Luigi Manzione. Autobiografia scientifica (e non) di Buckminster Fuller

Scorrendo l’autobiografia di Richard Buckminster Fuller, o meglio il monologo registrato a più riprese dal genero Robert Snyder, nessuno direbbe che Bucky sia nato centoventi anni fa (siamo ancora in tempo a ricordarlo). E come il film proiettato al contrario che il vulcanico Fuller cita come esempio per mostrare il vertiginoso percorso all’origine della esistenza materiale di un individuo, questo libro – uscito nel 1980 e, che io sappia, mai tradotto in Italia (1) – ci proietta in una visione del mondo, prima ancora che dell’architettura, con cui oggi continuiamo a misurarci. Un punto di vista unitario da ingegnere-architetto-umanista sull’uomo e sul pianeta, al di là delle specializzazioni e dei confini disciplinari. Che fece dire a John Cage: “Quando penso alla vita che diventa arte, penso a Fuller.” Un pensiero globale emerge con chiarezza dalle parole di Fuller, abile pedagogo e brillante oratore; una Design Science basata sull’idea di “fare più con meno” (more-with-lessing) in un dominio più etico che estetico (dove il secondo consegue piuttosto come un riflesso positivo del primo).

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A uno che dall’inizio ci avverte che “ciascuno di noi è una entità strutturale complessa, programmata dalla nascita” (p. 23), occorre dare fiducia a priori. Ma sarà ben ripagata. L’incipit della storia di Bucky è brillante: “siccome non vedevo molto, ho imparato a prevedere”. Un pre-vedere che salta agli occhi anche dalle prime inquadrature del documentario Reflections: R. Buckminster Fuller girato da Robert e Jaime Snyder nel 1977 (2). Nel racconto, la complessità delle invenzioni fulleriane, come le cupole geodetiche, nasce dai tentativi di un bambino dal forte deficit visivo qual era (“io non vedevo niente”) di mantenere in equilibrio piccole costruzioni realizzate con stuzzicadenti e piselli. Provando e riprovando, Fuller scopre che, a differenza delle altre forme geometriche, il triangolo possiede una buona tenuta. E lo adotta, per sempre. Non solo; teorizza ben presto che “dietro tutte le forme, tutti i processi della natura (…) si nasconde una struttura triangolare.” (p. 25)

Il carattere assoluto di certe sue affermazioni è temperato dal rifiuto di essere uno specialista, dalla continua ricerca delle sinergie fino a diventare un “partigiano della conoscenza globale” (p. 29). L’ambizione di abbracciare l’insieme, e non solo il particolare, non fa però di Fuller un improvvisatore. L’intuizione non si oppone al pensiero, ma lo favorisce, gli apre e “ci apre continuamente nuove porte” (p. 35).
In questo è aiutato da un innato, quasi maniacale senso dell’ordine. Empirismo, utopia, fiducia nella intuizione, il tutto condito con una buona dose di ottimismo legato alla sua particolare collocazione storica e geografica, convivono nei numerosi progetti (di ogni genere) di Fuller (3). Come nel Chronofile, un’impresa impensabile all’epoca di Google (e per certi aspetti precorritrice), dove classifica le sue note in ordine rigorosamente cronologico, documentando la propria vita dal 1920 al 1983 (ad intervalli di pochi minuti) in un archivio personale di incredibili dimensioni.

L’entusiasmo di Bucky per la scienza lo porta ad interrogarsi, giovanissimo, sui fenomeni naturali, in particolare sulla formazione delle bolle in natura (osservando la scia spumosa lasciata sull’acqua dalla sua canoa autocostruita). Se il modello della bolla – riflette Fuller – è determinato dal numero π, visto che la natura non può fabbricare false bolle, ne deriva che la natura non utilizza il numero π. A parte il risvolto un po’ comico della cosa, Fuller parte da questo genere di considerazioni, oltre le formalizzazioni matematiche, nello studio delle costruzioni naturali, in particolare delle bolle all’origine delle cupole geodetiche. Questo metodo lo conduce ad esplorare i processi della natura e della società con l’ausilio principale dell’esperienza e dell’osservazione. Tra i risultati emerge la nozione di tensegrity, o coesione in tensione (tensional integrity), e in generale della compresenza, o sinergia, di aspetti in opposizione solo apparente (tensione-compressione, concavo-convesso, etc.). Da queste riflessioni basate sugli scambi che si producono in natura, Fuller è condotto ad invenzioni concrete – da lui denominate “prove di verità” – che gli permettono di mettere a confronto teorie e realtà.

