Fabrizio Violante. Camminare nella città: flâneries cinematografiche

godard

Camminare nella città senza una meta precisa, senza fretta, come qualcuno che porta al guinzaglio delle tartarughe lungo le vie, mossi solo dal desiderio di esperirne la vita, le vite, per il solo gusto di lasciarsi andare alla sua provvisorietà, alle sue sorprese, è un’esperienza estetica ed emotiva tipica della modernità e per questo più volte fotografata dal cinema, arte moderna per eccellenza. L’esplorazione urbana del passeggiatore svagato, angosciato, braccato, il suo cammino abituale o casuale, spontaneo o obbligato è un topos ricorrente soprattutto nel cinema francese, a partire dall’esperienza del cinema des auteurs degli anni Cinquanta-Sessanta. I giovani turchi della nouvelle vague abbandonano i teatri di posa e riscoprono la città, portando la cinepresa tra le strade, inquadrando percorsi reali, il cammino senza meta del flâneur, l’attraversamento intenzionale del pedone, la soggettiva dell’abitante che respira la propria città, per restituire la geografia vera e sentimentale della metropoli contemporanea al di là di ogni luogo comune di stampo cartolinesco. La Parigi di questi cineasti (perché è Parigi, la città dei passages benjaminiani, il loro luogo d’elezione) è intercettata, indagata, sezionata, nelle sue luci e nelle sue ombre, nelle continuità e nelle fratture, nelle centralità e nelle marginalità; avvicinata allo sguardo dello spettatore, e al tempo stesso allontanata, aderendo a un sentimento urbano inedito fino ad allora sullo schermo, più socialmente autentico e plausibile. L’immaginario problematico della città diventa così patrimonio condiviso, i grand ensambles, i quartieri dormitorio delle periferie alienate entrano nel panorama filmico del nuovo cinema francese, come frontiera disagiata della metropoli capitalista, la faccia oscura dello sviluppo economico.

ascensore1

Ascenseur pour l’échafaud (Ascensore per il patibolo, 1957), Louis Malle

Le opere più significative per una indagine dell’attraversamento a piedi della città, potrebbero essere individuate, in ordine meramente cronologico, in una serie di film come Ascenseur pour l’échafaud (Ascensore per il patibolo, 1957), opera prima di Louis Malle, un noir originale e palpitante in cui una serie di casualità infernali scatenano un incastro drammatico e inesorabile. Indimenticabile la scena che vede la protagonista Jeanne Moreau camminare angosciata alla ricerca del proprio amante percorrendo le strade di una Parigi notturna e indifferente sulle note della tromba di Miles Davis. La musica jazz, registrata dal musicista nel corso di una sola session improvvisata davanti alla proiezione delle immagini mute del film, crea un perfetto tessuto sonoro per la progressione drammatica della sequenza, sottolineando l’atmosfera scivolosa e straniante delle strade in cui la donna si muove montando la propria disperazione, mentre nei bistrot ferve il divertimento, in una doppia traccia di disperazione e distacco. La città è uno spazio vuoto abitato da figure quasi evanescenti, uno sfondo distratto e insensibile che la donna attraversa come in trance, coinvolta solo dal desiderio inappagato di ritrovare l’uomo perduto. Le signe du lion (Il segno del leone, 1959) è invece l’esordio registico di Eric Rohmer, che rivela una faccia inedita della capitale francese, quella dei luoghi marginali vissuti dai clochard e delle strade deserte nella calura agostana, in cui uno squattrinato musicista bohémien si trascina andando a piedi da Saint Germain de Prés fino a Nanterre, in cerca di una possibilità lavorativa. Un tragitto interminabile che attraversa l’area urbana di una Parigi assolata e ostile, uno spazio kafkiano che schiaccia il protagonista con la presenza opprimente delle sue pietre («la sporcizia di Parigi, la sporcizia delle pietre» è la frase emblematica che si ripete il protagonista), fino a precipitarlo in un vero e proprio sentimento di avversione verso l’ambiente metropolitano. Nel suo terzo film, Zazie dans le métro (Zazie nel metrò, 1960), Louis Malle porta sullo schermo il romanzo di Raymond Quenau calandolo in una città destrutturata e folle, colorata e spiazzante, dove anche le architetture storiche iconiche vengono continuamente confuse e scambiate. Zazie è una bimba vivace e curiosa, ospite degli zii parigini e desiderosa di vedere la metropolitana che invece è chiusa al pubblico a causa di uno sciopero. Nel suo vagabondaggio urbano incrocia una umanità variegata e surreale, attraversa divertita il caos delle bancarelle al mercato delle pulci, visita la Tour Eiffel che le permette di volare con lo sguardo sulla città ai suoi piedi, si muove sicura nel turbinio del traffico stradale, percorre i passages nel quartiere della Borsa, si lascia affascinare dai neon delle insegne di Pigalle di notte, finché nel finale non incontra la madre, spiazzandola con il suo disincanto bambinesco quando risponde alla domanda «Allora cosa hai fatto a Parigi?», con un semplice e definitivo «Sono invecchiata». Malle trova un corrispondente cinematografico al tono del romanzo, accumulando stili diversi, gag comiche, accelerazioni, colori fumettistici, riprese sghembe, perché come ammette egli stesso: «disintegrare il linguaggio cinematografico tradizionale era il mezzo più efficace per disintegrare un mondo anch’esso disintegrato e caotico».

