Luca Guido. La Biennale dell’edonismo

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Rem Koolhaas nel catalogo della 14° biennale di architettura denuncia con schiettezza gli interrogativi posti nell’elaborare la mostra intitolata “Fundamentals”: “Che cosa abbiamo? In quale modo siamo giunti a questo punto? Ora che cosa possiamo fare e da qui dove andiamo?”

Tali domande si correlano con le tre parti di cui si compone questa edizione della biennale. La prima è “absorbing modernity”, sezione affidata all’interpretazione dei padiglioni nazionali che condividono il tema della propria modernizzazione negli ultimi cento anni. La seconda sezione è “elements of architecture”, collocata presso il Padiglione centrale dei giardini in cui viene presentata un’indagine su elementi ritenuti basilari alla progettazione e alla concezione dell’architettura. La terza sezione è “monditalia”, omaggio all’attuale situazione italiana indicata come esempio emblematico di un contesto globale.

Tuttavia il motto della mostra appare rivelatore per ottenere la giusta chiave di lettura: “architettura non architetti”, intendendo che il visitatore si troverà di fronte ad una biennale di ricerca, senza archistar, volta a recidere punti di vista parziali per indagare “l’attuale impasse” dell’architettura contemporanea.

Purtroppo, dopo due anni di lavoro del direttore, né la mostra né il catalogo ufficiale offrono una illustrazione veramente esauriente delle scelte curatoriali ed in particolare del nucleo centrale della mostra rappresentato dagli elements.

Quello che lascia perplessi non è solo la selezione o la scelta espositiva degli elements, bensì l’aridità e la rigidità con cui viene presentata da Koolhaas l’architettura.

Un semplice abaco di componenti fondamentali che allude all’architettura come mero meccanismo, un bricolage in cui nulla si inventa per davvero perché tutto è già precostituito.

Quali sono le relazioni tra queste componenti? Nessuna sembra suggerire la mostra sugli elements.

L’intento di annullare il contributo dei protagonisti dell’architettura (gli architetti, ma infine anche quello dei fruitori che con il loro agire possono determinare il successo, il fallimento o lo sviluppo di un edificio, di un quartiere, di una città), si scontra però con una visione che imprime un’interpretazione unilaterale e riduttiva nei confronti di migliaia di anni di storia.

Le molteplici narrazioni che si pretendeva di voler raccontare suggeriscono una visione in cui nessuna aspirazione umana, nessuna emozione o sentimento abbia mai partecipato all’evoluzione dell’architettura. I sogni degli uomini, la voglia di riscatto sociale, l’invenzione artistica e poetica non meritano forse di far parte dei fondamentali dell’architettura? Ma gli equivoci su cui si fonda la ricerca sugli elements sono evidenziati dalla lettura totalizzante di un dato geopolitico.

Nell’ipotesi posta alla base dell’intera biennale, uno degli eventi più significativi degli ultimi cento anni è la svolta capitalista del mondo edilizio. Una svolta sottolineata, secondo Koolhaas, dall’avvento dell’economia di mercato, e simboleggiata dall’elezione di Ronald Regan nel 1980. Ci chiediamo a questo punto se non si confonda volutamente l’edilizia con l’architettura, le finalità speculative con l’aspirazione a costruire una società nuova, le esigenze normative con le qualità spaziali dell’architettura che ne rappresentano, al contrario, la vera peculiarità.

Senza dubbio gli ultimi decenni hanno scardinato il contenuto morale dell’architettura che aveva caratterizzato l’approccio dei progettisti durante il Novecento, ma non è del tutto vero che qualsiasi realizzazione recente sia specchio di un mero calcolo economico, sia incapace di immaginare una società diversa. Questa pessimistica concezione potrà forse essere frutto di frustrazioni o esperienze personali di Koolhaas, ma perché escludere la possibilità che l’architettura possa significare, ed essere, qualcosa di più?

Ad ogni modo, per avere un quadro più esaustivo del lavoro svolto, è necessario tener presente che l’offerta editoriale della mostra non è limitata al catalogo ufficiale, ma è ampliata da 15 volumi dedicati agli elements, uno per ogni tema esplorato: floor, door, wall, ceiling, toilet, balcony, ecc.

Mostra e libri sono il frutto di una ricerca condotta con la Harvard Graduate School of Design, AMO (controparte dello studio OMA di Rem Koolhaas dedita a studi e ricerche) e una serie di collaboratori provenienti dall’industria edilizia e dal mondo accademico.

In altre parole facendo lavorare i propri studenti, i propri collaboratori professionali, dunque il proprio sistema di relazioni culturali, Koolhaas espone assieme alla mostra anche il suo metodo, presenta se stesso, oscurando contemporaneamente i risultati progettuali e il modo di fare ricerca di altri protagonisti dell’architettura.

Inoltre questa rassegna di elementi fondamentali, ovvero di finestre, tetti, porte, rampe, controsoffitti, pavimenti ecc., finisce per fornire un elenco in cui vi sono lacune e ripetizioni.