Con analogo ottimismo, investe tutto sulla capacità dei singoli individui di cooperare al bene comune. Dalla esperienza accumulata nella costruzioni di navi da guerra, recupera il principio del “meno è più”, inteso dal punto di vista etico nel senso di “trasformare le risorse del pianeta facendo più con meno, affinché sia possibile dare a tutti gli uomini secondo i loro bisogni.” (p. 53) Il Dymaxion voleva essere appunto una “prova di verità”, all’origine della nozione di tensegrity, tesa proprio a dimostrare che è possibile “fare più con meno”. La Dimaxion House del 1929 – un capolavoro di semplicità e di economicità – è collocata su un pilone leggerissimo secondo il modello di una ruota di bicicletta. La forma per Fuller non è mai il risultato della funzione; piuttosto del valore etico di ciò che si progetta. Quando immagina il bagno di questa casa pensa infatti ad un sistema di filtraggio e riciclaggio dell’acqua che consenta di consumare non più di un litro d’acqua per una doccia di dieci minuti.

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Quando si parla di architettura open source, condivisione e accesso alla casa per tutti, si dovrebbe ripensare l’idea fulleriana di “fare più con meno”. L’edilizia standardizzata e industrializzata si è rivelata fallimentare perché quasi mai è riuscita a mettere d’accordo economia e qualità, comfort ed estetica. La forte domanda di abitazioni di persone non aventi accesso al libero mercato non può essere oggi più agevolmente soddisfatta realizzando modelli residenziali la cui struttura sia rigorosamente progettata per soddisfare certi requisiti, mentre gli spazi interni siano lasciati all’iniziativa e alla creatività degli abitanti?(4) La ricerca della soluzione tecnica corretta non deve essere però fine a se stessa. Ispirandosi al metodo appreso durante il suo servizio nell’American Navy, nel progettare il prototipo della Dimaxion accosta la sala da bagno e la cucina, così da raggruppare gli impianti. Soluzione poi diventata corrente in edilizia, ma all’epoca raramente applicata. Non a caso, nelle conversazioni con Robert Snyder, Fuller ricorderà di essere scioccato che fino ad allora “nessuno scienziato si fosse ancora dedicato ai problemi di tubazioni domestiche”.

All’inizio degli anni ’40, durante un viaggio in Missouri, Fuller notò un insieme di silos per il grano realizzati in lamiera ondulata galvanizzata. Questi silos gli apparvero subito come un modulo ideale per le case prefabbricate di produzione industriale. Tra il 1944 e il 1945 venne costruita la nuova casa Dymaxion, a cui lavorava dal 1927, realizzata in fabbrica con l’impiego di materiali (alluminio, acciaio inox e materie plastiche) e strumenti dell’industria aeronautica.

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Mentre produce le sue “prove di verità”, durante il soggiorno al Black Mountain College in North Carolina – dove Joseph Albers l’aveva chiamato come visiting professor nel 1948 – Fuller si misura come attore ne La Piège de Méduse di Erik Satie (nel ruolo principale del barone Medusa), con John Cage e Merce Cunningham, nell’ambientazione di Willem de Kooning. “Mi sforzavo – racconta Fuller – di impormi un’autodisciplina, così mi sono detto che fare esperienza di cose mai fatte prima sarebbe stata una nuova forma di disciplina.” (p. 99) Una disciplina assunta, come il barone Medusa, tra ironia e curiosità.
Che lo porterà nel corso della sua lunga vita ad elaborare e sperimentare concetti, metodi, tecniche senza rinchiudersi nei compartimenti e nelle ossessioni della scienza, della tecnica e dell’arte. Alla base della visione fulleriana risiede la nozione di sinergia. Nella complessità dei processi legati alla vita e all’universo, Fuller legge in termini sinergici il comportamento di un sistema nel suo insieme, non deducibile da quello dei singoli elementi che lo compongono. Anche qui il problema è di natura etica oltre che conoscitiva: nella scienza, come nella società, mettere in relazione le parti e il tutto significa agire nell’interesse di entrambi e, in una prospettiva a lungo termine, dell’umanità intera. “Quando cominciate a capire che vi trovate a bordo di un vascello spaziale, vi fate a poco a poco un’idea della straordinaria macchina sulla quale siete imbarcati”(5). (p. 113) Fuller inventa appunto “macchine” per il futuro dell’uomo e del vascello Terra. La cupola geodetica si innesta perfettamente in questa logica. Si è visto che, da bambino, Bucky costruiva piccole strutture con stuzzicadenti come aste e piselli come nodi. Il triangolo ne costituiva la figura di base. In quanto unico insieme complesso capace di autostabilità, per lui il triangolo sarà di per sé la struttura. Eppure nell’immaginario consolidato un edificio prende anzitutto la forma di un cubo, una figura la cui stabilità è piuttosto trascurabile nel senso del massimo rendimento con il minimo di sforzo. Un cubo non potrà mai dare una struttura fondamentale, con un dentro e un fuori quasi consustanziali. Occorreva aggiungere un altro punto al triangolo dei giochi d’infanzia di Bucky: è così che nasce il tetraedro, quindi l’icosaedro. Struttura di base della natura, intrinsecamente stabile, ed elemento primario della cupola geodetica. Non solo: una cupola geodetica è una sorta di fenomeno naturale, dello stesso ordine delle pure traduzioni esteriori in forme visibili di modi di abitare. Di queste possiede la semplicità (concettuale più che costruttiva) e la stabilità. In scala modesta, come il padiglione (realizzato in cartone) degli Stati Uniti alla Triennale di Milano del 1954, “si potrebbe immaginare di stampare un giorno delle cupole allo stesso modo in cui si stampa un giornale” (p. 131).

