Carol Coletta intervista John Thackara

Archphoto pubblica un estratto dell’intervista fatta da Carol Coletta a John Thackara per Cluster, il cui ultimo numero è dedicato alla città.
Ringraziamo la redazione di Cluster per la collaborazione.

Carol Coletta di “Smart City” intervista John Thackara di doors of perception

“Smart City” è un programma radio settimanale, pluripremiato, condotto e prodotto da Carol Coletta. Carol dialoga con i più noti esperti di vita urbana e possibilità per le città. Il risultato è uno sguardo attento al cuore della vita urbana, della gente e dei luoghi, delle idee e delle tendenze che danno forma alle città che presenta. Un programma d’obbligo per urbanisti, sindaci, costruttori di centri urbani e ricercatori di tutto il mondo.

CC: Di recente hai tenuto una lezione ad Amsterdam in occasione di “Creativity And The City”. Mi sarebbe piaciuto esserci, per vedere il polverone che hai causato. Il titolo della tua lezione era “La città post-spettacolare”. So che hai fatto a pezzi la cosiddetta “classe creativa” per aver creato, come dici tu, “spazi catatonici che devastano il nostro paesaggio percettivo e fisico”. In effetti, la tua accusa è che la classe creativa ha prodotto delle città narcisistiche e prive di senso. Mi sembra chiaro che non hai una gran opinione della “classe creativa”. Perché?

JT: Il problema si può far risalire allo straordinario successo arriso al libro di Richard Florida, ‘The Rise of the Creative Class’. Florida ha fatto due cose che hanno distrutto, mi pare, il modo in cui la gente pensa alle città in cui vive. In primo luogo presenta parecchi dati sull’esistenza di persone chiamate “creativi”, e su quanto denaro questi portino ad una città, sotto forma di lavoro o nuove aziende. I dati di Florida hanno dato una certa autorità e rispettabilità all’idea che la presenza di persone creative è, di per sè, una buona cosa per le città. La seconda cosa che è successa è che, in tutto il mondo, gli urbanisti - che in generale non sono affatto groovy - hanno usato il suo libro come una scusa per mescolarsi con le persone groovy. Sono stato in città dell’Europa e dell’Asia dove si vede il libro di Florida usato come una specie di guida a come si rende speciale un posto. Quello che mi disturba è che chi legge il libro tende a percepire i “creativi” come una razza a parte: il tipo di gente che va in ristoranti eleganti e porta scarpe di Prada. Essere un “creativo” viene interpretata come una particolare forma di consumismo, invece che come una condizione davvero creativa e diversa dalle altre.

CC: So che tu gestisci una rete mondiale di visionari, pensatori e innovatori di base, come li chiami tu. Sono di certo persone creative. Non mi sembra che li consideri come parte del movimento descritto da Richard Florida.

JT: Per dirla tutta, probabilmente io - come te - sono un membro della classe creativa. Appariamo nella lista dei professionisti che Richard elenca nel suo libro. Quello che non mi convince è l’implicazione che solo i membri della classe creativa fanno cose creative. Il problema è che quando il concetto di “classe creativa” viene usato per fare urbanistica, si finisce per costruire un quartiere ghetto pieno di persone creative. Alcuni urbanisti e immobiliaristi pensano che, siccome in una certa area ci sono dei “creativi”, i prezzi delle aree edificabili aumenteranno, appariranno dei ristoranti eleganti, e così via. Ma dal mio punto di vista, le città più emozionanti sono quelle dove succedono cose inaspettate, in luoghi inaspettati e tendenzialmente poco belli e marginali - ed è così che in passato alcune città sono diventate luoghi interessanti. Il pericolo è che il concetto di “classe creativa” finisca per essere controproducente.

CC: Secondo te quali sono le città più interessanti oggi?

JT: Posso citare diversi posti curiosi. Ne nominerò due, uno grande e uno piccolo. Il primo è in India, la città di Calcutta. Un posto notevole perché è uno dei posti dove più si cammina al mondo, sebbene abbia quindici o sedici milioni di abitanti. La cosa speciale è che la città funziona nonostante sia accettato il fatto che, dal punto di vista di un urbanista, è un vero incubo. Dal mio punto di vista, Calcutta è il tipo di posto che non potrebbe certo essere creato da un urbanista di quelli che sventolano il manuale della classe creativa.
Gli altri posti che mi sembrano interessanti e, direi, stimolanti sono delle piccole città europee, posti per niente glamour. Sono passato da una città piccola e che nessuno conosce, Nexo, sull’isola di Bonholm, vicino alla Polonia - è solo uno tra le centinaia di piccoli porti da pesca che ci sono in Europa. I pesci non ci sono più, ma gli abitanti di Nexo sono profondamente legati alla pesca. La loro domanda quindi è “E adesso cosa facciamo?”. Questo è un posto di gente in crisi, che se vuole sopravvivere deve assolutamente essere creativa, e che in effetti riesce ad avere molte idee interessanti.

