Giovanni Bartolozzi. Intervista a Marco Dezzi Bardeschi

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G.B. Una foto pubblicata su un volumetto edito dalla LEF e dedicato a Giovanni Klaus Koenig la ritrae sul finire degli anni Sessanta assieme a Koenig, Francesco Gurrieri e Franco Borsi. Erano anni luminosi per la facoltà di architettura, che avevano generato un clima effervescente di cui oggi è andata perduta ogni traccia. Cosa ricorda di quegli anni d’insegnamento alla facoltà di architettura di Firenze?

M.D.B. Doveva essere l’anno della nuova alleanza tra storia e restauro. Quella foto è stata scattata dalla terrazza di Via Micheli, c’eravamo messi in una posizione votiva, inginocchiati, quasi goliardica. Era il periodo in cui da restauro sono passato a storia, in quel periodo mi sono divertito moltissimo con Koenig. E’ stato un momento particolarmente bello.

Ma c’era un altro fatto in quegli anni, la facoltà era meno fiorentinizzata e, dopo che Michelucci era andato via nel ’48 per andarsi a rigenerare a Bologna, dove io l’ho conosciuto, furono accolti a Firenze – e poi furono cacciati – tre docenti romani d’eccezione: Adalberto Libera, Ludovico Quaroni e Leonardo Benevolo. Quindi c’è stato un grosso scossone sul terreno della progettazione ma non recepito fino in fondo, perché poi gli assistenti di Libera erano Cardini e Raspollini, che rappresentavano la toscanità più greve.

Libera richiedeva agli studenti un plastico sintetico, molto piccolo, non più grande di un foglio A4. Faceva revisione girando tra i tavoli, guardava questi piccoli plastici e diceva “questo fa schifo, buttalo via” oppure “questo è bellissimo”. Ricordo che durante una revisione, mentre guardava il plastico di un mio collega, gli chiese: “ma tu bevi?” Il mio collega rispose di no e Libera: “male, tu devi bere, questo plastico è da buttar via”. Insomma voleva dire che per fare architettura bisogna lasciarsi andare. Libera si divertiva dunque a provocare, questa era la sua lezione.

Quaroni faceva lezione in modo totalmente antiaccademico, girava tra i banchi col basco e un impermeabile scucito, non stava in cattedra e lanciava messaggi molto critici.
Il terzo era Benevolo. Sostanzialmente io sono oggi su posizioni contrarie alle sue, ma ha avuto comunque il merito, e questo lo ha fatto molto meglio Zevi prima di lui, di rivendicare il fare storia dell’architettura ad un architetto.
Sono personaggi questi dai quali impari sempre.

Ma andate via queste persone si è ritornati alla fiorentinità becera, cioè persone che non sono mai uscite dalla cerchia del pittoresco urbano e questo accade ancora oggi, salvo qualche esempio rarissimo, più noto per una medaglia alla memoria di quello che hanno fatto da giovani. Però, a mio avviso, la città di Firenze è cortocircuitata su se stessa.

G.B. Lei è stato uno degli ultimi allievi di Giovanni Michelucci, uno tra i più sensibili architetti del nostro Paese. Può dirmi in sintesi cosa le ha trasmesso? Come ha ereditato il segreto misterioso di Michelucci? E non crede che la sua eredità si sia dispersa?

M.D.B. No, penso di no. Però come succede ai veri mastri – che intanto dicono di non esserlo – si potrebbe attestare a lui una grande coerenza sulla ricerca progettuale, poiché tutte le volte sentiva il bisogno di cominciare da capo. Non c’è uno stampino; Michleucci metteva sempre tutto in discussione, spesso anche nel lavorare allo stesso progetto.

Quando lavoravo nel suo studio, lo ricordo mentre stava progettando l’edificio sul Lungarno, che oggi nessuno guarda più. Non c’era una pianta che tornava con la sezione o col prospetto, perché lui cambiava continuamente tutto. Michelucci andava a dormire molto presto e la mattina all’alba lavorava, io arrivavo in studio alle nove e trovavo già un pacco di disegni nuovi, allora si mettevano da parte i disegni del giorno precedente perché era cambiato tutto. Questa per me fu una grande forma di ammaestramento.

Un architetto non congela feticisticamente una forma e Michelucci era capace di un’autocritica anche eccessiva, per questo imboccava tante strade, poi le confrontava, le macinava e quindi era sempre tutto in discussione: era un processo di liberazione e di continua autocritica. Allora una persona così non ti insegna niente di preciso, soprattutto non ti insegna a fare soldi. Però proprio per questo è un maestro, lo è perché non ti da una formuletta da applicare, che sarebbe molto limitativo e deteriore.

Questo processo di autocritica Michelucci lo attivava anche grazie alla gente. Ricordo che una volta a Larderello, dove aveva costruito una chiesina perrettiana in un mondo di serpentine, di tubi e dunque di forte industrializzazione, chiese a una donnina che pregava cosa ne pensava della chiesa. Lui voleva sempre ascoltare il giudizio delle persone, e anche questo è un aspetto che oggi si è perduto. Non andava a parlare con la committenza ma cercava il quoziente di gradimento, di incomprensione o di repulsa di chi veramente viveva quei luoghi.