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Dalla testimonianza di Snyder, Fuller calcolava alla fine degli anni ’70 circa trecentomila cupole geodetiche disseminate sulla superficie del pianeta. Un pianeta che Bucky conosceva bene. Tanto da giocare il suo World Game sulla carta Dymaxion, rappresentazione non deformata della terra, così da compilare una sorta di infinito catalogo del mondo.6 L’accostamento della cupola con il giornale non era ancora maturo; quello con la carta Dymaxion si era invece già concretizzato. Nel numero di marzo 1943, Life Magazine pubblica un inserto con la Dymaxion World Map e le relative istruzioni per il montaggio. Nella mappa di Fuller le tradizionali opposizioni nord-sud ed est-ovest appaiono relativizzate: come un’isola in un oceano, nella rappresentazione globale del pianeta l’unica relazione essenziale è quella dentro-fuori. La prospettiva globale di Bucky si invera quindi nel World Game, un “mezzo per cortocircuitare la politica, l’ignoranza, i pregiudizi e la guerra”, il cui scopo è “mettere gli uomini del mondo intero di fronte ai fatti ed incitarli a trovare insieme soluzioni adeguate.” (p. 161) Nel mix di utopismo e ottimismo, questo “gioco” pone la Science Design al servizio dell’umanità per “migliorare le prestazioni delle risorse mondiali in rapporto al tempo investito, all’energia consumata e al saper-fare messo in opera.” (p. 163)

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È il “nuovo mondo” che si annuncia; il mondo del “fare più con meno”. La visione di Fuller è chiara. Ed è quella di uno che ha imparato a vedere diversamente, lontano dalle consuetudini. Teoricamente corretta, peraltro, se traguardata dall’epoca della globalizzazione. Ma le soluzioni non potevano certo tener conto della infinita complessità del “mondo invisibile”, su cui la Dymaxion Map comincia appena a proiettare nuova luce. Impossibile pensare, con mezzo secolo di anticipo, che i problemi globali richiedono soluzioni locali, e soprattutto un temperato ottimismo. Instancabile visionario, Fuller progetta cupole volanti abitate, ritenendo che le città statiche non potranno più accogliere le nuove agglomerazioni umane. Per le metropoli esistenti immagina invece grandi coperture vetrate, come quella disegnata su Manhattan.

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“Se si ricopre qualcosa della taglia di una città – ragiona Fuller – l’energia si conserverà così bene che tutti i nostri grandi problemi, il riscaldamento, la climatizzazione (…) e i bisogni enormi di energia da essi implicati si troveranno considerevolmente ridotti. Sotto una cupola delle dimensioni di una città non si percepirà la sovrastruttura; la luminosità sarà solo un po’ attenuata.” (p. 177) In fin dei conti – ed è questa la posta in gioco del World Game – Fuller non propone soluzioni semplificate, con istruzioni per il montaggio (e, laddove le offre, si tratta di ipotesi oggi poco o per niente praticabili). L’interesse risiede invece nell’orizzonte di lungo periodo che Bucky intravede, rompendo – forse suo malgrado – con l’ottimismo tecnologico dominante negli ultimi due secoli. È quanto mai necessaria, ci dice, una rivoluzione del progetto di futuro nel senso di una Comprehensive anticipatory design science: ancora una visione globale che deve coinvolgere la conoscenza della natura e l’intelligenza collettiva per “fare avanzare le cose”, senza dimenticare il valore e la forza dei singoli individui. Senza illudersi troppo, dovremmo aggiungere, sulla infinita capacità di sopportazione del vascello Terra.

[Luigi Manzione]

Peer review by Emanuele Piccardo 18.11.15

(Tutte le immagini sono tratte da R. Snyder, Scénario pour une autobiographie, Paris, Images Modernes, 2004)

(1) R. Snyder, Buckminster Fuller: An Autobiographical Monologue/Scenario, New York, St. Martin’s Press, 1980.

Citiamo dalla traduzione francese: Scénario pour une autobiographie, Paris, Images Modernes, 2004 (i riferimenti alle pagine delle citazioni, da me tradotte in italiano, sono indicate nell’articolo).

(2) V. https://www.youtube.com/watch?v=XFhCp0BIhUw

(3) V. http://bfi.org/

(4) Cfr. il mio testo Architettura Open Source. Verso (il ritorno a) un futuro vernacolare?, pubblicato su zeroundicipiù

(5) V. anche R. Buckminster Fuller, Manuel d’instruction pour le vaisseau spatial “Terre”, Zurigo, Lars Müller Publishers, 2010.

(6) R. Buckminster Fuller, Inventory of World Resources: Human Trends and Needs, Carbondale, World Resources Inventory, 1963. V. anche https://bfi.org/design-science/primer/world-design-science-decade