CC: Ma tu vivresti a Calcutta?

JT: Ci potrei vivere, sì. Probabilmente mi cercherei una zona tranquilla, lontano dal rumore e dalla confusione che ci sono sulle strade principali.

CC: Ma tu pensi davvero che le reti di comunicazione porteranno davvero a vivere una vita attiva e ricca di forti legami umani? Quali possibilità vedi?

JT: Quando considero le promesse impossibili che la tecnologia ci fa oggi, mi sembra sempre più chiaro che quello che ci sembra più importante, anzi, quello che è più importante, sono proprio le semplici cose che succedono tra persone, senza intermediari. Credo che le nostre aspettative tecnologiche dovrebbero essere piuttosto modeste. Nel prossimo decennio non saremo tanto ossessionati dalla tecnologia quanto lo siamo stati nel passato. La tecnologia diventerà come l’acqua o l’elettricità. Farà cose per noi. Ci darà un modo di comunicare. Ci stimolerà a incontrarci. Ma non penseremo poi molto alla tecnologia.

CC: Ma tu sì che ci pensi, e in un modo nuovo. Parli della tecnologia o delle reti di comunicazione come lo strumento con cui ci si manterrà in contatto, e hai anche proposto una nuova definizione della città creativa.

JT: Penso che la città creativa sia una città in cui i cittadini normali, che fanno ogni genere di cose, sono protagonisti dell’innovazione in modi che i designer e gli esperti non riescono a prevedere. Una città creativa è in grado di svolgere le sue attività quotidiane in modi sorprendenti. Per esempio, a Bombay c’è un sistema notevole per fare arrivare il pranzo sul posto di lavoro: ci sono dei fattorini che trasportano dei portavivande di acciaio, dalle case agli uffici. In effetti è un sistema incredibile che riesce a consegnare il cibo appena cucinato senza usare computer, telefoni cellulari o alcunché di tecnologico. Una meraviglia di logistica fatta a mano, in una città in cui la gente ritiene importante mangiare cose che sono state cucinate a casa. Di fatto, è un obbligo sociale, e quindi si trova una maniera per soddisfarlo.

CC: Parlando di India, l’evento che tu organizzi a Bangalore, “Doors East”, sembra indicare che l’India sta diventando un centro del design mondiale. C’è una certa supponenza nell’idea americana di mandare in India solo quei lavori che sono al fondo della catena del valore. Mi piacerebbe che mi raccontassi cosa sta davvero succedendo a Bangalore, in particolare per quel che riguarda il design, con quel taglio che è tipico di te e della tua rete di conoscenze.

JT: è difficile dire in breve cosa succede a Bangalore, perché molte cose sono difficili da capire per chi arriva da fuori. Tanto per dare un esempio che ha un legame diretto con gli Stati Uniti, ti dirò che la General Electric ha un campus a Bangalore, dove 3000 ricercatori fanno ricerca di alto livello sui polimeri e i nuovi materiali. Ci lavorano persone molto qualificate, che per lo più escono dalle università indiane. Mi dicono che tra di loro ci sono dei gruppi di scienziati che riescono a sviluppare polimeri nuovi in un quinto del tempo normale e con costi molto più bassi, semplicemente per via della loro innata capacità di innovare e, in breve, di fare le cose.

Nelle città asiatiche la maggioranza della popolazione vive in baraccopoli che hanno grande importanza per mantenere in moto le città e la loro economia. Gli utenti indiani non possono fare conto su reti formali di distribuzione, manutenzione e assistenza per i dispositivi tecnologici. Queste reti, quando ci sono, sono incomplete, stolide o assurdamente costose. Per questa ragione, gli utenti preferiscono chiedere a un tecnico di strada di mettere una pezza al problema, un “jugaad”. C’è un esercito di tecnici da marciapiede che riparano i motori, i tubi catodici e i compressori. La cosa ironica, è che molti burocrati e profittatori immobiliari in Asia vorrebbero eliminare di questi microimprenditori; e dall’altro lato, nel Nord del mondo, i sostenitori delle “città creative” darebbero tutto per raggiungere la stessa densità di piccole aziende e la stessa produttività. Il paradosso insito nel cercare di progettare un luogo, è che si finisce per fare l’opposto di quel che si vuole.

