Luca Guido. Allestimenti da Pietà

Palazzo Rosso. Foto di Diego Terna

Franco Albini, allestimento Palazzo Rosso, Genova 1952-62, fotografia Diego Terna

Alcuni recenti interventi di interior design ci inducono a riflettere su uno dei temi più dibattuti del panorama architettonico italiano: come conservare la nostra storia?

Interrogativo ambizioso che necessariamente va esteso anche alla storia più recente e dunque agli interventi architettonici della seconda metà del Novecento. Ma tra i tanti interventi contemporanei cosa conservare? Come farlo? È legittimo modificare un’opera architettonica di qualità, progettata in passato, cercando di migliorarne alcuni aspetti su cui oggi siamo più sensibili o più esigenti?

Si tratta in fondo di valutazioni capziose poiché se in astratto è insensato pensare di “migliorare” le opere di maestri come Giuseppe Terragni o Carlo Scarpa, nella pratica possiamo scontrarci con ragioni di ordine strutturale, tecnologico, perfino funzionale, che impongono di affrontare la questione.

Il rapporto che intercorre tra conservazione e valorizzazione del patrimonio culturale rappresenta dunque un territorio ricco di insidie e opportunità per ogni progettista a confronto col tema. In un articolo apparso nel domenicale del Sole 24 ore1, lo storico dell’architettura Fulvio Irace ha indicato con precisione ai suoi lettori il punto di origine e l’attualità della nostra querelle: la revisione di alcune scelte progettuali operate da Franco Albini nel progetto di restauro e riallestimento di Palazzo Rosso a Genova. Predisposto nel 1952, su commissione della soprintendente Caterina Marcenaro, il progetto albiniano di Palazzo Rosso si colloca temporalmente subito dopo il restauro di Palazzo Bianco ed è contemporaneo ai lavori per il Museo del Tesoro di San Lorenzo, interventi dello stesso progettista ritenuti unanimemente esemplari nel campo degli allestimenti museografici.

Quale in concreto il motivo della polemica? La rimozione di una moquette, installata negli anni ’80 a sostituzione del consunto feltro rosso apposto da Albini, e oggi divenuta insicura per i visitatori. La questione non è banale come in apparenza potrebbe sembrare poiché Piero Boccardo, l’attuale direttore dei Musei di Strada Nuova che nel 2013 ne aveva autorizzato la rimozione, ha deciso di lasciare in vista i policromi pavimenti ottocenteschi “emersi” al di sotto della moquette.

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Il nuovo riallestimento di Palazzo Rosso

Tuttavia, se come denuncia Irace, il programma di Boccardo non è infondato o irrispettoso alla luce dell’attuale sensibilità nei confronti dei beni culturali, dobbiamo riflettere sul fatto che qualcosa del progetto di Albini è andato perduto, senza che questa affermazione evochi l’accusa di lesa maestà.

Ovviamente non è la moquette a rappresentare il vero problema, bensì è il fondamento ideologico su cui era nato l’intervento di Albini a Palazzo Rosso che rischia di andare perduto. Se si negano o non si comprendono le riflessioni critiche alla base di un importante progetto della museografia moderna, come è possibile provvedere alla sua conservazione e a quella del patrimonio contemporaneo?

Irace evidenzia attentamente che i pavimenti ottocenteschi furono ritenuti incompatibili col restauro in chiave seicentesca, operato e richiesto disinvoltamente dalla Marcenaro, e che il feltro rosso, apposto da Albini, interpretava abilmente l’idea di trasformare l’incredibile successione di appartamenti di Palazzo Rosso in un museo moderno, distante dalla conformazione di dimora patrizia in cui versavano gli spazi, conferendo “un’atmosfera moderna” al percorso museografico.

Dunque una specifica scelta critica, capace di introdurre nell’allestimento una altrettanto precisa nota cromatica, che costituisce uno degli elementi chiave del progetto poiché ne rappresenta l’aura moderna: aspetto che tuttavia Irace omette, preferendo parlare di “vaso di Pandora” e di “rimosso” a proposito dei pavimenti policromi ritrovati al di sotto della moquette, facendo credere al lettore sprovveduto che la scelta “moderna” di Albini sia sacrificabile di fronte al più “antico” pavimento.

Al contrario, sarebbe stato utile prospettare soluzioni alternative, come ad esempio un feltro o una moquette facilmente removibile, utile a proteggere i pavimenti e renderli visibili in determinate occasioni. Ad ogni modo il dibattito sembrerebbe aperto e stimolante, visto lo stato dei luoghi e la natura dell’intervento.

Dibattito che invece è stato negato a Milano, dove si è deciso di spostare la michelangiolesca Pietà Rondanini in una nuova collocazione museale, allestita da maggio 2015 nell’antico ospedale spagnolo del Cortile delle Armi del Castello Sforzesco, col fine di perseguire esigenze di funzionalità e di marketing, sollecitate dall’esibizionismo della politica milanese.

