Emanuele Piccardo_Biennale 2010

Andrea Branzi

Andrea Branzi, Per una nuova Carta d’Atene

La gente non s’incontra nell’architettura

Ogni due anni si ripete il rito della Biennale di Architettura di Venezia, nel 2010 viene scelto come direttore la giapponese Kazuyo Sejima, progettista affermata, le cui opere ben coniugano il minimalismo giapponese con il recupero linguistico del movimento moderno. La visita alla biennale veneziana ha confermato, semmai ce ne fosse bisogno, alcuni punti fermi:l’opera e il pensiero teorico di Rem Koolhaas/OMA e la proposta per una nuova carta d’Atene di Andrea Branzi, architetto e designer radicale. Koolhaas presenta il tema della conservazione delle architetture del secolo scorso. Una stanza è allestita con pomelli, fotografie e dipinti ritrovati durante il progetto di restauro dell’Haus der Kunst di Monaco mentre, nello spazio attiguo, mette in scena, attraverso un’installazione di manifesti, le cause che determinano l’abbandono delle architetture moderne nelle città. “Il senso del dovere (e nostalgia)-scrive Koolhaas-verso la storia aumenta in maniera esponenziale-e, in misura crescente “tutto” deve essere correttamente conservato-la vera conoscenza e la profondità della nostra memoria diminuiscono. Come risultato, molti dei principali edifici del XX secolo sono in pericolo, solitamente per ragioni politiche”. Cosa và conservato e con quale criterio? Nella sua analisi Koolhaas mette al centro l’assenza di una progettualità politica nella conservazione di importanti architetture che hanno determinato l’evoluzione della società, definendo la sua idea di conservazione attraverso i progetti da lui realizzati in trentacinque anni di attività. Per essere la nazione del restauro una provocatoria lezione che dovrebbe far riflettere gli architetti nostrani.
Con altre modalità, ma avendo come mainstream la città, Andrea Branzi propone una nuova carta di Atene(quella “vecchia” pensata da Le Corbusier nel 1933 proponeva un modello per interpretare la città industriale divisa per funzioni) basata su un “modello debole di urbanizzazione” che consente di “interpretare le condizioni sociali e funzionali del XXI secolo”. Una città del presente i cui confini non esistono e le rigidità delle funzioni spariscono per essere ripensate continuamente, seguendo le esigenze e i cambiamenti dei suoi abitanti. Questo manifesto teorico non sorprende essendo prodotto da un architetto, Branzi, che negli anni sessanta aveva elaborato con il gruppo Archizoom la No Stop City, di cui la Nuova Carta di Atene rappresenta la sua attualizzazione.
I due manifesti politici di Koolhaas e Branzi mettono in evidenza la confusione teorica di Sejima che non riesce a predisporre una mostra coerente con il titolo “People meet in Architecture”. La kermesse veneziana è luogo di incontri per ritrovare amici, stabilire alleanze, rinforzare quei legami di potere tra lobby di critici, architetti, politici in cui il fruitore dell’architettura è tenuto in disparte, inglobato in linguaggi e modalità espositive di difficile comunicazione, aperte a un dibattito sterile tra specialisti. Più volte si è sottolineato l’inutilità della Biennale così strutturata dove il fascino del titolo e la scelta del direttore sono considerate prioritarie rispetto alla presenza di un progetto culturale che, oggi, rimane assente. L’architettura, che storicamente si pone l’obiettivo di migliorare le condizioni di vita dell’uomo, appare un fenomeno per pochi eletti. Nonostante la crisi del mercato immobiliare che ha determinato nella società profonde lacerazioni, nonostante il fenomeno dei terremoti, dall’Aquila al Cile,passando per Haiti, l’architettura in mostra a Venezia non riflette sulla risoluzione di problematiche quali le catastrofi naturali, le baraccopoli, l’accesso alle residenze pubbliche…
Alcune eccezioni sono presenti nei padiglioni nazionali, sicuramente più attenti a definire un progetto culturale, sia esso la promozione dell’architettura locale , sia la comunicazione di uno scenario urbano futuro. Il display dell’esposizione internazionale dimostra tutti i suoi limiti teorici nel mischiare installazioni pseudo-artistiche con riflessioni più approfondite di cui è protagonista Francois Roche/R&Sie(n) con il progetto Isobiotope. L’architetto francese affronta l’ignoto come nella stanza dei desideri di Stalker (Tarkovskij) “un luogo a cui si accede-afferma Roche- dopo aver attraversato un territorio in cui gli dei si sono scontrati con l’umanità-ancora non sappiamo chi abbia vinto quella battaglia. La tregua è instabile…Alla fine del viaggio-continua-incombe questa stanza dei desideri dove l’architettura è il punto d’incontro”.
L’assenza dell’architettura come punto d’incontro con la società consente ad altre figure di far dialogare gli spazi e le persone. E’il caso di Wim Wenders che esplora, con un video in 3D, il Rolex Center ennesima opera di Sejima presente in mostra. Allo stesso modo la presenza delle architetture di Lina Bo Bardi, architetto romano che ha costruito per il popolo brasiliano, non riescono a salvare la Biennale.

[Emanuele Piccardo]