Douglas Mortimer. Architettura: se la hybris non è peccato

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Utopia, sperimentazione su materiali e tecnologie e radicale messa in discussione delle funzioni della propria disciplina sono i parametri che definiscono anche i movimenti architettonici italiani di quel periodo. Alla violenza e al nichilismo della cultura di massa gli architetti italiani rispondono portando all’eccesso la loro hybris progettuale fino ad arrivare a un’architettura visionaria della quale solo oggi possiamo capire l’importanza.
Alla radicalità del conflitto politico l’architetto replica con la radicalità del progetto architettonico. Basta confrontare le esperienze architettoniche degli anni successivi alla guerra con quelle dei tardi anni Sessanta per rendersi conto che il clima è cambiato.
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Gli anni Cinquanta infatti vedono emergere una scelta politico-architettonica rivolta verso un legame con la storia e la tradizione. Il Neorealismo, con la sua “ideologia del borgo” che, pur avendo un risvolto internazionale, di fatto riporta l’architettura italiana verso un neo-regionalismo che va sotto il termine di “vernacolare”, e il Neoliberty, con un ritorno a stilemi del passato, rappresentano le due correnti di pensiero predominanti in questo periodo con architetti del calibro di Samonà, Ridolfi, Quaroni, Albini e Gardella.
La prima corrente si colloca nell’Italia centrale, nasce in relazione con il Movimento per l’Architettura Organica promosso da Bruno Zevi e produce progetti come il quartiere Tiburtino a Roma di Ludovico Quaroni e Mario Ridolfi, il Borgo la Martella a Matera sempre di Quaroni, le case Ina di Ridolfi. La seconda si concretizza nell’Italia settentrionale, attraverso figure di rilievo come Gabetti ed Isola, Ignazio Gardella, Carlo Scarpa, e assume un carattere ironico nei confronti della borghesia italiana ancora piena di pregiudizi precapitalistici.
A partire dagli anni Sessanta gli architetti cominciano sempre più ad essere influenzati dalle avanguardie artistiche che nascono in ambito internazionale e soprattutto dal loro rapporto con la Storia. Se da un lato esiste un filone di pensiero che vede nella Storia la principale fonte di ispirazione, dall’altro si viene a delineare un atteggiamento che indirizza la ricerca verso la sperimentazione e considera come fondamentale l’altra componente del codice virtuale per l’architettura del ventennio post-bellico: l’Utopia.

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Sono la cultura pop americana e gli studi sulle grandi città americane ad incuriosire.
Ci si confronta con la poetica della grande dimensione, uno dei tanti argomenti di ricerca trattati da Richard Buckminster Fuller e che implica una progettazione a metà tra l’architettura e l’urbanistica: il town-design.
Si assapora il fenomeno dell’englishness sottolineato da ricerche sperimentali. Proprio l’Inghilterra, dopo essere rimasta pressoché estranea alla storia dell’architettura tra le due guerre, vede la nascita del New Brutalism, la corrente del Beton Brut di Alison e Peter Smithson, in cui l’estremismo puritano degli architetti si integra con l’Art Brut di Dubuffet e con la Pop Art. Sempre in Inghilterra operano gli Archigram che, sotto il termine “Utopia” (vista in chiave ironica), basano gran parte della loro ricerca.
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Leonardo Ricci, la nave, quartiere Sorgane, Firenze 1967. Fotografia Emanuele Piccardo

Soprattutto la poetica della grande dimensione e le macrostrutture divengono argomenti
di grande interesse per alcuni architetti italiani. In un convegno organizzato nel 1962 si fa il punto sulle esperienze internazionali proprio sul tema della città vista come intero organismo urbano, considerando come precipua la tematica della città-regione: città come espressione simbolica della propria funzione (Tange), come città-istantanea che vive una grottesca dimensione tecnologica (Archigram), come utopia di una realtà tutta da costruire in cui si può rileggere la crescita metabolica, la sua strutturazione formalmente complessa e a volte aberrante (Nuova Utopia). Gli architetti italiani fanno una lettura problematica di queste suggestioni, ne sfumano la perentorietà teoretica filtrandola con i mezzi della loro cultura e della loro storia. In realtà la convinzione dell’urgenza di un mutamento sostanziale contribuisce alla creazione di numerosi filtri critici come lo studio sul linguaggio della strutturazione urbana e l’ideologia. In tutti i casi in Italia l’architettura rappresenta la costruzione della città, concepita come insieme di relazioni dinamiche istituite all’interno di una galassia territoriale. Si cercano luoghi dove deporre delle forme all’interno dell’organismo territoriale, visto come struttura in continua trasformazione.
La nuova dimensione individua nuovi tipi (macrotipi) funzionali (concetto di piastra continua, di maglia, di relazione etc.), strutturali e formali, che vedono nel centro direzionale il coagulo di forze in grado di interagire sullo stesso territorio.

