dell’epoca il pubblico della Borsa fosse diventato anche quello del Deposito mi hanno spinto a proseguire l’attività in una forma diversa.

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GALLERIAFORMA, scheda opera Andy Warhol, Archivio Paolo Minetti
Archivio d’ Arte contemporanea, Università degli Studi di Genova (DIRAAS)

CB: Può dire se e come ha applicato, nell’esperienza di gallerista, le conoscenze maturate durante gli anni della Borsa di Arlecchino?
PM: Dall’esperienza della Borsa ho portato con me l’attenzione per il nuovo e nel lavoro di galleria mi è stata utile la familiarità con i rapporti internazionali, maturati tenendo i contatti con gli autori stranieri dei lavori messi in scena dalla compagnia. Dobbiamo ricordare che si trattava di anni in cui, rispetto a oggi, la circolazione delle informazioni era infinitamente più lenta, le comunicazioni più difficili, i viaggi e gli spostamenti in generale più costosi.

CB: E per quanto riguarda la Galleria del Deposito? Come e quanto le è servita?
PM: Il Deposito è stato un laboratorio importante. Innanzitutto per la sua forma di cooperativa culturale – la prima in Italia e forse anche in Europa – fra artisti e critici, nata per dare una forma espositiva alle correnti del momento, come lo Spazialismo, e a quelle in via di storicizzazione, come il Costruttivismo. Di quell’impresa mi ha appassionato l’aspetto innovativo e utopico del multiplo, concepito nello spirito dell’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica espresso da Walter Benjamin, e l’apertura verso l’Europa, l’avanguardia, la sperimentazione.

CB: Tra le personalità con cui ha avuto contatti nel suo lavoro, c’è mai stato qualcuno che ricorda come esempio o fonte di ispirazione, o una collaborazione che le è stata più a cuore?
PM: Ho conosciuto Gillo Dorfles nel 1960, all’inaugurazione del Deposito: una figura già molto nota all’epoca tra di noi, che eravamo più giovani. Il suo lavoro di critico d’arte, il suo sguardo quasi antropologico sul costume e soprattutto la sua curiosità intellettuale sono stati per me una guida nel panorama degli anni a venire. Non dobbiamo dimenticare Konrad Wachsmann e la sua spinta utopica verso la città futuribile, e il segno che lasciò la sua presenza di architetto e intellettuale a Genova per la progettazione del palazzo direzionale dell’Italsider, mai realizzato. Né l’influenza determinante, per fare un altro esempio, che ebbe su noi tutti – da Ezia Gavazza a Germano Celant,
per fare solo qualche nome – la presenza di Eugenio Battisti a Storia dell’arte, la sua idea del Museo Sperimentale di Arte Contemporanea, poi finito a Torino, dei suoi vasti interessi, della sua sterminata e pionieristica collezione d’immagini di opere della Land Art.

CB: Lei ospitava artisti, poi diventati famosi, in anni in cui erano ancora poco conosciuti, se non all’estero, quantomeno in Italia. Come avveniva la ricerca di questi talenti? Quali contatti era necessario creare per realizzare le esposizioni? In sostanza, quali erano i passi da seguire?
PM: Da un lato ci si fidava del gusto e dei consigli di figure di cui si aveva stima, dall’altro si era sempre in movimento. Per fare qualche esempio, Eugenio Battisti mi parlò bene di Enrico Castellani e la mostra di quest’ultimo mi diede l’idea di esporre Agostino Bonalumi. Il valente collezionista Gianni Malabarba mi propose Piero Manzoni, Castellani mi consigliò di esporre Vincenzo Agnetti e così via.
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Biglietto di auguri di Ileana Sonnabend a Paolo Minetti, Archivio Paolo Minetti
Archivio d’ Arte contemporanea, Università degli Studi di Genova (DIRAAS)

