Emmanuele Lo Giudice. Le architetture corsare di Yona Friedman

Spache Chain ragazzi - foto Emmanuele Lo Giudice

Le parole nel loro esistere tra le righe, hanno sempre la forza di dare significato alla nostra realtà. Per questo le parole non sono mai innocenti; sempre cercano una loro sostanza, creano spazi e luoghi, così come le definizioni, che cercano di separare, di distinguere e nel contempo di prendere delle posizioni. Quest’ultime a volte possono essere dannose, in quanto danno vita a dei recinti difficili da scavalcare, e per tal motivo non vanno mai prese troppo sul serio.

Cercare una definizione per un architetto come Yona Friedman non è cosa facile e forse non necessaria. Esistono molti Yona Friedman, nessuno dei quali simmetrico all’altro, ma sempre coerente l’uno con l’altro: l’architetto, l’urbanista, il fisico, il filosofo, il sociologo, il soldato, il muratore, il designer, l’artista, il regista, il biologo, il narratore. La sua vita è come il suo pensiero: erratico, mobile, avvincente, spiazzante, ma in esso ritroviamo sempre un’unità del molteplice al di sopra di ogni interpretazione. Ogni tentativo di esaurire la sua figura in un modello totalizzante e inclusivo, si è sempre risolto in un falso, perché la sua ricerca si rivela sempre refrattaria a modelli unitari. Questa ha difatti sempre abbracciato vari campi proponendo lo sviluppo continuo di un progetto teorico come scelta e strumento di un agire concreto in continua trasformazione, . rendendo la sua opera ed il suo pensiero molto difficili da inquadrare dentro un preciso campo disciplinare.

Yona Friedman è un architetto per titolo, ma non è semplicemente un architetto o per lo meno non è un architetto come lo si intende comunemente. È sempre stato poco interessato a costruire edifici, ritenendo più importante lavorare sul modo di percepire e pensare l’architettura e la città, concentrando le sue energie non sulla realizzazione di oggetti architettonici, ma sulla elaborazione di testi e disegni.

Negli anni cinquanta e sessanta, nel proliferare dei vari movimenti e rivoluzioni concettuali di quegli anni, Friedman è stato definito ed identificato semplicemente come un architetto utopico, rimanendo legato a questa figura e a quel periodo storico denominato da Reyner Banham come “età della megastruttura”. Questo lo ha chiuso in un universo in parte a lui estraneo, tralasciando il vero significato del suo messaggio. L’evolversi della storia ha poi emarginato per lungo tempo questo architetto, tenendolo in oblio per quasi 50 anni, pur riconoscendogli una fondamentale influenza nel mondo dell’architettura.

Yona-Friedman-studi-sulla-Ville-Spatiale,-1959Yona Friedman, Ville Spatiale, 1959

In questi ultimi anni possiamo invece constatare una sorprendente ed esponenziale attenzione verso il suo lavoro, col proliferare di continue esposizioni tematiche in tutto il mondo, accompagnate anche dalla ristampa di alcuni dei suoi libri. Basti citare Utopie Realizzabili sicuramente uno dei suoi libri teorici più importanti (prima edizione 1974 e ristampato nel 2008), o la nuova proposta di “Tetti”, un libro di lunga gestazione uscito in questi mesi, che presenta in gran parte la ristampa dopo quasi 30 anni dei rari manuali da lui realizzati per l’UNESCO. Quello a cui stiamo assistendo è una vera e propria revisione dell’immagine che si aveva nei decenni passati che lo vede trasformasi, da marginale architetto utopico degli anni 50, a punto concreto di riferimento delle nuove generazioni e per il mondo intellettuale contemporaneo. Le recenti mostre personali di Parigi, Shangai, Londra, fino alle sue ultime mostre romane – da quella della Casa dell’Architettura da pochi mesi conclusa, che espone tuttora nel suo giardino in modo permanete alcune sue opere (uno “space chain” e due rarissimi oggetti di design), alla grandiosa mostra del MAXXI che si concluderà a fine Ottobre – ne sono oggi un chiaro esempio.

