Luigi Manzione_Greenwich Peninsula

Londra

“Leggere una storia, è concedere una fede provvisoria a un passato che chiede di essere creduto sulla parola”.

Jean Starobinski, Prefazione a Italo Calvino, Romanzi e racconti, I, Milano, Mondadori, 2003.

La mappa di Londra sta per essere profondamente ridisegnata nella prima delle tre anse più sinuose del Tamigi – ad est dei Docklands – da uno dei più importanti progetti europei di rigenerazione urbana: Greenwich Peninsula. Una delle più grandi aree londinesi di sviluppo urbano, la Peninsula è diventata marginale nella geografia della capitale britannica a partire dagli anni ’80, eppure collocata in posizione strategica nel contesto della “Greater London”. Essa figura tra le tredici “opportunity areas” dell’East London nel London Plan del 2004, oltre che tra le aree di rilevanza nazionale (e globale) del Thames Gateway. Prima della industrializzazione era una zona malarica.
All’inizio dell’Ottocento si trasforma in uno dei maggiori distretti produttivi dell’est londinese (carbone, cemento, catrame). Dagli anni ’80 dell’Ottocento vi si impiantano i gasometri (South Metropolitan’s East Greenwich Gas Works), con una superficie fra le più estese in Europa. Il paesaggio industriale dei “gasworks” della British Gas domina l’area per circa un secolo, fino alla dismissione avvenuta tra il 1985 e il 1996, lasciando in eredità un vuoto urbano contaminato e derelitto, dalle forti potenzialità di sviluppo economico e turistico.(1)

Ha allora inizio un programma di bonifica ambientale di vaste proporzioni, durato quattro anni, per eliminare 27.000 tonnellate di catrame, perseguendo processi sostenibili, con la rimozione dello strato superficiale del suolo e la sostituzione con terreno di riporto. Ad esso si affianca un altrettanto ambizioso progetto di rigenerazione urbana su un’area di circa 121 ettari, modulato su un intervallo temporale di 15-20 anni. L’elaborazione è affidata ad una équipe multidisciplinare, incaricata di disegnare un master plan dell’insieme della Peninsula, nell’intento di fare della esposizione temporanea – che si sarebbe tenuta nel 2000 – il punto di partenza del processo di riqualificazione urbana. L’ambizione del progetto traspare già dai soli numeri: 10.000 nuovi alloggi, 28.000 abitanti da insediare; 24.000 posti di lavoro da creare entro il 2015 in quello che, fino a qualche anno prima, non era altro che un “brownfield site”.

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Il programma ha origine quindi dal Millennium Dome (poi denominato The 02 Arena): landmark del paesaggio urbano londinese progettato nel 1999 da Richard Rogers ed aperto al pubblico nel 2001, a cui si deve l’impulso alla rigenerazione dell’area, con la dotazione iniziale di infrastrutture di trasporto di qualità. Nel 1997 English Partnership (agenzia nazionale di rigenerazione urbana) acquisisce l’area dismessa di Greenwich Peninsula, investendo più di 225 milioni di sterline per la riconversione del sito (rete di comunicazioni, alloggi, attrezzature pubbliche e spazi commerciali, parchi lungo il Tamigi).
Il primo masterplan elaborato da Richard Rogers definisce i tratti di un’operazione che intende diventare, alla scala europea, il principale modello di sviluppo sostenibile in ambito urbano.(2)

Nello stesso anno, Ralph Erskine vince il concorso per il Greenwich Millennium Village (circa 29 ettari) e per la realizzazione di 1.080 alloggi. Nel progetto (Erskine, Tovatt Architects) sono previsti, oltre agli edifici residenziali, un centro comunitario, una scuola elementare, un asilo, un centro benessere, negozi, ristoranti, bar, uffici, aree di gioco e tempo libero.

Da penisola a “quasi isola”

Con una iniziale configurazione di “villaggio ecosostenibile” che, come vedremo, strutturerà i discorsi dei developers di Greenwich Peninsula, si disegna un sistema di tre parchi dai caratteri differenziati – Southern Park (Nicholas Pearson Ass.), Ecology Park (Desvigne&Dalnoky, con Erskine) e Central Park (Desvigne&Dalnoky) – occupanti circa un sesto della superficie complessiva del sito, a formare un grande polmone verde per la bonifica del suolo e la rigenerazione atmosferica. Dopo l’apertura del Millennium Dome ha inizio la ricerca di un developer per la rigenerazione dell’area, individuato poi in Meridian Delta Ltd, partner di English Partnership. A Meridian Delta viene affidata la seconda fase del processo: la trasformazione del sito di circa 77 ettari intorno a The 02 Arena, la zona settentrionale e centrale della Peninsula, sulla base di un masterplan elaborato da Terry Farrell&Partners, con la previsione di venti ettari di parco e spazi aperti, 10.000 alloggi (di cui il 38% di “affordable housing” per utenti a basso reddito), due chilometri e mezzo di lungofiume recuperati e valorizzati secondo un disegno volto alla formazione di un “nuovo vibrante distretto urbano”.

