Emanuele Piccardo. Le Corbusier & Olivetti

corbuolivetti

Le Corbusier, progetto Centro di Calcolo elettronico Olivetti a Rho, dettagli costruttivi,1963
copyright Fondation Le Corbusier/ADAGP

Le Corbusier è ancora oggi uno dei soggetti preferiti degli storici, dei critici e dei dottorandi. Come un anatomopatologo, lo studioso, seziona tutti i momenti della vita del maestro svizzero per scoprire nuovi indizi per scrivere, a volte, nuove storie che aprono nuovi scenari inediti sulla sua opera. In altri casi, pur partendo da un buon punto di vista iniziale, gli autori non riescono ad essere incisivi e raccolgono dati e informazioni, in maniera compilativa, senza contribuire a rileggere l’opera di un architetto il cui operato è stato vivisezionato dal 1965 a oggi.

A questa seconda categoria appartiene il recente Le Corbusier e Olivetti. La Usine verte per il centro di calcolo elettronico, scritto da Silvia Bodei e pubblicato da Quodlibet, sempre più casa editrice di architettura che, seppur in modalità non dissimili dall’Electa, riesce a conquistare spazi di mercato editoriale sostenendo le ricerche più interessanti della disciplina architettonica.

Molti sono i libri e gli articoli che gli storici dell’architettura italiana hanno dedicato a Le Corbusier: Giuliano Gresleri, Giorgio Ciucci, Benedetto Gravagnuolo, Carlo Olmo, Roberto Gabetti, Marida Talamona, Francesco Tentori. Dunque è difficile trovare un campo di indagine nuovo e inesplorato, anche nel rapporto tra Corbu e Olivetti, indagato dal libro Olivetti costruisce. Architettura moderna a Ivrea degli olmiani Patrizia Bonifazio e Paolo Scrivano, il numero monografico di Parametro (a cura di Patrizia Bonifazio) e ancora il saggio di Scrivano nel catalogo della mostra “L’Italia di Le Corbusier a cura di Marida Talamona. Ogni storico dell’architettura ha fornito uno spunto nuovo e inedito che ha arricchito la storia dell’architetto che influenzò i suoi contemporanei e che continua a influenzare ancora oggi, qualsiasi architetto che sappia coniugare teoria e progetto, come Rem Koolhaas. Gresleri, il decano degli storici insieme a Ciucci, ha avuto il grandissimo merito di scoprire le fotografie che Corbu fece durante il Viaggio in Oriente, pubblicando per Marsilio, uno straordinario resoconto documentato del viaggio, con il prezioso contributo dello storico della fotografia Italo Zannier. Ma la figura di Gresleri è importante anche per la direzione, con il fratello Glauco, della rivista Parametro (chiusa dal gruppo Il sole 24 ore) e della ricostruzione del padiglione dell’Esprit Nouveau nel distretto della Fiera di Bologna. Proprio l’Esprit Nouveau fu il soggetto del libro che Olmo e Gabetti scrissero per Einaudi, ma Olmo è anche curatore di Costruire la città dell’uomo sul progetto di città elaborato da Adriano Olivetti. Mentre Tentori, burbero storico, scrisse una delle biografie più interessanti su Le Corbusier.

Nel 2012 Marida Talamona esplora al Maxxi L’Italia di Le Corbusier (vedi mia recensione), dove affronta le relazioni italiane del maestro franco-svizzero. Due sono i progetti che vengono presentati nella totalità degli elaborati: l’Ospedale di Venezia e il Centro per il calcolo elettronico della Olivetti. Dalla quantità di disegni, schizzi e relazioni progettuali presentate si denota come già negli Anni Sessanta del Novecento in Italia fosse difficile far passare il verbo dell’architettura moderna, nonostante venisse proposto da uno dei suoi maggiori evangelizzatori.

Le Corbusier e Olivetti sono due personaggi importanti nella cultura del Novecento, che parlano lo stesso linguaggio, anche se il loro rapporto può definirsi cordiale. Olivetti fu il primo che tradusse in Italia i libri dell’architetto franco-svizzero (Ronchamp, La Carta di Atene) come di altri importanti intellettuali, basta pensare a Lewis Mumford (La condizione dell’uomo, In nome della ragione), per rimanere in ambito architettonico. Olivetti e Le Corbusier, fin dalle prime lettere degli Anni Trenta (con la mediazione di Aldo Magnelli, direttore della sede romana della Olivetti e progettista della macchina per scrivere MP1, insieme a Riccardo Levi) , non riuscirono mai a realizzare insieme un progetto concreto.