Il suo lungo esilio, che oggi sembra quasi un lontano ricordo, è stato causato principalmente da due fattori. Il primo era legato in gran parte ad un malinteso generalizzato da cui nessun architetto e critico si è salvato: legare il lavoro di Yona Friedman esclusivamente ai disegni urbani della Ville Spatiale, ed associare questi ad una semplice, seppur complessa, proposta segnica ed utopica di un grande oggetto architettonico, emarginando tutti gli altri aspetti.

Il secondo era legato alla concezione del mondo che ha sempre avuto Friedman, lontano dalle formule proprie del capitalismo. All’interno dei suoi testi troviamo infatti elaborazioni concettuali che non rientrano né all’interno della tradizione dei maestri della modernità, né nella visione post-moderna del modo di concepire la città e lo spazio abitabile. Quello che ha sempre proposto Friedman è un mondo che vede protagonista una società costruita sulla reciprocità e sulla condivisione e, se questa realtà oggi ci sembra più vicina ed attuale che mai, negli anni in cui era stata concepita, appariva come un teoria lontana e impossibile da realizzare.

La sua proposta è stata quindi subito archiviata come utopica, soffermandosi superficialmente solo ed esclusivamente sugli aspetti puramente grafici escludendo, e in tal modo fraintendendo, l’intera opera di Friedman. Sotto questo aspetto l’impatto grafico delle sue rappresentazioni è sempre stato un limite rispetto al suo complesso pensiero.

Riguardando oggi la sua opera, ci rendiamo conto che dovremmo imparare a leggere queste sue rappresentazioni come un invito ad un nuovo programma politico per una diversa maniera di percepire e interpretare il mondo, l’architettura e la città. Ma queste immagini non vanno isolate, vanno lette come corollario dei suoi testi. La sua proposta si muove in questo senso, dentro gli schemi di una ricerca, che non programma un esito finale sintetizzabile in un’immagine, ma si basa principalmente sull’idea di un processo architettonico, che produce comunicazione e relazione tra le parti ancora prima di produrre oggetti. L’attenzione di Friedman si è da sempre incentrata sul nostro modo di relazionarsi con lo spazio, rispetto al quale l’uomo contemporaneo ha un rapporto continuamente mobile e mai chiaramente definito (se non del tutto improvvisato). La sua teoria si basa quindi su forme di condivisione e strutture di dialogo quale fulcro di una meccanica sociale che diventa concreta architettura urbana.

Yona-Friedman-Ville-Spatiale---New-York,-1964Yona Friedman, Ville Spatiale, New York 1964

Se proviamo quindi ad analizzare di nuovo i suoi disegni della Ville Spatiale, la prima cosa che notiamo è la presenza di una città stratificata. Questa idea di stratificazione – la città contemporanea, nuova, dinamica ed in continua trasformazione nel cielo; e quella antica, immobile, statica e monumentale nella terra – è stata accolta fin da subito come una grande innovazione concettuale. La prima cosa che ci raccontano queste immagini è che per costruire la nostra città futura non serve distruggere il nostro passato, come era stato proposto fino a pochi anni prima dai maestri della modernità, ma bisogna cercare uno scambio continuo. Presente e passato sono inconciliabili, tuttavia è necessario il rispetto delle due realtà. Il futuro non si costruisce su delle rovine, ma sul dialogo.

Con questi semplici disegni proposti a partire dalla fine degli anni cinquanta, assistiamo con Friedman ad un taglio netto col pensiero del movimento moderno proponendo una presa di posizione dialettica, pacifica e di confronto, con evidenti posizioni filosofiche e politiche su un’idea di città come sovrapposizione di due temporalità distinte.

La sua Ville Spatiale cresce e si sviluppa non su tre, ma su quattro dimensioni. Una griglia spaziale che si estende in altezza, in orizzontale ed in profondità dove al suo interno vivono i suoi creatori: l’umanità stessa. I cittadini, gli “urban user”, sempre pronti a trasformare, a distruggere e a ricostruire continuamente il loro mondo, rispettando il proprio passato. E la quarta dimensione? La quarta dimensione è il tempo.