Il piano di Farrell&P. vuole essere la risposta urbana alla geometria del Millennium Dome e alla forma curvilinea della Peninsula, con la disposizione di un reticolo di strade, piazze e parchi lungo linee di connessione in senso nord-sud, con strade parallele a The 02. Già dalle prime battute, il tema della sostenibilità appare il nodo principale dell’intero programma alla base della creazione di un urban village/econeighbourhood: ci si affida infatti alla utilizzazione di elementi costruttivi a basso impatto ambientale, riciclabili, prefabbricati e assemblati a secco (con notevole riduzione di scarti di cantiere, costi e difetti di costruzione). Il riciclo di anidride carbonica (“zero CO2”) prevede, in particolare, l’uso di impianti di cogenerazione che utilizzano la biomassa proveniente dagli scarti organici delle abitazioni e degli alberi dei parchi. Altro tema fondamentale è la mixité, di attività e spazi (pubblici e privati), di abitanti e fruitori, con l’obiettivo di costruire un quartiere a vocazione polivalente, con uffici e commercio nella zona centrale degli affari, intorno alla stazione del metro di North Greenwich, in prolungamento della linea “Jubilee” che ha reintrodotto Greenwich Peninsula in posizione strategica alla scala metropolitana, accelerandone il processo di riqualificazione. Le attività commerciali e industriali di maggiore impatto verranno dislocate alla periferia sud del sito, in prossimità del grande asse viario A102M, verso il Blackwall Tunnel. Definiti gli orientamenti principali dell’intervento, il master plan si articola intorno ad uno spazio pubblico, di lunghezza pari a circa 2 km, e al citato sistema dei parchi. Tale armatura pubblica occupa, come si è detto, circa un sesto della superficie complessiva del sito, estendendosi da nord a sud e contenendo al suo interno le principali strade pedonali e carrabili, con vedute spettacolari sul Tamigi, Canary Wharf e la Thames Barrier.
Il progetto delle zone residenziali evidenzia una chiara filiazione dal modello della casa londinese con giardino, non senza una certa “mistica del neighbourhood”, di cui diremo più avanti. Quel modello appare declinato sul versante ecosostenibile, con la prefigurazione di tipologie a corte permeabile e con attenzione verso i fattori bioclimatici (soleggiamento, ventilazione, energia solare passiva, riscaldamento a ciclo combinato, etc.).

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Dotate di negozi, scuole ed edifici pubblici, le residenze si dispongono intorno agli spazi pubblici così da ottenere una densità costruita in grado di sostenere una efficace rete di trasporti collettivi. Obiettivo prioritario è proprio la minimizzazione del ricorso al trasporto privato: un fitto reticolo di percorsi ciclopedonali si distende a collegare l’area con i diversi servizi e comunità residenti. Ad esso si affianca un centro intermodale con sei linee di autobus, la stazione del metro di North Greenwich (progettata da Will Alsop nel 1999, per una fruizione oraria di 22.000 persone) e la bus station di Norman Foster&Partners, da cui si raggiunge il centro di Londra in 25 minuti. Il trasporto pubblico si pone come l’elemento chiave della trasformazione e della vita futura dell’area: una delle più perfomanti reti di trasporto integrato della capitale britannica è stata quindi messa in campo per servire questo nuovo “pezzo” di città che si vuole verde e, insieme, denso. Una densità sostenuta nelle aree considerate strategiche per lo sviluppo di Londra – come il Thames Gateway – sembra essenziale per costituire la massa critica atta a legittimare un’offerta consistente di infrastrutture di trasporto e di servizi, in contrapposizione alla urbanizzazione dispersa che ne connota, tradizionalmente, la periferia.