L’apporto dell’Italia al Town design è dunque quello meta-progettuale, in cui all’interno di una produzione legata all’avanguardia e allo sperimentalismo, si producono soluzioni che, incalzate dalla politicizzazione in atto di ogni ambito dell’esistenza, seguono un approccio più concreto, sempre e comunque proiettato nel futuro che ha poi permesso la realizzazione dei grandi centri direzionali e degli assi attrezzati.

Simbolo di questo dibattito è la rivista Casabella che proprio in quegli anni vive una stagione straordinaria, attraverso il susseguirsi di pubblicazioni monografiche dedicate alla realtà internazionale, ai centri direzionali, alla città-territorio, agli assi attrezzati ai nuovi mega quartieri. Nel concorso per il Centro Direzionale di Torino la piastra informale del gruppo Samonà si confronta con il monumentale fuori scala di Aldo Rossi; nel concorso per i grandi quartieri residenziali come lo Zen di Palermo (vinto dal gruppo Amoroso Bisogni, Gregotti, Purini, Hiromochi Matsui) sulla base di una griglia di riferimento in grado di misurare il paesaggio, vengono collocati gli edifici emergenti (residenze e spazi pubblici) che conferiscono, con il loro linguaggio, «l’aspetto metafisico dell’idea siciliana». Parallelamente a queste realizzazioni viaggiano posizioni radicali sul tema della città-territorio, in cui si confrontano atteggiamenti come quello di Paolo Portoghesi con la sua “Dicaia” in cui tutti i mezzi produttivi della città vengono organizzati da sistemi cibernetici, e suggestioni come quelle di Aldo Rossi che tenta di fuggire dalla logica del consumismo, anche quello della forma, teorizzando il valore autonomo delle parti della città cresciute singolarmente, riproponendo la forma chiusa come unico suggerimento plausibile al prodursi di azioni e forme successive. Ma l’avanguardia artistica che più influenzerà l’architettura italiana degli anni Sessanta è la corrente Informale che annulla il concetto di forma in favore della materia come componente fondamentale della rappresentazione. Architettura e arte nello stesso momento si interrogano sui propri mezzi espressivi.
Secondo la poetica dell’Informale, l’arte non è un linguaggio, non è un discorso e neppure strumento a servizio di qualcosa, è pura materia, è puro atto. Questa premessa diviene fondamentale per spiegare un fenomeno architettonico che investe soprattutto l’Europa, quindi l’Italia e le Americhe e che va sotto il termine di New Brutalism. Anche se il fenomeno nasce, come già accennato, in Inghilterra sull’utilizzo del beton brut, dell’Unità d’abitazione di Marsiglia e della pianta informale della Cappella di Ronchamp di Le Corbusier, dell’Arte Informale e dell’Art Brut di Dubuffet, l’estremismo puritano dei brutalisti viene incorporato in un vasto movimento internazionale. L’intento fondamentale è quello di determinare per ogni costruzione una condizione “necessaria” dal punto di vista delle strutture, dello spazio e del materiale. Effetto che si ottiene attraverso una chiara esibizione della struttura, una forte caratterizzazione dell’immagine e un apprezzamento dei materiali senza alcun rivestimento (tecnica del beton brut). Leonardo Ricci, allievo di Michelucci, si forma a Parigi, dove frequenta i grandi maestri come Le Corbusier, Picasso, Matisse, Giacometti. Si dimostra molto attento all’architettura sperimentale, lavora sul tema della casa teorica mosso dalla volontà di creare spazi nuovi e nuove forme, anche in pittura.

Nel 1967 realizza con Savioli il quartiere residenziale delle Sorgane (Firenze), uno dei brani più interessanti dell’edilizia popolare italiana che gli vale il premio dell’Inarch e che rappresenta un eloquente esempio di architettura brutalista in cui si rileggono i riferimenti di esperienze giapponesi di Mayekawa e Kenzo Tange. Se Leonardo Ricci mantiene sempre un legame con l’architettura della tradizione italiana, Vittoriano Viganò si integra perfettamente con la poetica brutalista puntando su una sperimentazione che considera l’utopia come “ricchezza immaginativa”.