Ecco perché adesso si scopre che, stranamente, le aree urbane non progettate sono i veri luoghi dell’innovazione sociale. Laurent Gutierrez e Valerie Portefaix hanno uno studio a Hong Kong che si chiama MapOffice, e hanno appena pubblicato HK Lab 2, un libro incredibile che contiene foto, cartografia e testi sulla Special Administrative Region di Hong Kong e sul delta del Pearl River. C’è una popolazione fluttuante di oltre 15 milioni di immigranti che, quando non è al lavoro, si riposa in dormitori così piccoli che non c’è spazio per accumulare beni di consumo. Il risultato è che stanno emergendo nuovi schemi di vita, consumo e gioco; questi schemi mal corrispondono alle tradizionali soluzioni urbanistiche.

Anche in Europa, c’è un crescente interesse verso le cosiddette “zone libere”, ora considerate come vivai per la creatività. Un rapporto di “Urban Unlimited” intitolato The Shadow City fa una comparazione tra le zone libere di Rotterdam e Bruxelles ed esempi analoghi a Berlino, Helsinki, Vienna e Napoli. Il rapporto sostiene l’idea che è meglio non pianificare alcune zone della città - anzi, queste zone devono essere protette dai desideri predaci dei politici, dei riformatori sociali e degli imprenditori immobiliari. Questa sì che è un’idea: salvare le città dal design in nome della creatività.

CC: Il discorso del design a Bangalore in cosa è particolare rispetto al discorso del design ad Amsterdam o negli Stati Uniti?

JT: La cosa interessante è che a Bangalore ci sono persone che combinano stili di vita che hanno più di 2000 anni con le ultime tecnologie e il pensiero in termini di reti.

CC: Nella tua presentazione hai detto che la maggior parte delle imprese lavorano all’interno di una forte localizzazione geografica. Hai posto l’accento sul fatto che i fattori del successo vanno cercati tra le condizioni locali, le forme del commercio, le reti, le competenze e la cultura. Pensi che in un mondo sempre più collegato in rete questo rimarrà vero?

JT: In Telecosm, un libro di George Gilder, ho letto per la prima volta della “Legge della Località”. Risulta che quando si deve dimensionare una rete di comunicazione si può supporre su basi storiche, che il 70% - 80% del traffico sia locale, dove per locale si intende tra persone che sono distanti al massimo una cinquantina di chilometri. Questo non significa che le comunicazioni globali o la globalizzazione sono destinati a fermarsi - ma che è necessario mantenere una corretta prospettiva geografica e culturale. Il mondo globale influenza gli eventi locali come le correnti a getto influenzano la micrometereologia: come una specie di meteorologia globale, in cui grandi correnti di aria o di acqua causano cambiamenti a grande scala. Questo è come mi figuro i grandi flussi finanziari dell’economia globale - un’economia che per il 97% è speculazione.
Ma la grande maggioranza delle aziende, direi il 95% sul numero totale di aziende (se non sul valore totale), operano in un’area ridotta, con un numero limitato di clienti, e non crescono poi tanto. Ci viene insegnato che un’azienda in buona salute cresce, si estende per ogni dove e cambia in continuazione - ma questo non va per niente d’accordo con la realtà della vita normale in molti luoghi.

CC: Il congresso “New Design Cities” a Montreal ha posto due domande. Cos’è una metropoli del design? Come fa una città a diventare una metropoli del design? Quali sono le tue risposte?

JT: Preferisco cambiare le domande! Non sono sicuro che, se io fossi una città, avrei voglia di diventare una metropoli del design! Una “metropoli del design” mi fa pensare a un’arida monocultura dove abitano solo designer, architetti, artisti e PR. è proprio un posto dove mi farebbe orrore vivere o anche solo andare in vacanza. Oppure mi fa pensare a qualcosa come Venezia, settecento anni di architettura e progetto che muoiono sotto il peso del turismo. Se fai una città incredibilmente ben progettata, piena di belle cose, e bei ristoranti e bella gente ci sono due possibilità: o sarà un posto di una noia mortale, oppure sarà invasa da pullman di visitatori che vengono lì solo per guardare. Non dico che le città devono essere malfatte e spiacevoli da visitare - ma penso che si debba stare attenti a non trasformarle tutte in posticini perfetti.