Uno degli aspetti sottovalutati di questi disegni è che non mostrano un’immagine statica ma solo un momento, un’esperienza temporale indefinita, il frame di una città in continua trasformazione e mutazione, non di certo un progetto urbano finito. Il valore temporale è difatti uno dei fattori più interessanti e poco indagato del lavoro di Friedman. La città da lui proposta, non è mai costruita per l’eternità ed il suoi artefici non sono mai un “principe” di turno e il suo architetto, ma sono esclusivamente i cittadini, la comunità urbana. Questa città, che si specchia e si confronta con la città antica e con la sua l’architettura eterna, sovrapponendosi ad essa, crea con la sua presenza sospesa, un forte contrasto poetico tra due realtà e concetti temporali distinti. La sua essenza fluttuante è quella di una città effimera composta da architetture temporanee che sempre si adattano, si trasformano, compaiono e scompaiono, in un ritmo quasi stocastico.

La città e l’architettura, non sono più pensati come oggetti immutabili del tempo, ma come processi temporanei che si adattano continuamente alla realtà immanente, dispositivi mobili per una società mobile. Nella loro precarietà temporale, con questi lavori Yona Friedman prefigura, la costruzione di un progetto politico per la città e per l’architettura, che non mantiene uno statuto normativo, ma riveste il ruolo di una consapevolezza critica condivisa, da applicare di volta in volta nei casi più specifici.

La sua città non è un progetto autistico, ma è un’opera aperta in continua “lotta” con la realtà che la circonda per adattarsi ad essa. Per questo vedremo la sua Ville Spatiale confrontarsi con le città di tutto il pianeta: Parigi, Venezia, Roma, New York, Tunisi, ecc … Si instaura quindi un corpo a corpo con il luogo in cui si radica, proponendo non un’idea stabile, ma una possibile ipotesi spaziale perennemente provvisoria.

Questi disegni non ci raccontano quindi il progetto di un segno urbano sul territorio ma, un programma dialettico all’interno di un preciso territorio urbano. La costruzione di frammenti temporali per un processo di riformulazione antropologica dell’abitare contemporaneo. Un altro aspetto interessante di questi lavori è il loro valore spaziale. La Ville Spatiale si sviluppa nello spazio libero dell’aria, creando nel cielo un territorio nuovo; fissa nella terra “i piedi” della sua struttura, lasciando “il corpo” sospeso in aria. È al suo interno che prende forma la città con le sue architetture che, malgrado la loro apparente solidità, si comportano in realtà come formule gassose, abbozzate nei suoi disegni con semplici e densi rapidi segni sulla carta. Col passare degli anni il suo modo di disegnare cambia, e la struttura viene disegnata in maniera sempre più evanescente ed elitaria, fino quasi a scomparire, lasciando l’architettura della città come presenza leggera nel cielo.

Letta così, la proposta di Friedman ha indubbiamente una forte valenza poetica: un invito a colonizzare il cielo, introducendoci verso una architettura non necessaria che si dissolve nell’aria, ed in essa e con essa si confonde. Come nuvole ingabbiate, la sua città cambia forma continuamente, senza un disegno prestabilito o progettato. Per capire appieno la sua idea ed il suo progetto urbano, dobbiamo però abbandonare momentaneamente i suoi disegni e prendere i suoi libri, per andare oltre lo studio grafico della sua proposta.

