Lapo Gresleri. Il (non)luogo comune del Sacro GRA

Sacro_GRA

Da tempo, ogni settembre in occasione delle premiazioni al Festival di Venezia, un coro di assurde e immotivate polemiche investono le giurie per l’annuale Leone d’Oro mancato a un film italiano. La vittoria nell’ultima edizione di Sacro GRA (Gianfranco Rosi, 2013), ha finalmente messo fine a cicliche quanto sterili disquisizioni campanilistiche, strascichi del diffuso atteggiamento “da ombrellone” di una stagione balneare ormai fortunatamente conclusa.

A caldo tanto si è parlato del ritorno del documentario a genere forte della cinematografia italiana, ma pensando solo ai recenti lavori di Gianluca e Massimiliano De Serio (Bakroman [2010], Stanze [2011]), Andrea Segre (Come un uomo sulla terra [2008], Mare chiuso [2012]), Massimo D’Anolfi e Martina Parenti (I promessi sposi [2006], Il castello [2011]), Gianfranco Pannone (Ma che storia… [2010], Scorie in libertà [2012]) o Davide Ferrario (La strada di Levi [2006], Piazza Garibaldi [2011]) non è possibile condividere l’affermazione. Da sempre questa produzione è stata colonna portante dell’industria dell’immagine in movimento, senza però mai riuscire – salvo alcuni sparuti casi spesso d’oltreoceano (1) – a raggiungere il circuito main-stream, appannaggio quasi esclusivo di un cinema commerciale (già molto più difficilmente di quello autoriale) e strettamente narrativo.

Certo, pur con alcune riserve, la vittoria di Rosi fa sperare che in futuro questi film possano raggiungere i meritati risultati, andando oltre un pubblico per forza di nicchia e conquistando platee più ampie. Ma paradossalmente l’opera ultima del cineasta di origine asmarina si dimostra mancata, o meglio non riuscita, generando un forte dubbio sull’effettivo merito del riconoscimento ottenuto, suscitando concatenate riflessioni sull’intento primo della giuria: premiare la miglior opera in concorso o cercare di quietare le acque attorno al Lido?

Secondo Adriano Arpà: “Con il termine documentario si intende, nell’uso comune, un film, di qualsiasi lunghezza, girato senza esplicite finalità di finzione, e perciò, in generale, senza una sceneggiatura che pianifichi le riprese, ma anzi con disponibilità verso gli accadimenti, e senza attori. […] Alla base del d. c’è un rapporto ontologico con la realtà filmata, che si pretende restituita sullo schermo come si è manifestata davanti alla macchina da presa, senza mediazioni. Il film è il documento di tale realtà, la prova che le cose si sono svolte come risultano proiettate”(2).

Al centro della questione sta il fatto che Sacro GRA non appartiene alla suddetta forma cinematografica: ne riprende il linguaggio e lo stile, ma tradendone l’intento originale, ovvero il rapporto con il reale che si palesa da subito non “documentato”, bensì falsificato ai fini delle riprese. Certo già il montaggio, dando un ordine e dunque un senso al magma del girato, annullerebbe di per sé il documentario come strumento espressivo del reale, perché comunque frutto del filtraggio intellettuale dell’autore. Ma un conto è l’interpretazione di un evento, che trasforma l’accaduto in testimonianza dello stesso; un conto invece è la sua ricostruzione a fini narrativi. Questo è quello che fa Rosi attraverso le storie portate a esempio di una realtà che il regista manca però di contestualizzare, di relazionare all’ambiente stesso, ombra fuoricampo che sempre aleggia senza mai rivelarsi. Il documentarista perde così l’importante occasione di realizzare un’indagine socioantropologica sulla vita nelle periferie, necessaria quanto utile oggi più che mai – con la sempre più rapida espansione delle grandi metropoli verso nuovi contesti multiculturali – anche a governi e amministrazioni in vista di futuri piani urbanistici.

È sì sottolineata l’estraneità e l’anonimato del nonluogo, ma si finisce per uguagliarlo a un qualunque corrispettivo occidentale, se non fosse per la didascalia introduttiva sulla ripresa dall’alto e la tipica parlata che caratterizza i dialoghi in scena, chiudendo dunque il film in un circolo (o anello) vizioso senza svincoli né uscite, lasciando solo il soggetto principale libero di esprimere la propria natura. Questo però non come nel cinema verità, dove attraverso un’inchiesta costruita su interviste, si giunge alla dimostrazione di una tesi (3); qui si cade nella logica del reality, in cui gli “attori” sapendo di essere ripresi mettono in scena siparietti fintamente spontanei che ne evidenzino le personalità. Così ad esempio fanno la prostituta che racconta all’amica della denuncia ricevuta e canta a mezzavoce, le cubiste che si truccano e vestono reciprocamente prima di entrare in scena, il conte decaduto che affitta la propria villa per riprese cine-fotografiche, l’anziano hippy che rivolge costanti monologhi e domande alla figlia o il barcarolo che legge, commenta e spiega alla compagna straniera parole e usanze italiane.

Viene allora in mente il finale di Reality (Matteo Garrone, 2012), quando l’ormai allucinato Luciano, in preda al suo delirante straniamento, si intrufola nella casa-set del Grande Fratello per godere anche per poco della tanto agognata quanto insignificante fama. Allo stesso modo gli abitanti del Grande Raccordo Anulare, abbagliati dalla luce di un’effimera visibilità, rivolgono alla videocamera tratti e atteggiamenti macchiettistici e grotteschi introiettati dal sempre più comune immaginario televisivo, certo più gradito a un pubblico in gran parte ormai lontano e disinteressato all’intento umanista del cinema, capace ancora – quando vuole e può – di portare sullo schermo prove intangibili di un’attualità troppo spesso elusa o mal raccontata.

[Lapo Gresleri]

(1) Si pensi ai lavori di Michael Moore tra cui Bowling a Columbine (Bowling for Columbine, 2002) e Fahrenheit 9/11 (Id., 2004), Morgan Spurlock (Super size me, [Id., 2004], Che fine ha fatto Osama Bin Laden? [Where in the World Is Osama Bin Laden?, 2008]) o al più recente Searching for Sugarman (Id., Malik Bendjelloul, 2012).

(2) A. Arpà, “Documentario” in Enciclopedia del Cinema Treccani, .

(3) Cronaca di un’estate (Chronique d’un été, Jean Rouch, Edgar Morin, 1960) o il nostrano Comizi d’amore (Pier Paolo Pasolini, 1965), per citarne due tra i più importanti.