CB: Dall’archivio risulta una collaborazione lunga e proficua con Ileana Sonnabend. Come vi siete conosciuti e come si è sviluppato questo rapporto lavorativo?
PM: Nei primi anni Settanta Emilio Rebora e io andammo da lei a Parigi – all’epoca ancora una delle capitali del contemporaneo – per acquistare opere di Andy Warhol in vista di una mostra. Più avanti, incontrata alla Biennale, Ileana ci consigliò Dennis Oppenheim e da lì proseguimmo con Marcia Hafif e Robert Morris, per fare qualche nome, e negli anni il rapporto di fiducia reciproca si è consolidato. Ne parlammo ancora nel 2006, a New York, con lei e con Antonio Homem, che prese le redini della Sonnabend Gallery, poco prima che Ileana mancasse.

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Gordon Matta Clark, AW-Hole House, Genova 1973, Archivio Paolo Minetti
Archivio d’ Arte contemporanea, Università degli Studi di Genova (DIRAAS)

CB: Come definirebbe il pubblico che frequentava la galleria? Che profilo avevano gli acquirenti?
PM: Una caratteristica dei collezionisti migliori, quelli veri, è l’attenzione al nuovo: ad esempio, vogliono essere sempre i primi in città ad avere l’opera di un artista interessante, se esposta in una galleria di cui hanno stima. In genere ad acquistare opere erano professionisti come medici e avvocati, persone dai vasti interessi come quelle che visitavano la mostra per il piacere di farlo, molto numerose, e che dedicavano parte del loro tempo alla più difficile delle arti che è quella contemporanea.

CB: La galleria proponeva, nella piccola e provinciale Genova, artisti innovativi e di rottura, difficilmente commerciabili all’epoca. Si può supporre che il finanziamento dell’attività non fosse facile. C’erano difficoltà in questo senso? Avevate qualche collezionista lungimirante che seguiva il vostro lavoro?
PM: La città – come nei casi della Borsa di Arlecchino e del Deposito – non offriva alcun aiuto, un tema ricorrente nelle vicissitudini della cultura a Genova. Avevamo l’appoggio di alcuni collezionisti, soprattutto di altre grandi città come Milano e Roma. È curioso vedere oggi i prezzi raggiunti nelle aste internazionali da opere che abbiamo dovuto insistere per vendere.

CB: Nei primi anni di attività si hanno altissime percentuali di nomi stranieri, poi – dal 1976 – si passa progressivamente a nomi sempre più spesso italiani e, negli ultimi anni, anche a nomi liguri. Come mai a un certo punto la linea cambia? C’è un motivo particolare in questa scelta di volgere lo sguardo nuovamente entro i confini nazionali?
PM: Nell’economia dell’attività, della galleria, a parità di interesse e di valore, l’attenzione per gli artisti italiani permetteva di affrontare spese inferiori per gli aspetti tecnici e organizzativi.

CB: Nel ritornare con la mente a questa esperienza, come la rivede? Cambierebbe qualcosa di ciò che ha fatto? Agirebbe diversamente?
PM: Rifarei tutto quello che ho fatto, nel bene e nel male.
Come giudica la situazione odierna delle gallerie d’arte genovesi?
Non invidio chi opera oggi nell’arte contemporanea, in un’Europa in generale contrazione e, in particolare, in una città in grave crisi economica, in cui le priorità sembrano essere diventate altre da quelle della cultura in generale. E la presenza del Museo di Villa Croce, purtroppo, non è bastata da sola a consolidare in città il ruolo dell’arte contemporanea.

[Claudia Baghino]

L’intervista fa parte della tesi di laurea di Claudia Baghino “La storia della GALLERIAFORMA attraverso l’analisi e la catalogazione dei materiali dell’Archivio Paolo Minetti”, Corso di Laurea Triennale in conservazione dei Beni Culturali aa.2010-2011 relatore il prof. Franco Sborgi, correlatore Paola Valenti.

Archphoto ringrazia Claudia Baghino, Paolo Minetti e l’Archivio d’ Arte contemporanea, Università degli Studi di Genova (DIRAAS) per la disponibilità a concedere il materiale.