Solo dopo la morte di Adriano, avvenuta il 27 febbraio 1960, si concretizza il lavoro dell’atelier di rue de Sèvres per il Centro di Calcolo Elettronico, ma la morte improvvisa di Roberto Olivetti e dell’ingegnere Mario Tchou, responsabile tecnico del Centro, determina l’annullamento del progetto da parte della nuova dirigenza della Fabbrica Olivetti. Da quel momento l’azienda di Ivrea si avvierà verso il declino, lasciando in eredità un numeroso patrimonio immobiliare, frazionato in molti e contraddittori proprietari.

Olivetti, dalla Triennale di Milano del ’33, aveva preferito lavorare con i suoi coetanei, gli architetti Luigi Figini e Gino Pollini, escludendo Le Corbusier dalla redazione del Piano per la nuova fabbrica. E’ interessante notare il modo in cui Le Corbusier critica il Piano sviluppato, proprio da Figini e Pollini, per l’area industriale di Via Jervis a Ivrea, sede della fabbrica Olivetti.

“[…] trovo che tutti i problemi di urbanistica sono sempre trattati dagli architetti dal punto di vista della promenade architecturale, del paesaggio architettonico, di un’estasi architettonica che dà i suoi effetti da parte a parte, da strada a strada, secondo un rituale che, a dire il vero, è il rituale delle vecchie idee (in modo particolare italiane) del tempo in cui la strada era il luogo principale e le case si affacciavano[…]

E’ una critica lucida che si può condividere. Infatti Corbu non costruisce mai sul bordo strada nel dopoguerra. Solo a Pessac nel 1926 (quindi compatibile con le critiche agli architetti italiani) nel quartiere realizzato per l’industriale Frugès, Le Corbusier disegna le unità lungo la strada ma è ancora il Le Corbusier delle maison blanche, che cambierà profondamente il suo linguaggio e il suo pensiero teorico nel dopoguerra. La sua architettura ha bisogno dello spazio verde tra l’edificio e la strada, uno spazio vitale per gli abitanti delle Unité, evidente fin dalla prima realizzata a Marsiglia nel 1952. Se le affermazioni di Le Corbusier sono veritiere per la via Jervis, il discorso cambia nei quartieri residenziali di Castellamonte (1936) e Canton Vesco (1952-54) Nel primo, Figini e Pollini distanziano dalla strada le unità abitative ricavando lo spazio verde di fronte a esse. Lo stesso avviene a Canton Vesco con il progetto di residenze operaie di Annibale Fiocchi e Marcello Nizzoli.

Il libro della Bodei, dottorata in progettazione architettonica all’Università Politecnica della Catalunya, mette in sequenza una serie di dati e informazioni senza riuscire a sviluppare un punto di vista autonomo, espressione di una tesi. Fin dall’inizio, dall’introduzione dell’autrice, il focus della ricerca viene esplicitato nella seconda pagina in una frase “il libro si sofferma in particolare su tre aspetti importanti del progetto, di cui il primo, necessario per la sua contestualizzazione e comprensione, è costituito proprio dalla relazione che si instaura fra l’architetto Le Corbusier e il committente Adriano Olivetti, uniti[…] da una comune idea del rapporto tra società, industria e architettura”. Questa affermazione rimane un’intenzione perché Bodei non indaga il rapporto tra architettura e industria, come ci si sarebbe aspettato, evitando la contestualizzazione durante il movimento moderno (si pensi alle fabbriche di Gropius e Behrens). Si dimentica però del progetto che Corbu fece a St Dié des Vosges nel 1946: l’Usine Duval; antesignana dell’Unité d’habitation di Marsiglia ed unico esempio di edificio industriale presente nella sua longeva opera. Dall’altra parte la descrizione del progetto politico olivettiano, solamente accennato, non determina quella relazione forte che era auspicata nell’introduzione.

La costruzione di una ricerca, la narrazione critica di una storia deve essere chiara negli obiettivi fin dalle prime righe. Molti studiosi, non solo italiani, compongono frasi prolisse e articolate che non sono fluide, complicate ma non complesse. Questo atteggiamento è assunto dagli storici dell’architettura che, sbagliando, pensano di argomentare meglio le loro tesi se scrivono 60-80.000 caratteri in più. Storici come Hal Foster e Rosalind Krauss per l’arte contemporanea, Beatriz Colomina per l’architettura, creano delle strutture concettuali molto definite partendo da idee e punti di vista inediti. Questo consente di leggere l’opera di un architetto o di un artista sotto un’altra luce, fornendo nuovi preziosi indizi alla comprensione di un opera, un movimento o un autore. E’ questa la sfida per gli storici dell’architettura che oggi rileggono il Moderno o nelle pieghe delle ricerche di architetti minori altrimenti si producono elenchi di dati, inutili, e dei quali non si avverte nessuna necessità intellettuale. Le colpe non sono sempre un’esclusiva degli autori dei libri, gran parte deve essere ascritta anche agli editori, non più capaci di selezionare criticamente le opere da pubblicare.

[Emanuele Piccardo]

22.4.14