Il tema della densità, al centro del dibattito teorico europeo degli ultimi anni, si declina qui in stretta connessione con quello della sostenibilità, con un approccio alla costruzione della città improntato in primo luogo al rispetto delle risorse naturali e paesaggistiche, alla ricerca di soluzioni “comprensive” ai problemi urbani, capaci di mediare tra istanze sociali, economiche e ambientali. Nel complesso, il progetto mira a dare forma ad ambiti urbani distinti e dai caratteri specifici, con quattro nuovi quartieri residenziali, un distretto terziario e commerciale intorno al polo di interscambio dei trasporti pubblici, cinque parcheggi e dodici squares. La filosofia che sorregge il master plan è riassumibile, da un lato, nella ricerca di un equilibrio tra “landmark architecture and sustainable design”; dall’altro, nella dimostrazione dell’assunto che una forte biodiversità non è incompatibile con un’alta densità. È interessante vedere come viene perseguita questa filosofia: mediante quali strategie, insiemi di opzioni e decisioni, obiettivi, modalità di comunicazione e promozione.(3)

Il “racconto di un successo”

“Il senso di un’analisi dell’esperienza urbanistica (…) è comprensibile solo se è chiaramente indicato il luogo dal quale la stessa esperienza viene osservata. Esso non può essere sottaciuto o lasciato indeterminato.”

Bernardo Secchi, Il racconto urbanistico, Torino, Einaudi, 1984.

All’inizio del terzo millennio, Londra ha lanciato una grande sfida a reinventarsi come modello di città sostenibile quale antidoto alla congestione, alla povertà, alla disoccupazione e alla esclusione sociale. Secondo Richard Rogers, consulente dell’ex mayor Ken Livingstone e principale ispiratore della riqualificazione della Peninsula nell’ambito della visione strategica dell’Urban Task Force, la sostenibilità è implicita nella “biografia” stessa della città, nel suo sostanziale policentrismo, nei caratteri del tessuto urbano formato da una rete di centri locali, addensamenti strutturati lungo le arterie radiali e affiancati da grandi parchi.(4) Per scongiurare il pericolo di dar vita a nuove parti di città ghettizzata, si ricorre all’idea della “mixed-use city”, con una dosata commistione di usi e popolazione insediata, in modo da riprodurre la compresenza di diversi strati sociali ed attività, che è peraltro uno dei tratti peculiari della città nella storia. In particolare, nel Thames Gateway si individua l’insieme delle aree su cui operare il riequilibrio in chiave sostenibile di Londra, con una forte attenzione verso la qualità dello spazio pubblico e delle infrastrutture di trasporto.

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Quella che viene definita come una vetrina di “buone pratiche”, nonché progetto di punta del governo New Labour, vuole porsi anche come modello di riferimento per il futuro, elaborato nel quadro delle politiche avviate nel 1997 dal governo laburista per lo sviluppo urbano sostenibile: sei “Millennium Communities” sono infatti in corso di realizzazione in Gran Bretagna (Manchester, Leeds, King’s Lynn, Milton Keynes, Telford, Hastings). Ma da dove ha origine la Greenwich Peninsula del XXI secolo? Quale rapporto intrattiene con la storia e la biografia del luogo? Non è casuale, come vedremo, che l’area appariva a Brian Roberts, “operation manager” di English Partnership, come “la superficie della luna” più che una parte di Londra.v Un sito derelitto da trasformare in un ambiente “moderno, pulito e sicuro”. Può stupire, invece, che il processo di rigenerazione – definito come “olistico” e sostenuto da un dichiarato “ethos of sustainability” – abbia avuto il proprio punto di avvio in una radicale azione di bonifica del sito, con la rimozione integrale delle tracce materiali (e simboliche) della memoria industriale, tanto da voler inscrivere una nuova parte urbana sul fondo levigato della tabula rasa di un “sanitized landscape”, più che sul palinsensto stratificato della città.

Da questo punto di vista, la riqualificazione della Peninsula mostra alcune analogie con la costruzione di Paris Rive Gauche, l’area intorno alla Bibliothèque Nationale, che si ripropone come “nuovo quartiere latino” della capitale francese. Anche nel caso della “zone d’aménagement concerté” di Parigi, la memoria industriale e infrastrutturale viene rimossa, celata allo sguardo in quanto ritenuta incompatibile con le logiche di riabilitazione urbana, in particolare con la logica di “continuazione” della città storica – sul modello di un nuovo haussmannismo – in un’area storicamente periferica, ma geograficamente interna alla città consolidata. Analogamente, a Londra si recupera un modello nazionale – del vicinato e della garden city – per attualizzarlo nella chiave dell’ecosviluppo e reinventarlo nella “comunità sostenibile”, con la riduzione del consumo di risorse non rinnovabili, la tutela del patrimonio locale, la promozione della partecipazione e dell’inclusione sociale, la cura verso la qualità del progetto degli edifici e degli spazi urbani.

