Davide Borsa_Cemento verde milanese

Cascina Cuccagna
Cascina Cuccagna, Milano, fotografia di Umberto Gillio

Quando si parla di cultura agricola, green economy, filiera corta e sviluppo ecosostenibile, è necessario mettere ben a fuoco il tema (“mitico”) del ritorno alla natura, tanto spesso abusato e declinato in una miriade di versioni più o meno colte, più o meno scientificamente plausibili, che vanno dal Mulino Bianco fino a Greenpeace e al bio-urbanism. E col proliferare di metafore verdi si fa un uso spietato di una controinformazione delegittimante che nasconde sotto manti verdi operazioni che di colore verde assumono solo quello dei soldi. Una astuta operazione di green marketing, dove gli argomenti degli oppositori, vengono apparentemente fatti propri per poi neutralizzarli nella mistificazione di un minestrone mediatico, dove i confini tra realtà e fiction, tra teoria e inganno sono confusi e sfumati, fino a non riconoscersi più. Quale operazione immobiliare non si è bagnata nella facile retorica del ritorno alla natura, dalla Milano Verde (del 1938) di Albini Gardella, Minoletti, Palanti, Predaval, Romano e Giuseppe Pagano, passando per la Bicocca gregottiana e il suo fantasmatico parco (senza dimenticare lo slancio del verde utopico di Gabetti e Isola), fino ai più recenti esperimenti di Santa Giulia e di City Life, per tacere del Bosco verticale di Boeri e del fantasmatico orto-giardino – ora superortomercato tecnologico delle delizie di EXPO, fino alla surreale fantaurbanistica neocorporativa del megaquartiere “sostenibile” della Cascina Merlata? La retorica del cemento verde confonde i nostri sogni di città ideale. Il fascino dell’utopia non contiene, oggi come allora, l’implicita promessa di un rinnovato e forse un po’ sfacciato richiamo all’et in arcadia ego pur di distogliere lo sguardo dalla terrificante medusa urbana?

La metafora verde è oggi sempre più sfacciata proprio in un contesto dove, come scrive ad esempio Antonio Angelillo, “Il consumo di suolo è il vero problema (1)”. Un consumo di suolo che è anche consumo di architettura, soprattutto di costruito storico, di micro e macro contesti geografico-ambientali, delle testimonianze superstiti dell’economia agricola, indiscriminato, indifferente a principi generali di disegno urbano. Lo sbrigativo lassez faire della sragione genera mostri: produce una babele di linguaggi incoerenti (e insostenibili) senza il conforto dello slancio poetico ed emotivo, lontani anche dalla sensibilità e dai bisogni pop, che ci racconta della perdita di valore dell’urbanitas e della sconfitta del principio del buon governo come condivisione del piacere e della gioia di vivere e di abitare, a un prezzo equo, in un contesto che sappia conciliare elegantiae pubblicae commoditati privatae (2) e contemporaneamente promuovere integrazione e condivisione.

Cascina Cuccagna
Cascina Cuccagna, Milano, fotografia di Umberto Gillio

La dissennata stagione dei grandi parcheggi-box interrati, che tanto scempio hanno fatto delle già provate, sopravvissute piazze milanesi, il prezzo altissimo pagato da delicati micro contesti urbani, che si sono visti sacrificare ora la dignità monumentale di brani di città, ora quella rappresentata dalla memoria del verde storico, se non spesso le due cose insieme, è culminata in quel vero e proprio monumento allo scempio urbano della Darsena, delegittimando quanto di buono fatto con i progetti per la valorizzazione dei navigli. Per tacere del futurista autoparcheggio della Basilica di S. Ambrogio: il maestoso cantus firmus degli officianti mescolato al patata-patata-patata del perno di biella dell’Harley Davidson!