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Vittoriano Viganò, Istituto Marchiondi, Milano 1957, fotografia Emanuele Piccardo

Nel progetto (1957) dell’Istituto Marchiondi (Milano), Vittoriano Viganò approfondisce alcuni concetti brutalisti sul piano dell’energia concepita come forza fisica che consente di progettare, energia rappresentata attraverso la pura materia e il puro gesto.
Il cemento consente alla forma di esprimere eloquentemente il concetto del non finito tipico del Brutalismo. Il cemento per Viganò rappresenta una vera e propria forma di vita, come valenza aperta. L’architettura sprigiona la sua ricchezza fatta di incognite e la sua disponibilità al cambiamento. Scrive Attilio Stocchi che «il risultato è un non finito in termini di spazio, architettura fluida che continua che non ha momento di arresto e un non finito in materia, materia grezza opaca che si lascia plasmare nel tempo».
Queste parole lasciano intendere, al di la dei risultati formali e architettonici, la modernità che si cela dietro il pensiero di Viganò, anticipando concetti che oggi muovono l’architettura digitale, l’architettura del fluido, del non riconoscibile, del movimento.
Se Viganò si inserisce all’interno di un dibattito internazionale, offrendo comunque contributi originali e innovativi alla cultura del Brutalismo, la Neoavanguardia italiana si costituisce come movimento trainante del pensiero che anima gli architetti degli anni Sessanta-Settanta. I continui contatti con architetti inglesi come gli Archigram, austriaci come Hans Hollein, Pichler e Coop Himmelblau, la cultura pop e la Land Art americana, nonché la ricerca di Buckminster Fuller sono sicuramente formativi per gli architetti radicali, mossi da un intento unitario, un luogo culturale e una tendenza energetica.

KO-24Jannis Kounellis, installazione, galleria L’Attico,Roma 1966

Ma al di là dei riferimenti artistici (Arte Povera e Minimalismo su tutti) che strutturano la ricerca degli esponenti della Neoavanguardia, esiste una componente che anima fortemente gli entusiasmi dei diversi gruppi: il pensiero politico espresso nel rifiuto di un insegnamento socialdemocratico e di una mediocrità intimista. In questo quadro l’Utopia esce dal puro ambito artistico e diventa Utopia culturale e politica, progetto architettonico al massimo livello. A differenza delle esperienze degli anni del dopoguerra che stabiliscono un modello di valori da proporre alla società, la Neoavanguardia non propone alcun modello da imitare con l’unico intento di liberare le facoltà creative dell’intera società. Si lavora all’interno delle università per reagire alla mediocre didattica paternalistica, allora come oggi presente nelle facoltà, si creano sperimentazioni eccentriche per contrastare la linea retta professionale dell’architetto.
Si opera all’interno delle strutture dell’architettura, dentro lo specifico architettonico, insistendo sul concettuale, centro design, tecnologia povera, iconoclastia, neodadaismo, nomadismo.

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UFO, urboeffimero n.3, Firenze 12 febbraio 1968, courtesy Lapo Binazzi/Archivio UFO

Il gruppo UFO decostruisce lo stesso termine concettuale “declinandolo” nei modi più svariati: concettuale come strumento di azione, realizzando installazioni (gli Urboeffimeri) che hanno lo scopo di stimolare l’osservatore coinvolgendolo nella scena; come ricerca tipologica, attraverso un reportage sulle case dell’Anas, fino a produrre una casa gonfiabile; come comportamento, attraverso la ricerca di Gianni Pettena espressa nelle sue prime azioni Carabinieri, Grazie & Giustizia e Milite ignoto, nell’happening Paper, dove i partecipanti si muovono all’interno di una stanza caratterizzata da strisce di carta appese sul soffitto; come analisi della città e del territorio, attraverso la ricerca di Ugo La Pietra con i suoi Gradi di libertà, in cui individua diverse operazioni attuate dalle masse urbane o suburbane della metropoli moderna documentandole con sequenze fotografiche.

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Ugo La Pietra, Gradi di Libertà