Il processo di riconversione e riqualificazione di Greenwich Peninsula è infatti caratterizzato, come si è visto, dalla centralità dei temi della sostenibilità ambientale e della mixité, più che dal ricorso ad una modellistica di trasformazione morfologica e tipologica della città compatta. In questo senso costituisce un esempio emblematico delle politiche urbane degli anni ’90, orientate su una visione globale (strategica) della città, attenta ai temi ambientali e socio economici.(6) Non sono mancate tuttavia analisi critiche delle esperienze degli anni ’90, in particolare degli urban villages. In uno studio coordinato da Mike Biddulph si rileva un notevole scarto tra le intenzioni di piano e i risultati conseguiti, spesso indeboliti dalla necessità di adeguare gli obiettivi e le scelte ai tessuti urbani preesistenti. Si sottolinea, in particolare, che l’urban village è ancora una “costruzione mentale”, se non una proiezione immaginaria, più che un modello realmente operativo, nel quale la sostenibilità può ridursi alla facciata di una più o meno efficace azione di marketing.(7) Nello specifico, “il progetto di riqualificazione della penisola di Greenwich illustra il fragile equilibrio implicito nell’articolazione tra la pianificazione strategica, la presa in conto degli interessi delle comunità locali e la redditività dei promotori partners in un contesto di città globale.” (8)

A più di dieci anni dall’inizio della sua attuazione, è possibile tentare una lettura della complessa operazione urbana a partire dal “discorso” ad essa sotteso. Si è insistito molto nei testi ufficiali nel presentarlo come un processo di rinascita: da “terra contaminata” a “villaggio ecologico”. Cerchiamo allora di capire se e lungo quali direzioni questa palingenesi si sta compiendo. Nelle pubblicazioni che promuovono Greenwich Peninsula nei termini di una comunità sostenibile si descrive, in sostanza, il “racconto di un successo”, la costruzione di “un posto speciale per vivere, lavorare, divertirsi”, “uno dei più moderni ed eccitanti quartieri della capitale”. È proprio questo racconto che qui vorremmo indagare. Provare a leggerlo per rilevare ciò che risiede nelle pieghe del detto e del non-detto; ciò che dal nostro punto di osservazione fa sì che tale racconto transiti tra discorso e storia, ed in questa transizione acquisti un senso, nel concatenarsi di immagini, descrizioni, enunciati.

Anche nel caso di Greenwich Peninsula, il racconto – tessuto sulla trama dominante della doppia retorica della “città sostenibile” e della “città umanistica” (9) – si struttura nelle due sequenze essenziali del peggioramento e del miglioramento.(10)Nella prima sequenza, alcuni elementi vengono connessi reciprocamente per descrivere un processo che occorre invertire. È ciò che, in altri termini e in riferimento ad un approccio anglosassone di medicalizzazione urbana, è stato concettualizzato nella sequenza malattia-diagnosi-terapia.(11) Una serie di immagini viene evocata per descrivere la “malattia”: “a derelict brownfield site”, “a ghost area”, etc. Nell’ambito della retorica della sostenibilità – ma anche della sicurezza e (di una certa) mixité – si individuano poi i parametri in base ai quali invertire la “sequenza del peggioramento”, connotata in particolare da una situazione di disordine, incoerenza, assenza di significati, segregazione spaziale, esclusione, perifericità (in senso lato e letterale).

Per utilizzare una metafora mutuata da Françoise Choay, il processo di miglioramento per la Peninsula viene delineato nel senso della “regola” più che del “modello” (12), lungo un fascio di nuclei tematici in cui si riassume l’azione di rigenerazione perseguita dai progetti urbanistici, relativi alle criticità da superare, ai mezzi e alle strategie per operarne la rigenerazione. Tra i temi prevalenti: comunità socialmente e ambientalmente sostenibile, sicurezza, benessere, successo, ma anche, come vedremo, nuove forme di controllo del corpo e di accesso alla fruizione dell’area.
Queste tematizzazioni, e le modalità della loro interconnessione ed utilizzazione come strumenti per la riqualificazione di Greenwich Peninsula, aiutano a rilevare in filigrana le relazioni che i diversi soggetti, attori, gruppi sociali e di interesse intrattengono con la città, attraverso il filtro dell’immaginario collettivo. Dal groviglio di tali temi è possibile ricostruire, non senza fatica, un sistema (o più sistemi) di rappresentazioni, con il relativo background di bisogni, desideri, discorsi, simboli, voci di domanda sociale, rivendicazioni economiche, intenti di controllo del territorio, rielaborazione/riproposizione di memorie e identità. Non si tratta, naturalmente, di ricomporre qui un quadro di elementi astratti, ma piuttosto di localizzarli (anche solo in maniera sommaria) in una mappa, materiale e mentale. Si tratta cioè di tracciare le linee del “processo urbano”(13) – nello specifico della rigenerazione di una grande area dismessa all’interno di una città globale – come produzione di scenari fisici e socioeconomici, di flussi di capitali e risorse, di modalità di pensiero e di azione dell’homo urbanus.(14)

