Intervista al fotografo Peppe Maisto

[swf movie=”Maisto.swf” width=”600″ height=”400″ scale=”noscale” wmode=”transparent”]

Emanuele Piccardo: l’approdo è il luogo della partenza e dell’arrivo. Cosa significa nella tua ricerca?

Peppe Maisto: …partire, arrivare. È vero, la parola approdo accende immediatamente l’idea dell’azione, del mutamento, del transito.
Ma l’approdo del mio “racconto” è il luogo dello stare. Il luogo dell’incrocio di chi arriva e di chi parte, di quel fugace momento dell’incontro o del saluto. È il luogo dove si materializzano le memorie di luoghi lontani, a volte visti, spesso solo sognati.
È l’opera di ingegno, sul margine, sul confine, tra elementi primi della natura. È l’architettura leggera, generata dalla stabile calma della terraferma e la fluttuante forza del mare. Strutture che si decompongono. Architetture che non durano che il tempo di una stagione. Ma che si riproducono ogni volta sempre uguali eppur sempre diverse.
L’approdo è la scala, la misura, tra il lontano ed il vicino.
Certo questo è il mio “racconto” di un luogo, il litorale di Augusta, attraverso una chiave di lettura, un tema. L’approdo. E questo non esclude altri possibili racconti, altre interpretazioni, più dinamiche o più suggestive. Altri racconti.

EP: quando tu parli di luogo dello stare, mi viene in mente il concetto di tempo per un fotografo, tempo mentale per sedimentare un luogo, uno spazio…

PM: raccontare storie con le immagini è, per me, nel mio lavoro, un doppio stare. È quello del cogliere con lo sguardo e quello del sedimentare. Entrambi i momenti hanno a che fare con il vedere. Con il fare i conti con la memoria. E le suggestioni, le immagini e le storie, che questa conserva.
La differenza è nella consapevolezza e nella elaborazione.
Nel momento in cui “registri”, non sai cosa precisamente ti ha costretto in quel punto. Ad assumere quel punto di vista. Non razionalizzi le emozioni. Non c’è un prima, non c’è un dopo. Sei lì, in quel momento, solo, in quel luogo.
Dopo, davanti a tutti quei “momenti” fissati su carta, elabori una storia. Un racconto fatto di immagini in successione, capace di restituire i ricordi, le suggestioni, ma anche i rumori, gli odori, di quel transito in quel luogo. Ed è la stessa storia che ogni singola fotografia vuoi che racconti.
Sei di nuovo lì, con una consapevolezza diversa. Con un’emozione, come dici tu, sedimentata.

EP: “credo che le immagini di paesaggio possano presentarci tre verità: la verità geografica, quella autobiografica e quella metaforica. La geografia di per se stessa a volte è noiosa, l’autobiografia spesso banale, e la metafora può essere equivoca” ha affermato Robert Adams ne “La bellezza in fotografia”, quanto può incidere la fotografia sui comportamenti sociali contemporanei?

PM: non lo so! Non so risponderti con competenza.
Pierre de Fenoyl ha scritto che essere fotografi è realizzare una visione poetica della realtà. E alcuni maestri hanno saputo dimostrarcelo.
Qualche giorno fa con lo scrittore Gianni Celati abbiamo parlato della sua amicizia con Luigi Ghirri e con lo storyteller John Berger. Del loro mostrarsi con le proprie fragilità. Del loro riuscire a raccontare storie epiche e poetiche seppur intime e personali.
E allora, forse, le tre verità di Adams, riescono a non essere noiose, banali o solo equivoche se, incrociandosi, offrono “visioni poetiche”.
In una recente conferenza, Bernardo Atxaga, il principale scrittore e poeta di lingua basca, ha detto che per ricostruire l’identità e la memoria di un popolo, bisogna “percorrere” mappe sentimentali, letterarie, geografiche. Forse se la fotografia può avere un ruolo in questa società, è quello di salvare dall’oblio non l’immagine dei luoghi, ma la capacità di guardare i propri luoghi cercandone e mostrandone la fragile “bellezza”.
Una mia amica, Cecilia, oggi, a telefono, mi ha letto la frase con la quale si chiude le città invisibili. Mi piace riproportela perché mi sembra un invito a riconoscere e condividere il senso della parola bellezza.
Dice il Gran Kan: tutto è inutile, se l’ultimo approdo non può essere che la città infernale, ed è là in fondo che, in una spirale sempre più stretta, ci risucchia la corrente.
E Polo: l’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, e quello che è già qui. L’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.

[tra Busalla (Ge) e Napoli, attraverso la Rete, 6 febbraio 2003]

Peppe Maisto (Portici, 1957) architetto e fotografo. Svolge attività di ricerca e didattica presso le facoltà di architettura di Napoli e Siracusa. Vive e lavora a Napoli.

copyright archphoto 2003-Peppe Maisto