E poi aveva questo senso di subordinare tutto il resto allo spazio, al senso del percorso, cioè l’architettura non è una facciata ma vi si entra dentro, ci si gira intorno, insomma è una macchina narrativa, è un avventura. Per tutto questo ritengo che sia un grande maestro.

G.B. Lei vive e lavora a Firenze ma insegna a Milano. Perché ha lasciato la facoltà di architettura di Firenze?

M.D.B. Io non sono andato via, semplicemente mi hanno mandato a cercare fortuna altrove. C’è stato un concorso e c’erano quattro posti per restauro in tutta Italia ed io sono stato mandato a Milano. E così mi sono trovato in un mondo sconosciuto, e ho ricominciato da capo. Però mi hanno mandato a Milano, e questa è stata la mia fortuna, perché avevo visto che l’ambiente fiorentino era in crisi.

Questa facoltà aveva dei grandi personaggi di scuola michelucciana, come Savioli, Ricci, Detti e tutti gli allievi, e aveva già prodotto il trauma su Michelucci che aveva respinto, come poi ha fatto con altri. Io avevo portato a Firenze Eugenio Battisti e Marcello Fagiolo e quindi volevo incidere sul percorso storia-restauro-progetto. Sono stato sempre un anti-restaurativo, per me il restauro è una materia di progettazione. La stessa mia sorte è capitata ad una figura d’eccezione come Battisti che fu mandato a Reggio Calabria.

La facoltà in quel periodo ha cominciato a legarsi, diciamo pure, alla destra più tradizionalista, quindi pensate a tutti questi allievi di Michelucci, che con lui hanno sognato attraverso la facoltà una Firenze diversa, una città sul fiume, che è poi divenuta la facoltà degli Spadolini, dei Vagnetti e poi dei Cataldi, dei Maffei e quindi dei tipologisti. Gamberini stesso era di questa corrente. Quindi dal ’76 in poi vi fu una sorta di ritorno all’ordine che è poi esploso nella logica conseguenza di far uscire le persone che davano noia. Io per fortuna ho fatto un’esperienza nuova.

G.B. E infine Firenze e le sue scelte urbanistiche. Dal disastro di Novoli ai parcheggi disseminati tra i Viali e il centro, senza un quadro d’insieme che vertebri l’assetto del traffico. Dalla Fortezza da Basso alla famigerata vicenda degli Uffizi, per finire coi pericolosi convegni sulla “Identità dell’architettura italiana”. Insomma, una città che non riesce a concepire lo sviluppo urbano in chiave metropolitana, che non riesce a prendere scelte forti e angolate. Cosa pensa di tutto questo?

M.D.B. Io sono perfettamente d’accordo con Bruno Zevi e infatti nel numero di “L’architettura cronache e storia” dedicato a Firenze ho cominciato e concluso con una sua intervista. Le sue parole sono pietre: “sono infuriato”, diceva “costruisco barricate perché è un’indecenza quello che l’amministrazione comunale non sta facendo”. Ma il problema oggi è anche quello che l’amministrazione comunale sta facendo.

Novoli. Il parco non c’è, l’università è vergognosa, il palazzo di Giustizia è stato manomesso e il susseguirsi dei vari cartelli di cantiere ne sono la testimonianza. Nella vicenda del tribunale sono entrati progressivamente tutti i tecnici, gli ingegneri, i funzionari dell’apparato comunale e quindi anche questo è stato fagocitato dalla corporazione dominante trasversale, così ha cominciato a crescere e deformarsi. Non c’è stato nessuno che ha rappresentato la continuità di questo cantiere. Insomma anche questa operazione è stata sprecata.

Io credo che tre parole per la Firenze di domani sono partecipazione, condivisione e autogestione. Sono tre parole che non esistono più, non esiste apertura, non esiste dialogo, è tutto prefabbricato, è tutto imposto dall’alto, da un gruppo trasversale d’affari. A mio avviso è un autogol sulla città. Ancora Zevi diceva: “contribuire al rilancio del movimento moderno verso più ampi obiettivi sociali, basati su un recupero storico organico scevro da formalismi. Il futuro del passato, ecco cosa si vuole, non un presente che alluda al passato rinunciando a prospettare un futuro”.

A questo punto chi vuol capire capisca, questo messaggio è una testimonianza lucida e drammatica. “Firenze sagra di tutte le occasioni perdute” diceva ancora Zevi, perdute sia in un senso che nell’altro. Il cartello del “no” da una parte, dall’altra si fanno invece solo le cose che fanno comodo ad un certo gruppo di poterastro, oltretutto anche incolto, che ha tagliato i rapporti con la storia e con l’eredità di questa città. Insomma sono infuriato anch’io.

[Giovanni Bartolozzi]