Partiamo anzitutto col dire che per Friedman la città, come lui stesso scrive, è “l’ossatura materiale di una società” (Y.F. 2008, pag.153). Nei suoi libri, a differenza che nei disegni Friedman ha modo di evidenziare e chiarire il fulcro della sua ricerca. Questa verte, non tanto nella costruzione materiale e corporea della città, ma punta la lente in un’altra direzione, verso la società, ed in particolare verso le connessioni che questa instaura con lo spazio urbano. Nello specifico, quello che gli interessa mettere in evidenza è che la comunicazione, o meglio il sistema di relazione tra cose, persone ed infrastrutture, ha un limite. Non si può interagire con tutto e con tutti e questo limite, secondo Friedman, è mezzo imprescindibile ed elemento fondativo primario per la costruzione di una città, oltre che “naturale strumento sostenibile” di ogni individuo nel relazionarsi col mondo. Questa teoria trova nel suo libro Utopie Realizzabili (1974) e nel Gruppo Critico, la sua definizione concettuale e materiale, introducendo difatti nell’urbanistica, un fatto fondamentale: la dimensione di una urbanità sociale.

Recuperando quindi il concetto del Gruppo Critico del 1974, ci troviamo oggi nelle mani uno strumento formidabile contro l’indeterminazione urbana dell’infinita città post-moderna del secondo millennio. Dentro la città generica appare l’umana necessità di una fine, la presenza un carattere fisiologico, un limite che diviene strategia operativa per la costruzione urbana e per una sua “forma” misurabile. Le connessioni, tra città fisica e società, si riducono in tal modo a “semplici” questioni di organizzazione e relazione.

Per lui la realtà, non è legata a verità solide prestabilite, ma si situa all’interno di una costante ricerca che concepisce la contemporaneità come un universo gassoso, in cui tutto muta e si trasforma senza mantenere alcuna forma possibile, aprendo la strada a sempre nuove ed impreviste operazioni concettuali dove passato e presente convivono insieme, malgrado le loro profonde differenze.

È evidente che all’interno di questo programma, progetto architettonico e sociale sono profondamente legati: non si può pensare l’uno senza l’altro, e farlo sarebbe un grosso errore. Il valore politico dell’architettura diviene quindi, un elemento centrale per una politica della condivisione di carattere civile e sociale, di un progetto da costruire insieme.

Per Friedman l’architettura deve essere strumento di convivialità accessibile a tutti, realizzata con materiali facili da reperire e strutturata come una piattaforma interattiva, regolamentata dallo sharing e da una politica pluralista. Un’architettura che si modifica con l’utente e per l’utente, rappresentativa non di un potere istituzionale, ma a servizio della persona. A differenza dell’architettura di potere, questa non necessita d’imporsi e di resistere al tempo, ma ha bisogno solo di una capacità di gestione e di trasformazione. Attraverso questo processo il design – termine inteso in senso ampio come strumento di programmazione della forma – diventa chiave e ricerca interpretativa collettiva, verso un pluralismo ed una narratività condivisa.

Abbandonando la costruzione di una forma-oggetto, Friedman superare così il freddo protagonismo monumentale e spettacolare degli edifici istituzionali, proponendo un’architettura come cornice subordinata alla vita e alla creatività umana, costruita con l’uso di materiali poveri ed evanescenti. Un’architettura “senza edificio” e “senza architetto”, che trova espressione nell’evoluzione di uno spazio processuale e “improvvisato”. Le sue architetture, come le sue città, sono quindi concepite come network sociali, “il sistema operativo” di un dispositivo mobile che risponde solo alle esigenze dei suoi utenti.

Ciò che crea Friedman è il concetto di un’architettura come strumento subordinato alla vita e alla creatività umana e per questo mai stabile, ma sempre provvisoria. Un lavoro il suo di continua sperimentazione, che trova nell’indeterminazione, nella partecipazione, nell’improvvisazione, nella condivisione e nella comunicazione i fondamenti della sua architettura. Nei suoi lavori, non è più l’architetto l’artefice della sua architettura, ma è la comunità stessa. Una comunità che non vuol essere programmata, ma che vuol essere lasciata libera di progettare la propria “piattaforma” urbana e architettonica. L’architetto perde in tal modo il suo protagonismo come autore di forme, acquistando il nuovo ruolo di autore di processi, affidando ad altri il compito di costruzione e definizione della forma, che rimane un elemento instabile e transitorio.