La ricerca di Superstudio, uno dei gruppi più importanti della Neoavanguardia, farà emergere una visione del concettuale ridotto al suo lato puramente simbolico puntando all’individuazione di procedimenti logico-simbolici in cui vengono reinterpretati alcuni caratteri del Minimalismo (anche se solo nella forma), della Land Art, intesa come esperienza intermedia tra la produzione-azione dei diversi tipi di comportamentismo povero e la ricerca linguistica pura delle correnti concettuali.
Nel “catalogo degli istogrammi” esiste un riferimento immediato alle opere di Sol LeWitt rappresentate attraverso un elenco sistematico di tutte le possibili combinazioni di patterns elementari all’applicazione di leggi di composizione prestabilite. Ma il gruppo fiorentino opera tra i patterns una scelta, limitando quindi i parametri di soluzioni formali possibili.
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Più in generale Superstudio crede fermamente nella riscoperta dell’architettura
come arte del progettare che riacquista pieno potere, ponendosi come unica alternativa alla Natura e alla Storia. Nel Monumento Continuo o nelle Dodici Città Ideali si rileggono gli ideali di una architettura vista come unica identità in grado realizzare un ordine cosmico.
Tutto ciò implica una radicale trasformazione della visione del mondo attraverso una dichiarazione forte ed estrema, contro una architettura completamente assorbita dalla logica del mercato, vista come semplice operazione edile, come sfruttamento incondizionato del territorio. Pensieri attualissimi che riscontrano, oggi come allora, consensi nelle innumerevoli pubblicazioni in ambito mondiale.
Parte della ricerca di Rem Koolhaas prende spunto da Superstudio con il quale lavora per un breve periodo di tempo a Firenze. Esistono delle incontrovertibili similitudini tra New New York di Superstudio del 1969 ed Exodus di Koolhaas del 1974, così come esistono delle affinità tra il suo modo di scomporre il progetto in layers e i diversi layers che caratterizzano la Città come Catena di Montaggio di Archizoom. Questi ultimi scoprono il significato della cultura architettonica attraverso operazioni compositive elementari e attraverso l’utilizzo di spazi neutri in cui vengono collocati oggetti facenti parte di un lessico familiare (modello borghese).
Tutto questo sottintende un utilizzo strettamente personale ed altamente raffinato del concetto di ironia. Negli anni Sessanta Peter Eisenmann conosce le opere di Superstudio, le analizza e le reinterpreta in chiave critica. Il giovane Arata Isozaki, così come Kisho Kurokawa del gruppo Metabolist (ha realizzato la famosa torre a capsule di Nakagin 1972) una volta venuti in Italia si recano dal Superstudio. Coop Himmelblau, Hans Hollein, Walter Pichler, scambiano opinioni e intenti con il Superstudio, leggibili attraverso il confronto tra le soluzioni architettoniche come la serie di Architettura riflessa di Superstudio e il Sitzgruben bei Breitenbrunn di Pichler (una serie di fosse cubiche in calcestruzzo modellate internamente a sedili) oppure la Grunde di Hollein (solchi nel terreno come tracce di carri in ambienti naturali).

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Superstudio, Monumento continuo, 1969

Nonostante queste prerogative promettenti che pongono in evidenza la riconoscibilità dell’architettura italiana a livello internazionale e l’indubbia validità sul piano culturale di esponenti come Superstudio e Archizoom, poco è stato realizzato dai diversi gruppi della Neovanguardia. L’innovazione non trova riscontro all’interno del mercato che non si adegua alle ricerche sperimentali neppure sul piano formale.
E così molti esponenti della Neoavanguardia sono costretti a ripiegare su altri settori disciplinari per trovare un concreto sostentamento. Gli Archizoom si dedicano a lavori di restauro e il Superstudio si dedica ad attività professionali per conto della Banca Toscana. Oggi, come allora, riconosciamo la validità del loro operato avendo come unica testimonianza le numerose pubblicazioni ed esposizioni che si sono succedute negli anni. Ancora una volta la Storia vista come ideologia del progettare prende il sopravvento sull’Utopia. L’architetto d’avanguardia risolve la propria crisi esistenziale solo tornando ad essere “artista”, unica esperienza per l’inserimento nel mercato.
Costretto a trasformarsi in produttore della “merce/arte” l’architetto abbandona la libera professione, per mettere da parte tutte quelle scorie ideologiche, antieconomiche per natura, che la committenza del mercato e della globalizzazione, da lungo tempo ha rifiutato e ancor oggi a distanza di tempo rifiuta.

Douglas Mortimer
è uno pseudonimo dietro il quale si riconosce un gruppo di persone che fa lavoro di ricerca. È puramente funzionale e non ha alcun valore politico né ideologico (crediamo poco al supposto appagamento di un lavoro collettivo). È solo un escamotage per risolvere il problema delle troppe firme per un libro che non ha ambizioni di esaustività e soprattutto di uniformità. Anzi la sua frammentarietà è molto spesso la spia di posizioni diverse e contrapposte degli stessi autori. Ma ci premeva fare un primo passo: riuscire a mettere insieme le nostre riflessioni su un periodo storico che riteniamo straordinario, forse irripetibile, per la nostra cultura.
Il libro “Douglas Mortimer, Quando Tutto era possibile 1960-1980: come l’Italia esporta cultura” è pubblicato dalla manifestolibri

La voce architettura qui pubblicata è stata scritta da Anna Rita Emili.