CC: Se tu fossi il sindaco di una città, e volessi farla diventare una città creativa - secondo la tua definizione - cosa metteresti in agenda?

JT: Chiederei a dei buoni progettisti di aiutarmi ad organizzare dei workshop dove si progettano futuri alternativi per la mia città. O anche solo di trovarsi a pranzo con me e i miei concittadini. Una volta a tavola, chiederei “Cos’ha di buono la nostra città che è diverso dalle altre città che conosciamo?” Mi limiterei a questa semplice domanda, “Cosa c’è di speciale qui?” - spesso vengono fuori delle cose di cui non ci si era resi conto, o che non si erano capite. Per esempio, di recente ho invitato un gruppo di innovatori culturali a venire a Breda, una cittadina dei Paesi Bassi per discutere di un tema specifico: cosa vorrebbe dire progettare tenendo conto della bassa e dell’alta velocità in un ambiente di Altà Velocità ferroviaria? I treni ad Alta Velocità sono una forma avanzata di mobilità, ma noi volevamo chiederci come si fa ad aggiungere valore sociale e culturale ai luoghi (e sono sempre di più) che sono raggiunti dalle linee ferroviarie veloci.

Il workshop toccava temi come “Movimento ad Alta Velocità” e “Incontro Lento”, “Mappe della Conoscenza Locale” o “Memoria Vivente”. L’idea era di sviluppare una serie di proposte concrete, che in seguito sarebbero state messe in atto. Ma la vera spina dorsale del workshop è stata la partecipazione di abitanti del posto assieme agli esperti. Breda non è un caso unico: diverse città dell’Europa ad alta velocità hanno le stesse aspirazioni. Ognuna vuole diventare il centro di una rete; essere un centro culturale; sviluppare un’economia basata sulla conoscenza. Sembra che le persone creative non abbiano alcun desiderio di vivere in un ghetto, o di farsi dire quello che devono fare. Se cerchi di pianificare la creatività, di solito rifiuta di manifestarsi. La creatività non esiste solo in una specifica classe sociale di creativi, e non si presenta solo in attività specifiche. Il modo giusto di pensare alla creatività è come un particolare modo di vedere la vita quotidiana, dalla cucina agli spostamenti in città.

Un altro esempio sono le cittadine di pescatori. Dopo centocinquanta anni di pesca, tutto ciò che conoscono è la pesca - e invece no, non è tutto. Quando si comincia a parlare, risulta che ciò che conoscono è il mare. E le imbarcazioni. E la meteorologia. In effetti, conoscono un sacco di cose che non sono strettamente legate all’attività di tirare il pesce fuori dal mare. Queste comunità hanno molte conoscenze e molte storie interessanti da raccontare; anziché pensare che non c’è più niente da fare, la gente si rende conto che la combinazione di conoscenze e collocazione in prossimità del mare apre dei futuri piuttosto affascinanti.

Mi domanderei anche: la mia città ha già raggiunto il massimo possibile di diversità culturale? Sembra che le società miste innovino più di quelle omogenee. Ho degli amici che lavorano in una ditta inglese che si chiama “Comedia”: hanno lanciato The Intercultural City, un progetto internazionale della durata di diciotto mesi che studia come le interazioni tra culture possono dare origine a nuovi prodotti, servizi e stili - e a come queste innovazioni si diffondono. L’obbiettivo è di fornire ai governanti delle città ragioni e strumenti per stimolare l’innovazione interculturale.

In the Bubble

Stiamo riempiendo il mondo di tecnologia e strumenti, ma abbiamo perso di vista una questione importante: a cosa serve tutto ciò? Quale valore aggiunge alle nostre vite? Queste sono le questioni che affronta “In the Bubble: Designing in a Complex World”, il nuovo libro di John Thackara. Descritto da Fast Company come “un guru del design, un critico e un promotore d’eventi”, Thackara è anche autore di “Design after Modernism”, “Lost in Space: A Traveler’s Tale”, “Winners! How Successful Companies Innovate by Design”, e altri libri.
“In the Bubble” parla di un mondo basato meno sui prodotti, e più sulle persone. Thackara descrive una trasformazione che si sta svolgendo adesso, non in un remoto futuro da fantascienza; non riguarda quello che lui chiama “i rifiuti del nuovo”, ma l’innovazione radicale che già emerge nel nostro quotidiano.

John Thackara, In the Bubble: Designing in a Complex World , The MIT Press, 31 May 2005, £19.95, 288 pp.

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