Andrea Vergano. Genova, il mondo dell’autostrada e le condizioni dello sviluppo

genovamap

Che le infrastrutture viarie e ferroviarie sostengano lo sviluppo economico di un territorio è un’affermazione che non ha bisogno di essere argomentata. Diverso è considerare l’impatto che le infrastrutture hanno avuto nello sviluppo di un contesto territoriale fragile come quello ligure e genovese in particolare. La conformazione orografica di Genova ha evidentemente condizionato lo sviluppo urbano e infrastrutturale secondo alcune direttrici principali di espansione rappresentate dalla linea di costa e dalle maggiori vallate.

Vittorio Pertusio, sindaco della città negli anni del boom economico, aveva definito “Genova città fra due frane”, sia per denunciare l’isolamento infrastrutturale della città, la cui viabilità di attraversamento era allora affidata al solo tracciato dell’Aurelia, inadeguato a sostenere i crescenti flussi di traffico di una città industriale, sia per auspicare la rapida costruzione di nuovi percorsi autostradali di collegamento della città con le due riviere e con l’entroterra.

La paura dell’isolamento, in una realtà geografica come quella ligure, costituisce un’ossessione ricorrente dei commentatori dell’epoca. All’inizio degli anni sessanta, Ugo Marchese, docente di Economia dei Trasporti,scriveva: “Genova ha assoluto bisogno di adeguare il proprio sistema di comunicazioni con le Riviere, nonché con Milano e la Lombardia, e con Torino e il Piemonte, per non rimanere isolata, e per poter dare il proprio contributo allo sviluppo ulteriore del triangolo industriale dell’Italia” (1). Un sistema infrastrutturale adeguato alle esigenze dei traffici moderni costituiva la condizione indispensabile per l’apertura di nuovi mercati ad una industria e ad un porto in espansione, smontando definitivamente la paura dell’isolamento.

La domanda di nuove infrastrutture, nel contesto della crescita e dello sviluppo economico degli anni sessanta, conteneva però anche l’evidenza di una condizione di fragilità del territorio (le “frane” di cui parlava Pertusio). La vulnerabilità di un territorio, che espone la città al rischio dell’isolamento, trovava risposte, allora come oggi, nella realizzazione e nella specializzazione di nuove infrastrutture, necessarie per assorbire i crescenti flussi della mobilità (soprattutto viaria).

La fragilità insita in tale visione andava a sommarsi ad una fragilità di contesto. Un sistema infrastrutturale che per funzionare a regime avrebbe richiesto nel tempo un sempre più sofisticato meccanismo di monitoraggio e di manutenzione necessario per rendere competitivo il territorio genovese rispetto ai mercati nazionali e continentali. Si trattava allora di trovare il delicato punto di equlibrio tra esigenze della modernizzazione e condizionamenti imposti dal contesto territoriale e naturale, come ad esempio era stato fatto nelle più celebrate esperienze olandesi.

Eugenio Fuselli aveva compreso, in anticipo e con più lucidità rispetto ad altri, questa necessità, e aveva immaginato di comporre questo difficile equilibrio nel quadro di una pianificazione integrata di scala territoriale (o metropolitana) con il coinvolgimento dei differenti soggetti coinvolti sul tema della viabilità e dello sviluppo portuale e industriale della città (2). Questo equilibrio non è stato trovato attraverso le vie razionali del piano, valutando le compatibilità tra nuove infrastrutture, citta e territorio, quanto piuttosto ricomponendo, come sommatoria, soluzioni progettuali parziali, accostate nel tempo attraverso progressivi aggiustamenti: il sistema infrastrutturale prende corpo all’indomani del secondo conflitto affiancando alla storica “camionale” dei Giovi il tratto autostradale compreso tra Genova Prà e Varazze. Ma il grande sviluppo avverrà a partire dagli anni sessanta con l’approvazione del “Piano organico di costruzioni autostradali”. Un sistema che risulta definito alla fine degli anni sessanta: “un sistema infrastrutturale imponente, che modifica ulteriormente l’assetto paesistico. In particolare la rete autostradale trasforma radicalmente alcuni tratti di costa, le principali vallate di collegamento con l’interno, gli ambiti urbani e in particolare il capoluogo, nel quale l’autostrada taglia quartieri densamente edificati: per il nodo genovese verrà infatti coniata l’espressione di orgia autostradale”(3). Questo sistema infrastruttuale può essere assimilato a quello che Marshall Berman ha definito come il “mondo dell’autostrada”(4). Si tratta di un mondo a misura d’automobile, che si insinua anche all’interno della aree più densamente costruite della città, sconvolgendone gli assetti urbanistici sociali ed economici preesistenti. All’interno della città il mondo dell’autostrada definisce un nuovo paesaggio urbano, caratterizzato dall’artificiale duplicazione del suolo, ponti, viadotti, gallerie, sopraelevate, da cui sono estromessi (o fortemente marginalizzati) i flussi di attraversamento pedonale. Attraverso svincoli le infrastrutture viarie legano tra loro alcune funzioni selezionate: aree industriali, portuali, aeroportuali, fieristiche e, nel cuore della città, direzionali. La residenza rimane sullo sfondo.