Nessuna idea organica, neanche di mero decoro, ha avuto cittadinanza…Al rimorso per questi ignobili attentati al contesto è subito seguita una ridicola infezione di alberite, che contagia indiscriminatamente ogni cosa, dall’aiuola spartitraffico al Parco storico monumentale, seguendo i principi di una incipiente, incolta densificazione, di cui abbiamo peraltro già il primato storicamente consolidato di traffico e inquinamento. E’ la meneghina grottesca versione ortofloriculturale di terzo paesaggio e di giardino in movimento, in barba a Gilles Clement e al suo giardino planetario.
Per questo motivo, il progetto di conservazione e il riuso di un monumento “agricolo”, vox clamans in deserto, sacrario di esperienze e sapienze scampato e strappato alla speculazione e alla voracità del mercato immobiliare dalla volontà degli abitanti del suo quartiere, assume un valore simbolico. Appartiene a quella categoria di beni in pericolo facenti capo al repertorio-censimento delle “architetture lombarde dimenticate”, raccolte come exempla nei due esemplari regesti di «A-LETHEIA»(3) (1990-91), serbatoio della memoria di luoghi del paesaggio e di spazi del lavoro del lavoro e della trasformazione dell’ambiente lombardo, che rappresenta da una parte la testimonianza concreta di un paesaggio ormai inevitabilmente perduto e dall’altra l’esempio di una rivoluzione mancata nella gestione del patrimonio immobiliare in chiave anti speculativa e di riuso culturale del bene, da opporre alla logica puramente e biecamente commerciale che ha caratterizzato e caratterizza il panorama contemporaneo dell’offerta edilizia da più di venti anni. La deprimente omologazione culturale e la proliferazione e diffusione di svilenti cliques architettonici di cui sono complici scelte poco avvedute di una miope committenza con la complicità progettuale di “Archistar”, ottiene solo che l’inseguimento a buon mercato dell’esclusivo ricada spesso in pieno climaterio da stereotipo commerciale, richiamando alla memoria le ultime pagine intristite dei Maestri del moderno sopravvissuti a sé stessi. Si completa la legittimazione del cemento verde con un’opera massiccia di confusa propaganda culturale, rappresentata da astute operazioni di decontestualizzazione culturale attraverso il reimpiego acritico di teorie, come quella chic e trendy della densificazione e della classe creativa (4) di Richard Florida, già discusse (e superate) in contesti più maturi (5).

Questa insostenibile leggerezza impone la presentazione di modelli alternativi di sviluppo e crescita sostenibile, che rappresentino anche alternative progettuali, metodologiche, etiche (6), modelli di resistenza critica. Il cantiere Cuccagna (e il suo consorzio) ha tutte le carte in regola per essere un modello di riferimento e di buona pratica anche al di là del caso particolare, in linea con tendenze che stanno acquistando favore di critica e di pubblico in ambito internazionale come P2P urbanism e i movimenti ecologisti collegati a una nuova idea di rinnovamento sostenibile, etico-formale dell’architettura, al di là della prevalente tendenza formalista.

Cascina Cuccagna
Cascina Cuccagna, Milano

Il riciclo e il riuso (7) dell’architettura si inserisce quindi appieno nel più generale movimento di salvaguardia e tutela dell’identità, del territorio e dei procedimenti virtuosi delle pratiche di progetto che prevedono un impatto di minore consumo del suolo e contribuiscono a una maggiore consapevolezza del valore sociale dell’architettura, oltre che aprirsi alla possibilità e all’apprezzamento dei suoi intrinseci valori, non solo estetici, di testimonianza di cultura materiale. Lontano da ogni semplificazione formalista, proprio il contatto con il palinsesto fa scattare l’imaginerie poetica. E’ il frutto di proprietà intenzionali e impersonali, date dalla intersezione tra il sistema dei materiali più lavoro dell’uomo, più lavoro del tempo. E’ la scommessa del progetto di conservazione (e del restauro conservativo) riuscire a fissare e mantenere in delicato equilibrio le ragioni e le funzioni d’uso con lo stato dell’autenticità materiale, di conciliare il progetto di ieri con il progetto dell’oggi, e dunque adempiere a una funzione di riciclo, di riuso dell’architettura ponendo le basi per comprendere meglio cosa siamo diventati oggi, attraverso il rivissuto del passato, l’esperienza di ieri. Questo è il racconto, il romanzo popolare che la Cascina-museo ci tramanda.