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Per fare ciò sarà utile distinguere, nella prospettiva indicata da Michel De Certeau, tra i due piani delle “strategie” e delle “tattiche”.(15)Tra i due punti di stazione dello sguardo sulla città e sulle infinite traiettorie del suo farsi: la visione dall’alto del decisore (planner o politico) – assoluta e virtualmente perfetta, relativa in prevalenza al livello strategico – orientata su un luogo che può essere circoscritto come un dominio specifico (“propre”), e la visione dal basso dell’abitante – terrena e “astuta”, relativa soprattutto al livello tattico, quello delle “ruses” – esercitata ad altezza d’occhio (e di piede) di chi vive e percorre la città al quotidiano, su un luogo che per definizione è im-proprio (ossia dell’altro) (16). Forse, più che sul versante degli enunciati teorici o programmatici è proprio nel quotidiano che i racconti dei planners possono essere letti in uno strato più profondo, provocando talvolta, e su certi specifici aspetti, un cortocircuito (nelle messe in scena istituzionali), propizio al formarsi di altre letture e interpretazioni. A partire dai segni delle pratiche dell’”uomo ordinario”, dalle modalità di (ri)-appropriazione dello spazio urbano, esplorato, percepito e vissuto negli interstizi delle sue geografie pragmatiche, prima ancora che in un’astratta proiezione cartografica o discorsiva.

Walking on the rim

“Esplorare il mondo è uno dei modi migliori per indagare la mente, e il camminare percorre entrambi i terreni.”

Rebecca Solnit, Storia del camminare, Milano, Bruno Mondadori, 2002 (2000).

Su Greenwich Pensinsula si è costruito, e si sta costruendo, un racconto polisemico disponibile ad accogliere diverse possibilità (e strati) di interpretazione. Una lettura di notevole interesse è quella proposta da Paolo Cardullo in Walking on the Rim (17), una prospezione nel paesaggio “spaziale, simbolico, affettivo” di Greenwich Peninsula, con un’attenzione prevalentemente visuale. La ricerca si snoda infatti sul doppio registro dell’immagine fotografica e della descrizione/interpretazione. Ricollegandosi alla “non-representational theory” di Nigel Thrift (18), l’intento vuole essere – nelle parole dell’autore – di “descrivere, senza offrire soluzioni o verità. Un progetto di ‘realismo critico’, con radici documentaristiche, ma senza essenzialismi; attento alla dimensione estetica e all’importanza dal detournment, senza però cadere in una prospettiva di ‘fine art’, in cui la demisticazione dei significati e dei segni diventa fine a se stessa”.

Senza uscire dal pattern interpretativo indicato nel paragrafo precedente, Walking on the Rim può essere vista come una delle possibili letture dello schema peggioramento-miglioramento (senza alcun giudizio di valore o indicazione politica esplicita). Lo studio intende indagare su come il discorso urbano su Greenwich Peninsula sia stato “costruito, implementato e mantenuto”, facendo riferimento al meccanismo della “doppia astrazione” teorizzato da Henri Lefebvre (19), per comprendere le modalità nelle quali si forma una sorta di “topografia immaginaria” della città. Nel solco della ricerca del Centre for Urban and Community Research, l’analisi di Paolo Cardullo si focalizza sul discorso con cui si è accompagnato (e giustificato) il processo di rigenerazione di Greenwich Peninsula, discorso elaborato dai developers lungo le direttrici di una “geografia simbolica e pedagogica” composta sul registro dominante della comunità sostenibile. La sequenza peggioramento-miglioramento si declina allora in una serie di opposizioni: “achievement against poverty”, “sustainability against externalities”, “artificial country-scape against ‘geography of emptiness’”.

È un “racconto di abiezione”, nella tradizione londinese di Charles Dickens, se vogliamo, prima ancora che delle inchieste di Charles Booth. Esso è rivolto, per un verso, al perseguimento della riqualificazione come scenario simbolico destinato ad attrarre in primo luogo abitanti della middle-class (rispecchiandone la mentalità e la cultura nella morfologia stessa dell’area rigenerata, e nel sistema dei segni che la contraddistingue); per l’altro, alla formazione di un paesaggio altrettanto simbolico in quanto emblema della sostenibilità (sociale e ambientale), che si oppone all’originario paesaggio industriale in un’antitesi tra alcune categorie (o stati della sequenza): artificiale-naturale, sporco-pulito, insicuro-sicuro, etc.