L’immagine del mondo dell’autostrada, che penetra all’interno della città con assi attrezzati e centri direzionali, caratterizza molti piani della prima generazione urbanistica. Tale immagine non risulta chiaramente leggibile nella planimetria del piano di Genova del 1959 (che nelle parti centrali della città rimanda al piano del 1932). É curioso osservare che mentre molte di queste proposte, presentate con grande enfasi (si veda ad esempio il Sistema direzionale orientale del coevo Prg di Roma), sono rimaste sulla carta, a Genova sono state attuate.

Chiunque abbia attraversato il nodo autostradale genovese e le sue prosecuzioni all’interno della città (Pedemontana e Sopraelevata) ha fatto esperienza del mondo dell’autostrada. Uno spazio pubblico, a misura di automobile, che riduce il tessuto urbano a sfondo, spesso con impatti negativi sulla qualità delle aree residenziali attraversate (evidenti in molti tratti dell’autostrada A10). In alcune parti tale mondo risulta violento e distruttivo di interi tessuti urbani (anche di valore storico, come via Madre di Dio, un quartiere demolito per realizzare il centro direzionale dei Liguri e il raccordo della viabilità urbana alla Sopraelevata). In altre parti la città esistente costituisce lo scenario che può essere visto dal parabrezza dell’automobile (come il suggestivo fronte monumentale della Ripa che scorre parallelo alla Sopraelevata).

Usciti dalla città, il mondo dell’autostrada e i rilievi del suolo configurano un paesaggio ibrido, caratterizzato da un’estetica monumentale di forte impatto ambientale, con un succedersi continuo di tratti in galleria e di viadotti di diversa lunghezza, che attraversano la sequenza di valli e vallette perpendicolari alla linea di costa.

Si tratta di un mondo terribile e affascinante allo stesso tempo, che riduce artificialmente le asperità del suolo ad una piattezza conveniente allo sviluppo economico di un territorio. Ma si tratta anche di un mondo che “tanto più si specializza tecnologicamente, tanto più mostra la sua estrema fragilità e la sua scarsa adattabilità” (5).

Un mondo fragile che si sovrappone ad un territorio fragile. Somma di fragilità diverse: quelle della tecnologia, quelle del territorio. Alluvioni, frane, che in tempi recenti (e anche meno recenti, come quelli del sindaco Pertusio) hanno interrotto ferrovie strade e autostrade, stanno a dimostrarlo. Il tragico crollo del ponte Morandi ha aggiunto una dimensione di ulteriore incertezza a questa situazione.

Molto si è discusso del paesaggio delle Cinque Terre come opera dell’uomo in dialogo costante con la natura. Un equilibrio precario la cui conservazione richiede una costante opera di controllo e di manutenzione. Pur con evidenti differenze anche il mondo moderno dell’autostrada configura un paesaggio in dialogo con la morfologia del suolo. Si tratta anche in questo caso di ricercare un punto di equilibrio tra opere infrastrutturali e condizionamenti del territorio, se necessario attraverso un più selettivo controllo dei flussi, anche se questo può voler dire rinunciare a quote di mercato. Oggi non è più possibile dimensionare l’offerta di infrastrutture sulla base della domanda (che in molti casi è solo ipotetica, formulata su trend di crescita di flussi di merci e persone previsti in continua espansione). Con un ribaltamento di prospettiva, che inevitabilmente incide sui paradigmi progettuali, occorre semmai riconoscere i limiti di sviluppo di un territorio, e su questi dimensionare un progetto compatibile che riduca il più possibile gli sprechi di infrastrutture (la costruzione di nuove infrastrutture spesso finisce per comportare la dismissione o il sottoutilizzo di quelle esistenti, che in molti casi presentano ancora significativi margini di utilizzo). Senza paura di mettere in discussione decisioni già prese (6).

[Andrea Vergano]

22.8.18

(1) Marchese U., (1962), “La mancanza di spazio e di comunicazioni condiziona lo sviluppo dell’economia genovese”, Genova, n. 4.

(2) Fuselli E., (1955),“I problemi urbanistici di Genova e del suo territorio”,Urbanistica, n. 15-16.

(3) Assereto G., Doria M., (2007), Storia della Liguria, Laterza, Roma-Bari.

(4)“I creatori e i fautori del mondo dell’autostrada lo presentarono come l’unico mondo moderno possibile: opporsi a loro ed alle loro opere voleva dire opporsi alla stessa modernità, combattere contro la storia e il progresso […]. Questa strategia era efficace perché, infatti, la stragrande maggioranza degli uomini e delle donne moderni non intende opporsi alla modernità: recepiscono i suoi stimoli e prestano fede alla sua promessa, anche quando si trovano sulla sua strada”. Berman M., (1982), All that is Solid Melts into Air. The Experience of Modernity, New York, Simon and Schuster; trad. it., (2012), Tutto ciò che è solido svanisce nell’aria. L’esperienza della modernità, Il Mulino, Bologna.

(5) Scandurra E., (2003),Città morenti e città viventi, Meltemi, Roma.

(6)Un esempio in questo senso era stato fornito da Paolo Rigamonti che, sulla base dell’esperienza svizzera di abbassare la quota dei trafori storici, “spostandoli” alla base delle asperità montuose, per diminuirne la pendenza, aveva avanzato una proposta (rimasta inascoltata), più economica e dai tempi di realizzazione più rapidi, alternativa al progetto del terzo valico. Rigamonti P., (2012), Genova e i valichi ferroviari. Analisi e proposte, documento disponibile online.