Andrea Vergano. L’utopia della città perfettamente governata

Fotografia Daniel Lee on Unsplash

Fare tutto con calma, Procedere più lentamente, quasi stupidamente, Costringersi a vedere più piattamente.
G. Perec, Espèces d’espaces, 1974

La compressione dei movimenti nello spazio e il rallentamento del tempo imposto dal lockdown sembrano essere fatti apposta per mettere in pratica una delle possibili esercitazioni proposte da George Perec: l’inventario analitico di un infraordinario che non va oltre la dimensione del quartiere, secondo una scansione di spazi elementari dell’abitare (il letto, la camera, l’appartamento, la strada …) (1). Il gioco proposto da Perec, per non degenerare in disturbi psichici, può durare solo il tempo sufficientemente lungo per osservare la sintassi delle nuove e ordinate disposizioni dei corpi nello spazio: la linea, la fila, come unica forma di affollamento consentito, o più raramente il cerchio, come sopravvivenza di una forma di socialità solamente tollerata.

Come in uno specchio deformante questa osservazione ravvicinata di un brandello di spazio urbano rischia di produrre distorsioni della percezione nel momento in cui il gioco si carica di ricordi o di propositi. Lo spazio lobotomizzato del quartiere potrebbe allora ricreare l’illusione ottica del vicinato, con tutta la retorica disciplinare sottesa, senza forse accorgersi che si tratta di un quotidiano amputato dello spazio e delle funzioni pubbliche, di cui restano solo i negozi di prima necessità, delimitati dal raggio di percorrenza pedonale.

Non è solo lo sguardo ravvicinato che rischia di deformare l’osservazione dello spazio urbano. Anche la convivenza forzata con la situazione emergenziale in corso finisce per alterare la percezione dello spazio della città, restituendo descrizioni inevitabilmente emotive, parziali e frammentarie. Solo la lettura sembra garantire una maggiore profondità del campo prospettico, limitando possibili disturbi percettivi (si tratta dello spazio della pagina che nella tassonomia scalare di Perec precede quello del letto). Il tentativo di sottrarsi alle cronache ansiogene del momento e alle letture di ambientazione pandemica non evita di scivolare verso l’imbuto della biopolitica. Letture che si inscrivono facilmente nella realtà percepita. Dalla combinazione di queste pagine con i pezzetti di spazio osservati risulta evidente che il lockdown funzioni come un perfetto dispositivo normativo di disciplinamento dei corpi e dei comportamenti nello spazio.

In questo dispositivo di controllo non è difficile riconoscere l’origine remota del progetto della città moderna (progetto fondato su motivazioni igienico-sanitarie e retto da disposizioni di polizia). La correlazione tra le alte densità abitative e la diffusione della malattia costituisce il presupposto su cui si è costruito nel tempo l’apparato disciplinare dell’urbanistica moderna. Un apparato minuzioso, pervaso da una curiosità morbosa e anatomica, che investe lo spazio della città, fino a penetrare all’interno delle case, con l’obiettivo di sanzionare comportamenti giudicati scorretti immorali o malsani (2).

Ma il vero oggetto di controllo resta il corpo. Per arrivare a formulare un racconto normativo convincente, che possa essere rappresentato su base statistica, il “corpo docile”, anestetizzato dalla disciplina, da solo non è sufficiente, occorrono “apparati di incarnazione”, che si servono di “stock di corpi”. Su questo capitale di corpi pazienti e silenziosi si regge la credibilità di un discorso normativo fatto di statistiche, grafici, tabelle. A questo punto, nell’immobilità della città e nel silenzio dei corpi, si può cogliere l’eco della “Utopia della città perfettamente governata”(3).

Su questo ordinamento semplificato, che si regge su semplici dicotomie (pubblico-privato, aperto-chiuso), le discipline che si occupano di pianificazione spaziale possono trovare terreno fertile per stabilire un nuovo legame con il governo della città risanata (oggi forse ci si rende conto di quanto la parola “risanamento” sia più potente e pregnante di “rigenerazione” nel determinare i comportamenti delle persone nello spazio). Oggi sembra di assistere all’estensione-amplificazione di un dispositivo di controllo medico-poliziesco moderno nello spazio della città contemporanea. Con questi presupposti, la pianificazione della fase post-pandemica rischia di assumere contenuti inquietanti: nuove tecnotopie in cui sembra compiersi il passaggio verso quello spazio virtuale di connessione, con la progressiva rarefazione dello “spazio di contatto”, fondato sul corpo, su cui nel tempo si è costruita l’idea di spazio pubblico delle nostre città (4).