L’interrogazione di fondo è, quindi, come sia possibile esplorare le trasformazioni urbanistiche in atto nell’area riguardandole come pratiche culturali. Su quali fondamenti poggia la sostenibilità ambientale e sociale? Quale ricezione trova il discorso dei developers nella vita quotidiana degli abitanti della Peninsula, in particolare nella middle-class? Qual è il risvolto della medaglia del nuovo ecosviluppo urbano (in termini di gentrification, trasferimento di persone e attività, etc.)? A queste domande Walking on the Rim tenta di rispondere attraverso un intreccio di riflessioni e di ricerca fotografica radicale – un racconto nel racconto – generando a sua volta altri interrogativi. Tra gli altri: quale gentrification e per quali soggetti? Quale spazio pubblico e per quali fruitori? Quale sicurezza e per chi; in quali zone della Peninsula, in quali ore del giorno e della notte; e, soprattutto, a che prezzo? Viene così rilevato il carattere selettivo e orientato della gentrification, rivolta ad un soggetto-destinatario preciso: di preferenza bianco, di sesso femminile, acculturato, con una più o meno esplicita esclusione di soggetti “critici” (tipo ragazze madri o disoccupate). Questo discorso sessuato confluisce nel tema della femminilità e del suo embodiment, con una relativa retorica del corpo in termini di successo e di realizzazione personale, non senza contraddizioni con la mistica parallela del villaggio e del vicinato, pure agitata nei discorsi dei planners di Greenwich Peninsula.

Ritornando a Michel De Certeau, appare allora evidente la distanza, o almeno la divergenza, tra la nozione di spazio (pubblico e privato) immaginata dai developers e quella ricostruita, ricomposta e plasmata dell’abitante e del visitatore (più o meno critico), specie in ordine alle modalità di controllo, sicurezza, benessere. La percezione del “pubblico” diviene quindi variabile, incerta, relativa (ad una pluralità di fattori socioeconomici, temporali, evenemenziali). L’idea stessa di comunità si dissolve in un’immagine sfocata, minutamente ritagliata in frantumi ormai privi di intelligibilità. Lo spazio pubblico si confonde sempre più, e sempre più spesso, nel dominio dello spettacolare, dell’evento singolare, della sovversione effimera e inoffensiva del quotidiano, facendosi per un attimo luogo di espressione della “società dello spettacolo”, ed inverando concretamente la profezia di Guy Debord. (20) Greenwich Peninsula diventa così una “Private land. Managed, Policed. (…) A landmark of appropriation. Neoliberal monument of incoming gentrification.” (21)

L’insostenibile leggerezza della sostenibilità

“La subversion la plus profonde (…) ne consiste pas forcément à dire ce qui choque l’opinion, la morale, la loi, la police, mais à inventer un discours paradoxal.”

Roland Barthes, Sade, Fourier, Loyola, Paris, Seuil, 2001 (1971).

A questo punto, Walking on the Rim solleva l’interrogativo cruciale: “quanto è sostenibile la sostenibilità?” Al di là dell’accezione condivisa di rispetto delle risorse e dell’ambiente per le generazioni future, sembra possibile individuare nell’uso (politico ed urbanistico) della sostenibilità un elemento di differenziazione – anzitutto tra le azioni e i soggetti che sono legittimati ad essere sostenibili – sul sottofondo di un metadiscorso che contrappone, ancora una volta, certi modelli di esistenza e di città. In particolare, nel modello adottato per Greenwinch Peninsula – il villaggio-comunità – si cerca di far convivere, tra non poche contraddizioni, il progetto di una esistenza ricca, salutare, equilibrata (mediatizzata peraltro con un repertorio di immagini e parole di indubbia efficacia) con la reinvenzione di una serie di dispositivi (nel senso foucaultiano) per garantire la sicurezza e il controllo degli individui, dei corpi, degli spazi. (22) Sembra che, in definitiva, il prezzo da pagare per assicurarsi un’esistenza di quel genere sia proprio la definizione di limiti, di recinti materiali e simbolici. E non è un caso che i soggetti prevalenti nei discorsi dei developers siano proprio coloro che possono accedere, di fatto, alla proprietà dei nuovi alloggi di Greenwich Peninsula, i quali diventano così – realmente, e non solo in quei discorsi – i nuovi “cittadini sostenibili”. Questa strategia mette in luce il carattere di formazione culturale della sostenibilità, evidenziando l’intento ad essa sotteso di creare un’identità tra ciò che il cittadino sostenibile concepisce come suo ideale di benessere e la materializzazione di tale benessere nei progetti e nei piani urbanistici. Un’altra forma di embodiment, insomma…