Nonostante il nuovo “allestimento” sia stato predisposto da Michele De Lucchi, progettista dotato ed esperto, la decisione si mostra nociva per svariate ragioni. In primo luogo poiché compromette l’allestimento predisposto dallo studio BBPR negli anni ’50. In secondo luogo poiché l’isolamento della Pietà di Michelangelo nella nuova collocazione, mette in evidenza la povertà intellettiva di una nazione piegata all’edonismo culturale, incapace di inquadrare criticamente un’opera d’arte all’interno di un più ampio percorso critico-narrativo.

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BBPR, allestimento Pietà Rondanini, Milano 1956-63

La Pietà Rondanini è parte di un racconto storico che, attraverso lo spostamento, si vuole negare. Il progetto di riordino dei musei del Castello Sforzesco concepito dai BBPR culminava, infatti, nella Sala degli Scarlioni e nella nicchia in pietra serena che oggi è stata privata del suo messaggio originario: la nicchia rappresenta un’evidente pausa nel percorso museale, oltre che un meditato momento di sospensione dell’apparecchiatura espositiva, necessario a collocare degnamente un’opera importante come quella di Michelangelo. Ma se la conferma dell’arrivo della Pietà tra le mura sforzesche avvenne a progetto avanzato, imponendo una revisione delle idee iniziali, il vincolo imposto da Costantino Baroni, il soprintendente dell’epoca, aveva contribuito a creare una soluzione estremamente efficace e poetica, ponendo la Sala degli Scarlioni in equilibrio tra due poli: quello popolare, rappresentato dalle sculture lombarde “minori” e quello aulico, rappresentato dall’opera di Michelangelo che suggellava l’arrivo postumo del maestro del ‘500 nella capitale meneghina.

Dunque in maniera simile a quanto accaduto a Palazzo Rosso, una semplice sottrazione finisce così per minare le scelte critiche fondamentali del progetto, snaturandone il significato senza cognizione di causa.

I promotori dell’operazione di spostamento, ammantandola di democrazia, si difendono dicendo che era necessario facilitare l’accesso ad un maggior numero di persone. Tuttavia si dimostrano contemporaneamente demagogici e superficiali poiché, in ambito culturale, il tema non è avere più turisti-paganti, bensì avere dei visitatori più preparati, più attenti a cogliere le valenze estetiche delle opere esposte. Obiettivi che non si raggiungono perseguendo una mentalità aziendalistica, né l’ostentazione da avanspettacolo, ma garantendo l’accesso alle informazioni storiche, fidelizzando gli utenti attraverso gli eventi temporanei, insegnando che le testimonianze del passato valgono in quanto frutto di un processo storico intellegibile criticamente attraverso comparazioni e analisi, piuttosto che come creazioni estemporanee di geni isolati, da separare dal resto delle collezioni museali.

Se l’idea della ricollocazione in altra sede fallisce nelle sue premesse ideologiche, pone dei dubbi anche il progetto di interior design impostato da De Lucchi. Un progetto che non assurge a vero e proprio allestimento, vista l’amenità delle soluzioni museografiche proposte.

La scelta di posizionare la statua al centro della nuova sala la espone a una visione a tutto tondo, in precedenza intenzionalmente limitata dai BBPR ad un raggio visuale meno ampio che si soffermava sul fronte e sui lati della scultura. Il motivo risiedeva nell’evidenziazione della poetica michelangiolesca del non-finito, esaltata nella parte anteriore della statua dal ricercato dissolvimento del corpo del Cristo nell’intreccio col corpo della Madre e nell’abbraccio dei volti. Al contrario la parte retrostante della scultura appare solamente abbozzata e portatrice di un messaggio artistico del tutto diverso. La collocazione a tutto tondo mette sullo stesso piano l’incompiuto della scultura con la vera e propria poetica del non finito consapevolmente attuata da Michelangelo.

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Carlo Scarpa durante l’allestimento di Castelvecchio, Verona 1957-1975

In questi termini appare problematica anche l’idea di rivolgere la parte retrostante della statua verso l’entrata del visitatore. Il progettista, in svariate dichiarazioni giornalistiche, ha descritto questa soluzione espositiva come del tutto originale. Tuttavia non si capisce se De Lucchi sia ingenuo o si prenda gioco del pubblico. È cosa nota che Carlo Scarpa aveva attuato la medesima scelta progettuale nel Museo di Castelvecchio a Verona: all’interno del percorso museale aveva fatto in modo che il visitatore si imbattesse in prima istanza con il retro di una scultura, su cui avrebbe potuto notare un elaborato intreccio di capelli, tenuti assieme da un sottile fiocco, frutto della ricercatezza di un anonimo scultore medievale. Ma se per Scarpa questa scelta ha un preciso significato didattico, finalizzato a creare interesse e suspense attorno a una statua che il visitatore comune rischiava di osservare distrattamente, la scelta di De Lucchi è viziata dal fatto che quando ci si reca in un museo di una sola opera, qualsiasi suspense è stata eliminata all’origine. Viceversa la nicchia concepita dai BBPR garantiva al visitatore la “scoperta” dell’opera michelangiolesca all’interno di un vasto programma espositivo, impedendo che la visione della Pietà fosse contaminata dalla presenza di altri visitatori in posizione di sfondo.