02-(1)

 

À bout de souffle (Fino all’ultimo respiro, 1960),Jean-Luc Godard

Sperimentazione delle possibilità del cinema che segnano anche il primo lungometraggio di Jean-Luc Godard À bout de souffle (Fino all’ultimo respiro, 1960), film culto e programmatico della nouvelle vague, girato quasi completamente in esterni, dove un personaggio irrequieto e malandrino, romantico e scapestrato, ruba un’auto e poi raggiunge l’innamorata, si accompagna con lei per le vie riconoscibili e ben contrappuntate da riferimenti monumentali della Parigi solare e trafficata degli arrondissements centrali, fino all’incontro fatale con la pistola di un implacabile poliziotto. Anche qui la città è colta nella sua viva quotidianità, con macchina da presa a spalla e immagini documentaristiche, quasi un reportage giornalistico della ruggente capitale francese, città dell’amore romantico e delle mille occasioni, che sorride inconsapevole alle schermaglie e agli amoreggiamenti dei due compagni di flânerie. Il tono delle loro passeggiate è svagato, le confidenze che si scambiano dimostrano un’intimità distratta e superficiale; il regista restituisce l’immagine della città che gli è familiare in contrasto con la tragedia imminente che chiuderà la vicenda, la città che gli piace e in cui immerge il suo cinema irriverente, ben distante provocatoriamente dai toni ansiogeni del polar cui la trama invece rimanderebbe. Due anni dopo il capolavoro di Godard, Agnès Varda gira il suo celebre Cléo de 5 à 7 (Cléo dalle 5 alle 7, 1962), costruito sull’ansia dell’attesa di un referto medico di una giovane cantante convinta di essere gravemente malata. Il primo giorno dell’estate Cléo, ragazza egoista e superficiale, vaga per due ore per le strade del suo quartiere, una Montparnasse che osserva ora con uno sguardo finalmente attento. Si ferma a un caffè, esce a incontrare la sua amica Dorotea e insieme fanno delle commissioni, assistono alla fine di un film e a un incidente stradale, poi le due ragazze si separano. Cléo, di nuovo sola, attraversa il parc Montsouris, si lascia avvicinare da un giovane soldato in licenza che l’accompagna fino all’ospedale per conoscere il suo destino. Le immagini della città compongono un percorso reale, nella coincidenza del tempo filmico con il tempo reale, senza stacchi e salti temporali e di spazio. Assistiamo a frammenti di vita quotidiana del quartiere, e della sua comunità da villaggio urbano, che si rivela alla protagonista in una topografia vera e mappabile, in una esplorazione urbana e esistenziale che la regista fotografa con grande libertà espressiva, con riprese mobili e leggere in accordo dialettico con la mobilità vivace della metropoli degli anni sessanta. Parigi incanta per la sua bellezza vivida, lontana dalla retorica dei monumenti storici, si offre alla presa di coscienza di Cléo come paesaggio elettivo di un viaggio di formazione e di acquietamento. Il raggiunto momento di intima comunione con l’ambiente e l’umanità che la circonda, trova poi un perfetto palcoscenico nella natura rassicurante del parco, oasi di calma e di raccoglimento nel ritmo movimentato della grande città. Il film restituisce quindi un disegno della città che appare quasi come una sorta di mandala in cui il caos delle emozioni della donna si ricompone in un ordine incoraggiante. Ancora Louis Malle, nel 1963 mette in pellicola il romanzo di Pierre Drieu La Rochelle Le feu follet (Fuoco Fatuo), l’ultimo itinerario urbano di un alcolista che saluta il mondo e la sua città prima di compiere il gesto finale del suicidio. «Avrei voluto accattivarmi la gente… Volevo tanto essere amato, che mi sembra di amare», confessa a un amico, mentre intorno il passeggio e il traffico che affollano di vita la rive gauche sembrano in dissonanza con la cupezza delle sue parole, il commiato è ormai compiuto, il frastuono parigino non lo riguarda più. La città è un corpo vivo in cui il delirio del suicida non è che un’infezione passeggera, Parigi sopravvive nonostante il declino delle sue esistenze. Nel sottofinale le composte architetture che circondano la più appartata Place des Vosges, compongono un gelido e ortogonale abbraccio che avvolge senza empatia gli ultimi pensieri dell’uomo prima dell’atto estremo. Infine, non si può non citare 2 ou 3 choses que je sais d’elle (Due o tre cose che so di lei, 1966) di Jean-Luc Godard, ambientato nel mondo destabilizzante e senza qualità della periferia. Le immagini sono riprese nel quartiere dormitorio di Sarcelles («la Gestapo des structures», già sfondo del futuribile Alphaville), dove «la borghesia immagazzina i lavoratori», come recita un finto cartello pubblicitario significativamente inquadrato dal regista. La città del film è un luogo incompiuto, frammentato, de-territorializzato, punteggiato da gru, betoniere, cantieri disordinati, una città in divenire che assume sempre più l’aspetto di uno spazio metafisico dispersivo e spersonalizzante, dove la protagonista si muove come in un teatro di guerra dal quale vorrebbe solo scappare: «Niente di ciò che vedo mi appartiene, come si può godere di una cosa che ci è estranea?».