Space Chain - presso la Casa dell'Architettura di Roma -2017 -fase di montaggio, foto di Cecilia AnselmiYona Friedman, Space Chain alla Casa dell’Architettura,Roma 2017, fotografia C.Anselmi

Sotto quest’ottica i suoi interventi temporanei a partire dai suoi celebri Space Chain Museum, ci appaiono chiaramente, non come installazioni scultoree, ma come delle vere e proprie architetture. Delle “macchine” espositive che, nella loro essenza strutturale, si comportano come il “software di un sistema” per nuovi musei effimeri densi di messaggi per una attiva politica urbana. Formule interattive di architetture “sovversive” con carattere performativo. Le potremmo interpretare quindi come delle “architetture corsare”, riprendendo un termine tanto amato da Pasolini. Opere che vanno contro l’ordine diffuso di un linguaggio edonista e segnico che ha caratterizzato l’architettura contemporanea di questi ultimi decenni. Non è un caso che, durante un breve incontro che ebbi pochi anni fa col poeta Valentino Zeichen, mostrandogli alcuni progetti dei musei di Yona Friedman, questi li aveva interpretati come “una catena di discorsi”, lasciandomi l’immagine del racconto di un luogo dialettico e di lotta della città. Opere dense di parole che non si impongono nello spazio, ma si mostrano come potenti leggere presenze capaci di dissolversi nell’aria come una nube.

Queste architetture corsare nella loro semplicità poetica, difatti raccontano il loro andare contro corrente. Vanno all’assalto, sono – rispetto alle “architetture ammiraglie” dei grandi studi stellati – pronte a sconvolgere e a mettere in crisi il mondo architettonico contemporaneo, “a mani nude”. L’aspetto più interessante è che questi musei, propongono un linguaggio immanente mai uguale a se stesso, ma che diventa un dispositivo libero dall’uso programmatico del progetto, dove il pubblico non è spettatore, ma principale artefice della configurazione dei propri spazi. Queste opere, essendo costruite dalle persone in maniera del tutto arbitraria e contingente a loro uso e consumo, cambiandone loro stessi la forma, la dimensione e la posizione, queste opere, al pari delle cattedrali gotiche, sono delle vere e proprie architecture without architects, forme di una memoria collettiva.

Una posizione questa che ricorda molto, sia le operazioni compiute dagli artisti concettuali della metà degli anni sessanta in poi, sia il pensiero contemporaneo di una possibile ”architettura open source”, priva però di quell’ottimismo verso la tecnologia digitale che ritroviamo per esempio in Carlo Ratti. Non bisogna dimenticare infatti che non è mai la tecnologia il motore di una trasformazione, ma è solo il mezzo con cui le trasformazioni sociali possono esprimersi e incrementarsi. Il motore della trasformazione è sempre la comunicazione, intesa come fisicità della interrelazione tra le parti regolata dalle persone stesse, che diventa, come in questo caso, visione di costruzione urbana ed architettonica.

Come negli Scritti Corsari di Pasolini, dove il poeta lascia al lettore il compito di ricomposizione del suo libro, Friedman affida ai suoi utenti il compito della ricostruzione complessiva della città e dell’architettura, attraverso un’interpretazione multipla e condivisa. Al centro degli scritti corsari di Pasolini, come nel lavori di Friedman, c’è la società, con le sue debolezze e le sue paure, con i suoi sogni, progetti e visioni future. Parafando Pasolini, lasciamo quindi al cittadino, all’user le istruzioni per dar forma all’opera della nostra città e architettura futura, in quanto:

“È lui che deve rimettere insieme i frammenti di un’opera dispersa e incompleta. È lui che deve ricongiungere passi lontani che però si integrano. È lui che deve organizzare i momenti contraddittori ricercandone la sostanziale unitarietà. È lui che deve eliminare le eventuali incoerenze (ossia ricerche o ipotesi abbandonate). È lui che deve sostituire le ripetizioni con eventuali varianti (o altrimenti concepire le ripetizioni come delle appassionate anafore).”

(P.P.Pasolini, Scritti Corsari, 1975)

[Emmanuele Lo Giudice]

28.9.17 Peer review EP