Sebbene sia difficile definire con precisione, in termini economici, i limiti della gentrification e i paradossi della mixité (23), è possibile tentare di ritracciare sulla mappa della Peninsula un “nitido geographical divide nel senso di un territorio chiaramente delimitato” (24), la cui chiusura è ulteriormente rafforzata dal “margine fisico” – il Rim – composto dalla highway a sei corsie che conduce al Blackwall Tunnel. Ora, è proprio percorrendo questo margine che si compie la ricerca di Paolo Cardullo, attraversandolo in lungo e in largo nello scorrere di un passato che viene precipitosamente trasformato in futuro, opponendo alla inesorabilità del cambiamento la “deviazione sovversiva” (25) del camminare, e la scoperta che ad essa si accompagna. Il margine evocato è materiale quanto immateriale: esso fa sì che la Peninsula diventi sempre più una “quasi-isola”, in cui lo sguardo di Paolo Cardullo cerca di registrare “the late capitalist face of change”, in un paesaggio urbano dove pure “l’entropia è costantemente in azione”. La questione del limite, del confine, è costitutiva di ogni discorso sullo spazio urbano e sulla costruzione della città. La contraddizione sottolineata in Walking on the Rim tra la separazione fisica e l’olistica della sostenibilità rappresenta, a mio avviso, un altro degli inevitabili paradossi che mantengono in piedi il tardocapitalismo nelle metropoli. Questa appare essere, peraltro, una condizione oggi quasi strutturale negli interventi sulle aree dismesse ai margini (o anche ben all’interno) della città consolidata.

Se l’idea di sviluppo urbano sostenibile implica il prezzo della formazione di nuovi “recinti”, si è tentati di concludere – con Edgar Morin – che tale idea “non è affatto sostenibile”. (26) Oltre alle nuove forme di esclusione (volontaria ed obbligata), esistono però anche altri risvolti di questa idea di sostenibilità su cui vale la pena di rivolgere l’attenzione. In primo luogo, il fatto che la retorica ad essa sottesa produce una delocalizzazione del campo del controllo biopolitico (27), strutturandone modalità inedite e sempre più plasmate sui luoghi specifici di azione. Il controllo dei corpi (in termini di sicurezza, privatizzazione del dominio pubblico, retorica del benessere e dell’ecologico, etc.) non avviene più nella città mediante la messa in campo di disposizioni/dispositivi disciplinari nel senso tradizionale. Il nuovo biopotere, generalizzato e globalizzato, crea infatti meccanismi raffinati di “introiezione” – come possiamo vedere anche sul territorio di Greenwich Peninsula – tali che è il cittadino stesso ad essere naturalmente indotto ad assumere comportamenti conformi, in quanto funzionali ad acquisire benessere, riconoscimento sociale, status simbolico. Salvo poi accorgersi che, in situazioni non standard (grandi eventi, manifestazioni, concerti) viene utilizzata la forza (semi)-pubblica per rendere efficace la privatizzazione stessa dello spazio pubblico. Salvo scoprire che, in sostanza, l’accesso ai nuovi parametri della sostenibilità (privata e pubblica) passa anch’esso per rigide delimitazioni, con esclusione di luoghi, soggetti, modi di fruizione.

In un contesto apparentemente aperto e accessibile, ma definito in maniera così pervasiva, sebbene apparentemente aperta, non restano che margini limitati di intervento critico. Penso, ad esempio, al lavoro di artisti come Christian Nold con la sua “Greenwich Emotion Map” (28). Nel “biomapping”, operato nell’intreccio di flussi e diagrammi sovrapposti alle mappe termiche e tridimensionali della Peninsula, si disegna una cartografia emozionale dove può ritrovarsi ancora un nesso biopolitico, ma direi ribaltato, nel senso che il controllo si compie qui sul corpo delle persone che attraversano l’area, percorrendo liberamente le traiettorie di una deriva di tipo quasi psicogeografico. L’apparecchiatura applicata da Christian Nold alle nuove generazioni di flâneurs in giro per la Peninsula registra, per mezzo della rilevazione dei livelli di sudorazione, il loro “Galvanic Skin Response” (GSR) geograficamente localizzato, ossia un indicatore di eccitazione emotiva. Il controllo misura quindi un parametro di emozione, non di disciplina. Così come il camminare esplorato da Rebecca Solnit, l’azione di cartografare la città, mappando la presenza delle persone, i loro itinerari con le relative reazioni e interazioni, può essere letta in modi (e con intenzioni) diversi. Dal nostro punto di vista, questa pratica artistica rappresenta una ulteriore strategia di détournement, testimonianza della possibilità di ritagliare spazi di creatività e modalità originali di appropriazione su un territorio sottoposto – geograficamente e simbolicamente – a regolamentazioni e delimitazioni, insieme precise e cangianti, agendo con l’astuzia del paradosso sulle tecniche e i codici consolidati. Suggerendo, così, che un altro modo di percorrere quella ed altre penisole è possibile.