Già nel 1990, nella riedizione del decennale di Il silenzio del corpo, Guido Ceronetti individuava uno spazio medicale esteso dall’ospedale alla città, fino ad investire un corpo addomesticato: uno spazio e un corpo posti sotto controllo medico. In questo scenario governato da una “medicina trionfante” emergeva un pensiero preoccupato: “la città non crolla perché c’è l’analgesico, il liquida-ansia, lo psicofarmaco, il sonnifero, il sedativo”. Sotto questo collante chimico in realtà la città mostrava segni di cedimento e di disgregazione. Segni forse occultati da una presbiopia precoce o da un disturbo di comprensione che non permetteva di decifrare o intendere quanto stava avvenendo nello spazio ristretto della nuda vita quotidiana. Solo poche righe più avanti Ceronetti si chiedeva dove andasse a finire “tutta quell’Ansia che reprimiamo ma che non possiamo annullare” (5).

Si tratta di uno stato d’ansia che sempre più spesso convive con uno stato di emergenza quasi ordinario. Forse sarebbe più saggio dare libero sfogo alle nostre ansie represse, soprattutto di fronte ai discorsi rassicuranti, volti a tranquillizzare e imbonire l’opinione pubblica. Utilizzare le nostre ansie, come suggerisce Weick, quali spie di un possibile rischio nel funzionamento dei complessi meccanismi della macchina urbana, potrebbe essere un modo per prevenire situazioni di emergenza e per costruire in anticipo risposte plausibili rispetto a scenari di crisi. Si tratterebbe allora di imparare a convivere con un diffuso stato d’ansia, o se si preferisce uno stato di allerta permanente, allo scopo di prevenire situazioni di emergenza, con le conseguenze catastrofiche sul piano sociale ed economico che esse comportano. Una condizione che appare ineludibile nel governo della città contemporanea (6).

Allargando ancora lo sguardo, dalla città al territorio (seguendo la tassonomia di Perec: il quartiere, la città, la campagna …), un’alternativa meno inquietante potrebbe essere quella di decongestionare progressivamente le aree metropolitane, recuperando i territori abbandonati delle aree interne e montane, utilizzando le nuove tecnologie informatiche, non per rafforzare il controllo panopticon sulle persone e sui loro comportamenti, ma per connettere territori marginali attraverso un potenziamento delle infrastrutture digitali. Una scelta liberale di reciproco rispetto verso i luoghi e le persone, in cui è possibile sentire risuonare ancora una volta l’eco delle parole di Thoreau: “viviamo l’uno troppo presso all’altro e ci intralciamo a vicenda, inciampiamo l’uno sopra l’altro, e credo che così perdiamo un certo mutuo rispetto” (7).

[Andrea Vergano]

27.4.20

Note bibliografiche

(1)G. Perec, Espèces d’espaces, Editions Galilée, Paris, 1974; trad. it., Specie di spazi, Bollati Borignhieri, Torino, 1989.

(2) F. La Cecla, Mente locale. Per un’antropologia dell’abitare. Elèuthera, Milano, 1993.

(3) Foucault utilizza questa espressione a proposito della città appestata. M. Foucault, Surveiller et punir. Naissance de la prison, Editions Gallimard, Paris, 1973; trad. it., Sorvegliare e punire. Nascita della prigione. Einaudi, Torino, 1993, p. 216. Le espressioni “corpo docile” e “stock di corpi” sono tratte rispettivamente da M. Foucault, Sorveiller et punir, 1973 e M. De Certeau, L’invention du quotidien, 1990.

(4) F. Choay, Espacements. Figure di spazi urbani nel tempo, Skira, Milano, 2003.

(5) G. Ceronetti, Il silenzio del corpo, Materiali per studio di medicina, Adelphi, Milano, 2001, pp. 223-224.

(6) E.K. Weick, M.K. Sutcliffe, Managing Unexpected. Resilient Performance in an Age of Uncertainty, John Wiley and Sons, 2007; trad. it. Governare l’inatteso. Organizzazioni capaci di affrontare le crisi con successo, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2010.

(7) H.D. Thoreau, Walden; or, life in the woods, 1854.