Le raffinate menti di Harvard non ci spiegano come mai la colonna (e il pilastro nella sua accezione moderna) non sia presente tra gli elementi fondamentali, né il curatore ci illumina sull’assenza di elementi archetipici come il patio, o perché la scelta non sia ricaduta sui sistemi strutturali come l’arco, il trilite, lo sbalzo, lo strallo, a cui tutti gli elementi possono essere a loro volta ricondotti, oppure ancora ai materiali dell’architettura. Neppure è chiaro come mai, tra gli elementi selezionati, la scala sia trattata separatamente dalla sua accezione meccanizzata (scala mobile) duplicando senza motivo i componenti fondamentali presentati.

Nella sala dedicata al balcone si confonde invece la specifica storia della tribuna (ovvero del pulpito) inserendo immagini come quella di Lenin, raffigurato durante un comizio tenuto su un podio appositamente costruito nella Piazza Rossa a Mosca. Errore veniale poiché le immagini di altri politici sono correttamente ambientate su balconi, ma desta stupore che tutto si traduca in una vertigine generata dall’abbondanza di immagini. Infatti al visitatore non è dato sapere che ruolo abbia avuto per l’architettura l’immagine di Mussolini, dell’imperatore Hiroito, di Vaclav Havel o di Julian Assange affacciati dal balcone.

Quanto più si astrae il ruolo mass-mediatico di talune immagini, o taluni elementi, tanto più ci si allontana dall’affrontare un ragionamento sensato.

Nelle altre sale si susseguono rassegne di muri o finestre senza spiegarne l’interazione che questi elementi hanno avuto tra loro. Non è un caso che il tema “facciata” venga sviluppato separatamente da muri, finestre e balconi, evitando problematici interrogativi. Elementi ibridi come curtain wall, logge e bowindow, che costituiscono elementi di primaria importanza dell’architettura, non trovano una reale collocazione in questa mostra.

Se l’intento era rivolgersi al grande pubblico, riconnettendolo con l’architettura e presentando un elenco di questioni facilmente accessibili ai non esperti, questa biennale raggiunge senza dubbio l’obiettivo, ma lo fa nel peggior modo possibile, poiché il vero soggetto della mostra non è più l’architettura, ma un modo di comunicarla.

In fondo si tratta di una messa in scena pop-up, una mostra postmoderna nella sua essenza, non molto dissimile dalle operazioni attuate da altri architetti durante gli anni ’80: se allora prevaleva l’aspetto formale e ludico ad alto contenuto comunicativo, adesso viene presentato il lato anonimo, anestetizzante, pornografico dell’architettura. Se prima gli architetti mitizzavano il passato, oggi Koolhaas si rivolge alle contraddizioni capitalistiche.

L’architettura è ridotta in “pezzi”, in parti, in “componenti” proprio come il corpo umano nelle inquadrature a camera fissa tipiche dei film pornografici. Il corpo nella sua interezza non ha alcuna importanza, tanto meno le relazioni erotiche, affettive o sociali: un insieme ridotto ad una somma di componenti giustapposte, in cui la parte non viene analizzata come frammento, ma come un “tutto” autonomo.

In fondo la pornografia, per i suoi contenuti ultrarealistici ostentati, è un’operazione affine alla comunicazione, il cui punto di arrivo è fondamentalmente una condizione desessualizzata. La democratizzazione della pornografia attraverso internet, come suggerisce Mario Perniola, è infatti funzionale “rispetto alla generale tendenza verso l’immiserimento culturale e psichico che caratterizza la società della comunicazione. Il suo punto di arrivo è proprio l’opposto di ciò che sembra a prima vista: è la desessualizzazione, cioè il venir meno di ogni tensione erotica.”(1)

Lo slogan “architettura non architetti” e la volontà di non presentare architetture nella loro completezza sono scelte che sembrano andare in una direzione simile. Non vi è il minimo richiamo ad un’architettura libera da dogmi e tabù imposti dagli architetti, dalle consuetudini, dalle istituzioni.

La leva comunicativa agisce sul desiderio, non sui bisogni. Il desiderio, lo ricorda Lacan, è infinito ed inappagabile poiché si fonda su una mancanza, a differenza del bisogno che si relaziona con un oggetto e con un corpo. Ecco perché l’ostentazione di componenti architettoniche estrapolate dalle loro relazioni compositive e spaziali è parallela all’ostentazione di attributi sessuali: non vi è rimozione del desiderio, ma piuttosto una desessualizzazione dello stesso (o dal punto di vista architettonico una mancanza di tensione spaziale) e dunque impossibilità di soddisfarlo.

Deludente epilogo di un approccio di stampo cinematografico (il montaggio) che nella sfera progettuale aveva dato esiti positivi, per quanto al limite dei pastiche o dei collage postmoderni, come in Villa dall’Ava dove “frammenti” di Le Corbusier vengono combinati a “frammenti” di Mies Van Der Rohe o nella Concert Hall di Porto, dove la complessità formale esteriore è contrapposta a una sala a rettangolare a minima reazione poetica, capace di offrire uno spettacolo architettonico inconsueto, ma sufficientemente “commestibile”.

Se Koolhaas stava cercando di dire che la sua architettura è un medium imperfetto vi è riuscito, ma ha anche aperto ad una visione cinica e anestetizzata che rifiutiamo. Il moderno è in fondo un progetto ancora oggi incompleto: ripartiamo dall’idea di lavorare per costruire un mondo migliore.

[Luca Guido]

8/7/2014

La fotografia di copertina è di Alessandro Lanzetta

(1)PERNIOLA, Mario, Contro la comunicazione, Torino, Einaudi, 2004, p. 29