[Davide Borsa]

(1)A. Angelillo, Non alberi, ma buone opere pubbliche, in Inchiesta: la Milano che cambia, in Il Giornale dell’Architettura, n. 91, febbraio 2011,Umberto Allemandi, Torino: “Ma il consumo di suolo è il vero problema per Milano. La sua disponibilità e la sua qualità si sono sensibilmente ridotte negli ultimi anni a causa delle dinamiche immobiliari che hanno privilegiato per ora le zone industriali dismesse e i terreni “di ritaglio” posti a corona del centro. Raramente la realizzazione dei nuovi quartieri, opera di privati, si accompagna al disegno di spazi aperti, pensati in funzione delle connessioni urbane che avrebbero reso le nuove periferie parte integrante della città, magari attraverso una robusta rete di piste ciclabili di cui, a dir il vero, si rileva in città l’assenza pressoché totale. L’aumento di superfici impermeabili, che corrisponde spesso ad un numero sempre crescente di piani sotterranei, ha ridotto le capacità di drenaggio per ettaro e con tutta probabilità modificato l’assetto delle falde in alcune zone della città. Il suolo che non si può immediatamente consumare rimane lì, in attesa. Con la quasi totale dismissione delle attività industriali e agricole, i campi incolti, le antiche cave di ghiaia, le aree produttive, i piazzali e i depositi abbandonati sono spazi adibiti a funzioni marginali, a discariche abusive, ad attività dubbie. […] In questo specifico contesto culturale, nel quale è facile confondere la dimensione ambientale e paesaggistica con la semplice “presenza di alberi”, più si allontana nel tempo la soluzione strutturale più fanno presa proposte utopiche e populiste che trovano spesso una cinica concretezza nel mondo della comunicazione..
(2)Vedi G. Consonni, La mancata difesa di Milano, Befagor, n IV luglio 2010 p. 390-399.
(3)Si veda M. Dezzi Bardeschi, A-LETHEIA n. 1, Ricerche sulle architetture lombarde dimenticate, a c. di Gabriella Guarisco, Alinea, Firenze, 1990, e M . Dezzi Bardeschi, F. Tartaglia, A-LETHEIA n. 2, Architetture lombarde dimenticate: studi per il riuso, a c. di Gabriella Guarisco, Alinea Firenze 1991.
(4)R. Florida The Rise of the Creative Class. And How It’s Transforming Work, Leisure and Everyday Life, 2002. Basic Books, e Cities and the Creative Class, 2005. Routledge.
(5)Vedi D. Borsa, G. D’Amia, Il fiordo di Oslo. Un laboratorio europeo di trasformazione urbana, in Territorio, 56, Franco Angeli, 2011, p. 138-140.
(6)In sintonia con un ritorno del concetto olivettiano di Comunità: “Il concetto di comunità propone un modo di stare insieme tra le persone in cui le relazioni hanno un notevole peso e, fra queste, soprattutto le relazioni di tipo non-utilitaristico. Fare comunità è un modo di intendere il proprio vivere in una società più attenta al valore della persona umana in sé ed alla relazione inter-umana. Una società meno segnata dalla frammentazione e scomposizione degli ambiti di vita individuale e collettiva. Un luogo umano nel quale la crescita e l’identità individuali possono realizzarsi attraverso processi di cooperazione e non di contrapposizione.” Vedi Linee guida del progetto cascina Roccafranca, http://www.comune.torino.it/urban2/cascinaroccafranca/progetto.html.
(7)Vedi M. Dezzi Bardeschi, “Il ri-uso necessario”, in «A-LETHEIA», n 2, p. 2

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