haine1

Le nuove forme della città, l’indifferenziato sviluppo edilizio delle periferie dei grands ensambles, le brutture e i fuori scala dimensionali delle architetture abitative tirate su come alveari spiazzanti e alienanti, nel solco di una politica scellerata volta al concentrazionismo sociale, sono lo scenario inquietante di molti film e documentari francesi durante il corso degli anni sessanta e settanta. Un dibattito sull’evoluzione della città contemporanea che ha movimentato la cultura e il cinema francese e che ancora oggi non manca di produrre felici intuizioni. Tra queste La haine (L’odio, 1995) di Mathieue Kassovitz rappresenta un’audace (e furba) operazione filmica di grande successo, nella quale significativamente i banlieusards protagonisti guardano a Parigi come una città sognata a cui non appartengono e dalla quale sono respinti come eccedenti. Il loro territorio è abitato da architetture anonime e indistinte, luogo dell’alienazione e della segregazione di classe, un incubo urbano che contraddice la città centrale spettacolare e affascinante, la ville lumiere delle opportunità e degli incontri, cui fa da specchio una banlieue degli scontri e della sconfitta fatale. I tre giovani intorno a cui si costruisce la trama si muovono in una notte nella città che non li riconosce, stranieri in una società privilegiata che non li accoglie, fino all’alba che li vede riatterrare nel loro ambiente solo per ritrovarsi ancora una volta di fronte alle armi puntate dei poliziotti. Un finale amaro che si intona perfettamente alle immagini diffuse dai tg internazionali della racaille (definizione sprezzante usata dall’allora ministro degli Interni Sarkozy) infuriata che ha incendiato le periferie francesi nell’autunno del 2005: una moltitudine in rivolta tenuta a bada dai manganelli della polizia, un’orda spaventosa e affamata, pronta a sovvertire l’ordine sociale e urbanistico di una città che li allontana e li ghettizza, come nel sottovalutato horror La horde (The Horde), girato nel 2009 dai due esordienti Yannick Dahan e Benjamin Rocher, dove «L’unica legge che conta… è sopravvivere»…

[Fabrizio Violante]

14.3.15