Emanuele Piccardo. Yona Friedman il visionario

La storia di Yona Friedman si inserisce nel panorama dei grandi visionari del Novecento, che ha compreso Le Corbusier, Buckminster Fuller, Paolo Soleri. Architetti e sperimentatori che hanno indicato una via da percorrere con i loro progetti. Se Le Corbusier ci ha fatto guardare al mediterraneo come spazio dove raccogliere idee, suggestioni, princìpi, da poter introiettare nel progetto di architettura. Fuller ci ha proiettato nel futuro tecnologico e nello spazio alla conquista dell’universo con le sue ricerche per la NASA, sul riciclo dei materiali e sulla modularità in tutte le sue case sperimentali a partire dalla Dimaxion House. Mentre Soleri ci ha insegnato a riappropriarci del rapporto con la natura attraverso la miniaturizzazione di una città in verticale, Arcosanti, lasciando spazio libero all’agricoltura. Infine Friedman ci ha consentito di pensare alla città come un insieme di individui che si auto-organizzano per la sua gestione democratica.

Nel 1969 a Torino si svolge il convegno Utopia e/o Rivoluzione organizzato dal gruppo di lavoro composto da Giorgio Ceretti, Graziella e Pietro Derossi, Adriana Ferroni, Aimaro Oreglia d’Isola, Riccardo Rosso, Elena Tamagno, a cui partecipano tra gli altri gli “utopisti” Yona Friedman e Paolo Soleri, insieme a Archizoom, Architecture Principe (Paul Virilio e Claude Parent), Utopie, Archigram e Romaldo Giurgola. Un momento di confronto tra i “rivoluzionari” e gli “utopisti”. Come ricorda Manuel Orazi, Friedman “venne contestato ripetutamente dalla folla di studenti[…] tanto da essere costretto a uscire e poi rientrare più di una volta[…]. Ma il motivo delle contestazioni furono le sue parole:
“Signori, io parlerò dell’utopia contro la rivoluzione[…] L’utopia è fatta da chi? L’utopia è fatta per chi? Io non lo so-continua Friedman-Ci sono persone che fanno l’utopia in nome di altri; ci sono anche certe persone che fanno la rivoluzione, e che non hanno il diritto[…].

Yona Friedman, Biosphere The Global Infrastructure (2016)
courtesy Fonds de Dotation Denise et Yona Friedman

Ma l’apporto teorico di Friedman riguarda nel profondo i cambiamenti in atto nella società della rivoluzione sessantottina introducendo, ben prima di Bauman, il concetto di flux society, ovvero una società “dove il gruppo che prende le decisioni cambia rapidamente”. Questa attenzione per le relazioni tra spazio, individuo singolo e collettivo costituisce la base della sua sperimentazione a partire dalla Ville Spatiale (1958-1962). Una città sospesa fatta da un sistema di travi reticolari e pilastri-traliccio che definiscono una infrastruttura sospesa, poi ripresa ed enfatizzata maggiormente nella Biosphere The Global Infrastructure (2016), per il passaggio delle tecnologie e la collocazione delle unità abitative. In questo modo rende consapevole il cittadino che in modo autonomo può progettare la sua abitazione e contemporaneamente con questa città sospesa ingloba gli edifici esistenti e non aumenta l’occupazione del suolo che rimane libero. Ma la Ville Spatiale nasce dall’esperienza precedente avvenuta nel 1956 al CIAM di Dubrovnik, dove Friedman presenta l’Architecture Mobile. Un modo di occupare lo spazio con elementi strutturali a griglia che aggregandosi all’infinito danno origine alla Ville Spatiale, che rimane una delle eredità più importanti dell’architetto ungherese. L’altro elemento centrale riguarda la capacità di immaginare, come solo i visionari sanno fare, le trasformazioni dei territori disegnando scenari che poi si avverano, come in Contintent City (1961) dove l’Europa viene rappresentata da un network di ferrovie ad alta velocità, componendo una grande città europea senza confini (eredità dell’essere ebreo e dell’aver vissuto la guerra sulla sua pelle).

La sua scomparsa chiude il cerchio, dopo la dipartita dei due membri di Superstudio Cristiano Toraldo di Francia e Adolfo Natalini che guardarono molto alle megastrutture proposte da Friedman, nell’elaborare il Monumento Continuo, di un certo pensiero radicale e alternativo all’accademismo del movimento moderno e del pensiero lecorbuseriano. Ci mancherà quella sua parlata morbida ma dura nella elaborazione critica della società per immaginare un mondo più democratico e autonomo dalle ipocrisie e dagli egoismi di architetti e cittadini.

[Emanuele Piccardo]

26.2.20