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Michele De Lucchi, allestimento Pietà Rondanini, Milano 2015

Il progetto di De Lucchi certamente migliora gli aspetti relativi all’accessibilità, all’illuminotecnica e alla stabilità dell’opera d’arte, tuttavia, fornendo alla statua una piattaforma antisismica e antivibrante, separa la Pietà dall’ara funeraria romana su cui era stata collocata all’inizio del Novecento. Da qui nasce un ulteriore problema conservativo: il binomio ara funeraria – Pietà michelangiolesca, ormai storicizzato, è stato sacrificato per lasciar posto ad un nuovo supporto che, pur essendo idoneo tecnologicamente, pare non essere adeguato al ruolo per ragioni di ordine estetico oltre che culturale.

Se il problema culturale è evidente per le ragioni appena descritte, quello di natura estetica è più sottile. Il nuovo piedistallo cilindrico, ripercorrendo la forma e le dimensioni circolari della parte inferiore della statua, si presenta come una sorta di prolungamento stilizzato del perimetro basamentale della stessa Pietà. Finisce così per rendere tozza la scultura, che si ritrova immersa in un ambiente candido, caratterizzato dal rovere del pavimento e dal colore panna delle murature, non adeguato a creare un sufficiente stacco cromatico.

Il tema del piedistallo era già stato posto negli anni ’50 e il mondo della cultura aveva partecipato al dibattito impedendo la rimozione del blocco scultoreo di epoca romana. Oggi la questione poteva essere posta diversamente, chiedendosi ad esempio come rendere possibile l’utilizzo dell’ara romana migliorando la stabilità dell’intero gruppo marmoreo, oppure interrogandosi su come separare le due opere d’arte riutilizzando il basamento antico in un percorso di avvicinamento storico-didattico alla Pietà.

Le scelte compiute da De Lucchi, se appaiono legittime nel quadro di una collocazione temporanea, non possono essere condivise come soluzioni da praticare a lungo termine.In aggiunta vi è un ulteriore punto che merita di essere trattato. Ci si chiede che senso abbia assecondare i capricci della politica locale, affidando l’incarico a De Lucchi e spostando la Pietà, quando nel 1999 era stato bandito un concorso internazionale di idee con il preciso scopo di risolvere una serie di questioni relative alla collocazione della Pietà e alla Sala degli Scarlioni.

In quella occasione si erano affrontati sia i problemi di accessibilità, dovuti all’abbassamento di quota realizzato dai BBPR in prossimità della Pietà attraverso la demolizione parziale delle volte quattrocentesche della sala sottostante, sia quelli museografici causati dall’inserimento nel percorso di un consistente numero di sculture del Bambaja, acquisite dal Comune di Milano all’inizio degli anni ’90.

Al concorso presero parte Gabetti & Isola, Hans Hollein, Enric Miralles, Umerto Riva e come vincitore fu scelto Alvaro Siza, maestro riconosciuto dell’architettura contemporanea. La soluzione proposta da Siza prevedeva un rimaneggiamento del percorso concepito dai BBPR, con il rifacimento della quota di pavimento originaria, al fine di adeguarlo alle nuove esigenze funzionali e di accessibilità, e una nuova collocazione della Pietà all’interno della Sala degli Scarlioni, che veniva rivista nella controsoffittatura. L’ipotesi di Siza era frutto di un confronto pubblico ed esito di un giudizio condiviso di una giuria preliminare.

Anche il progetto di Siza lasciava aperti numerosi interrogativi, ma a differenza di quanto si è fatto fino ad ora, rifuggiva il patetico sforzo di evitare il contraddittorio, di mutilare arbitrariamente il percorso dei BBPR e con esso la storia di quel museo. In fondo interpretava il vero messaggio della museografia moderna: coinvolgere nelle problematiche contemporanee il visitatore assieme all’opera d’arte e alle sue istanze precipue.

[Luca Guido]

18.9.15

(1) Irace, Fulvio, “Rifacciamo Palazzo Rosso”, Il Sole 24 ore, p.36, 28/06/2015; cfr. anche l’articolo in inglese dello stesso autore “When history is lite rally ridde beneath the carpet: Genoa’s Palazzo Rosso” disponibile al link http://www.italy24.ilsole24ore.com/art/arts-and-leisure/2015-07-07/giving-new-life-to-genoa-s-palazzo-rosso-112638.php?uuid=ACU7HGN