[Luigi Manzione]

(Le immagini sono di Paolo Cardullo; alcune sono tratte da Walking on the Rim. A Tale of Abjection, Blurb, 2009)

(1) Sulla storia del sito, v. Mary Mills, Greenwich Marsh - The 300 years before the Dome, Londra, M. Wright, 1999.
(2)V. English Partnership, Greenwich Peninsula. Investing in the 21st Century, Londra, 2004; idem, Greenwich Peninsula. The first ten years, Londra, 2007.
(3)V. Silvia Gullino, “Il Millennium Village a Londra. Un progetto di rigenerazione urbana sostenibile”, Paesaggio urbano, n. 6, 2005, pp. 42-45; Charles Ambrosino, Stéphane Sadoux, “Concilier privatisme et retour de la planification stratégique. L’exemple du projet de requalification de la péninsule de Greenwich, Londres”, Géocarrefour, vol. 81/2, 2006, pp. 143-150; Francesco Bigi, “Greenwich Millennium Village: dai gazometri al quartiere sostenibile”, Urbanistica, n. 141, 2010, pp. 51-54.
(4)Richard Rogers–Urban Task Force, Towards a Strong Urban Renaissance, Londra, 2005.
(5)Cfr. English Partnership, Greenwich Peninsula. The first ten years, cit., p. 2.
(6)V. Patsy Healey, “A strategy approach to sustainable urban regeneration”, Journal of Property Development, vol. 1, n. 3, 1997, pp. 105-110.
(7)Mike Biddulph (et alii), “From Concept to Completion: A Critical Analysis of the Urban Village”, Town Planning Review, vol. 74 (2), 2003, pp. 165-193.
(8)Charles Ambrosino, Stéphane Sadoux, “Concilier privatisme et retour de la planification stratégique. L’exemple du projet de requalification de la péninsule de Greenwich, Londres”, cit., p. 149.
(9)Sulla “città umanistica”, v. Richard Rogers, “Londra: un modello di città sostenibile?”, Area, n. 72, 2004, p. 15.
(10)Mi riferisco allo schema interpretativo proposto da Bernardo Secchi ne Il racconto urbanistico, cit., in particolare pp. 3-42.
(11)Cfr. Donatella Calabi, Il male città. Didattica e istituzioni nell’urbanistica inglese del primo ‘900, Roma, Officina, 1979.
(12)Françoise Choay, La règle et le modèle. Sur la théorie de l’architecture et de l’urbanisme, Parigi, Seuil, 1998 (1980).
(13)David Harvey, L’esperienza urbana. Metropoli e trasformazioni sociali, Milano, Il Saggiatore, 1998 (1989).
(14)Thierry Paquot, Homo urbanus: essai sur l’urbanisation du monde et des mœurs, Parigi, Le Félin, 1990.
(15)V. Michel De Certeau, L’invention du quotidien. 1. Arts de faire, Parigi, Gallimard, 1990, pp. XXXV-LIII e pp. 139-191.
(16)Cfr. Pierre Bourdieu, Esquisse d’une théorie de la pratique, Parigi, Seuil, 2000 (1972).
(17)Paolo Cardullo, Walking on the Rim. A Tale of Abjection, Blurb, 2009. Dell’autore, economista di formazione e ricercatore in visual sociology presso il Goldsmiths Institut (università di Londra), si veda anche il blog sulla “città invisibile” http://kiddingthecity.org/blog/
(18)Cfr. Nigel Thrift, Non-Representational Theory. Spaces, politics, affect, New York, Routledge, 2007.
(19)V. Henri Lefebvre, La production de l’espace, Parigi, Anthropos,1974.
(20)Guy Debord, La Société du Spectacle, Parigi, Gallimard, 1992 (1967).
(21)Paolo Cardullo, Walking on the Rim, cit., p. 41.
(22)Michel Foucault, Surveiller et punir. Naissance de la prison, Parigi, Gallimard, 1975.
(23)Sul tema, cfr. gli scritti raccolti nel numero 140-141 (2010) della rivista Espaces et sociétés (“Paradoxes de la mixité sociale”), in particolare Philippe Genestier, “La mixité: mot d’ordre, vœu pieux ou simple argument?”, pp. 21-35.
(24)Paolo Cardullo, Walking on the Rim, cit., p. 61.
(25)Rebecca Solnit, Storia del camminare, cit., p. 13.
(26)Morin: ripartiamo da Marx”, intervista a Edgar Morin, L’Unità, 12/03/2010, p. 38.
(27)V. Michel Foucault, Sécurité, territoire, population. Cours au Collège de France (1977-1978), Parigi, Seuil-Gallimard, 2004.
(28)V. http://www.emotionmap.net e http://www.softhook.com