Marco Scotini. Disobedience archive: tattiche d’esposizione

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Disobbedire non significa semplicemente destituire, negare qualcosa. Disobbedire è all’opposto un’azione innovativa, sperimentale, fondativa. Affrancarsi da una rappresentazione o da un ordinamento richiede un alto grado di affermatività alternativa, di progettualità antagonista, di nuova produzione di soggettività.
Dalle proteste di Seattle anti-WTO a quelle attuali del movimento Occupy, dall’insurrezione zapatista a quella araba, un’identica tensione trasformativa del mondo (globale, caotica, plurale) non ha mai cessato di agire. Un nuovo orizzonte comune, trasversale a centro e periferie, si è aperto e continua sempre più ad aprirsi. Al declino irreversibile del modello politico fondato sulla rappresentanza e alla nuova centralità neoliberista dell’economico le mobilitazioni insorgenti rispondono con una devastante sperimentazione politico-sociale che disarticola le classiche modalità di esercizio del potere e recalcitra alle logiche della rappresentazione e della totalizzazione (partito, quadri dirigenti, classi sociali, Stato). Il NO attuale, il rifiuto dell’obbedienza, il dissenso contemporaneo non ripropongono una posizione dialettica con il potere ma si affermano come forze di creazione e sperimentazione: di linguaggi, dispositivi, istituzioni e soggettività. Lo spazio a cui si espongono è quello di nuovi immaginari e nuove possibilità di vita che trovano impegnati tanto modelli estetici quanto forze produttive e movimenti sociali. Non si tratta tanto di “alleanza” tra istanze attiviste e pratiche artistiche perché con questo termine si intende un “patto comune in vista di obiettivi comuni”. Al contrario, il nesso è a monte. E’ piuttosto uno sfondo comune che non cessa di emergere. Uno spazio indistinto che impedisce di tracciare chiaramente i confini tra forze e segni, tra linguaggio e lavoro, tra produzione intellettuale e azione politica.

Da circa dieci anni l’Archivio Disobedience cerca di raccogliere insieme i documenti e le prove di questa produzione alternativa e dal basso: dall’azione diretta alla controinformazione, dalle pratiche costituenti alle forme di bio-disobbedienza. Concepito come un archivio di immagini video, eterogeneo e in evoluzione, il progetto vuole essere una user’s guide attraverso le storie e le geografie della disobbedienza: dalle lotte sociali italiane del 1977 alle proteste globali fino ad arrivare alle insurrezioni in corso nel Medio Oriente e nel mondo arabo. In particolare Disobedience è una indagine nelle pratiche di attivismo artistico che sono emerse dopo la fine del modernismo inaugurando nuovi modi di essere, di dire e di fare. Compito dell’Archivio Disobedience (delle immagini video, filmiche, che lo compongono) è anche quello di rivelare il carattere mediatizzato della storia. Da un lato, far vedere ciò che i corporate media nascondono o sottraggono alla vista. Dall’altro, riappropriarsi dell’espropriazione violenta dell’esperienza: produrre la Storia, dunque, e renderla visibile. La Storia trattata come un problema di politiche della rappresentazione è al centro di questi film e video che vanno dal documentario alla controinformazione, dal film-essay all’agit-prop cinema, dal videoattivismo al cinema comunitario di base.

Questo cinema (la molteplicità delle sue proposte) attua una strategia di azione trasversale alle divisioni canoniche quali ambiente, corpi, psiche, lavoro, flussi semiotici, per intervenire nella vita come tale. Il movimento del ’77 italiano, con cui si apre l’Archivio, non è soltanto una anticipazione politica sul fronte della disobbedienza sociale ma anche su quello di una mediatizzazione che gli corrisponda. Da un lato troviamo Alberto Grifi che, al Parco Lambro di Milano, filma la disobbedienza di migliaia di giovani e, nel fare ciò, si rifiuta di obbedire al suo ruolo di regista che ha come compito quello di filmare e di testimoniare. Ma questo cinema non è più militante, non è più dominato dalla preoccupazione di servire un obiettivo politico preciso: il popolo, il gruppo, la rivoluzione. È un cinema di nuove soggettività ‘senza padrone’, quelle stesse che cominciano a costruire i propri strumenti comunicativi rifiutando il ruolo di utenti o consumatori dei prodotti culturali altrui. Andrea Ruggeri del collettivo Dodo Brothers affermerà: “Nel cinema militante chi filmava si metteva, per definizione, fuori campo. A Bologna invece il soggetto che filmava rifiutava di farsi spiazzare, parlava anche lui, da dietro la telecamera, mentre stava girando.”

Questo cinema disobbediente si pone come un nuovo modo di fare e di esprimere la politica. Focalizza l’attenzione tanto sulle forme di produzione (lavoro di gruppo, finanziamento, media tecnologici, target-audience) quanto sulla distribuzione (circuiti paralleli, strategie di proiezione, canali innovativi). Basta pensare al film Get Rid of Yourself (2003) del collettivo Bernadette Corporation con i Black Bloc, al video Trauma 1-11 (2011) di Copenhagen Free University, al film collage …die Wünsche werden die Wohnung verlassen und auf die Strasse gehen…(1999) di Park Fiction, al film-cult Handsworth Songs (1987) del Black Audio Film Collective, assieme a molti materiali video su gentrification, pianificazione grassroots, biodiversità, economie alternative, nuove comunità, controllo, disobbedienza sociale e proteste. Siamo lontani dalle immagini del cinema militante, quelle che detenevano l’intelligenza del movimento, anticipavano le sue scelte e traevano la loro legittimità dalla giusta interpretazione delle forme del potere. Queste nuove immagini, al contrario, si impegnano e si sottraggono allo stesso tempo, negandosi alle abitudini, alle imitazioni, alle definizioni che codificano e reificano lo spazio del politico. Lavorano come dispositivi di profanazione e rivendicano un potenziale di sperimentazione rispetto alla direzione politica o al comando. Disegnano una politica dell’immanenza, mai già data una volta per tutte ma sempre da conquistare attraverso una pragmatica dell’esperienza.
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Ma perché Disobedience è un archivio? Questo modello diviene importante proprio perché non si tratta tanto di un insieme di segni da conservare e interpretare, ma di un insieme di pratiche da raccordare, da montare tra loro in modi sempre diversi. Come registrare l’irriducibile emergenza e la singolarità dell’evento? Come tali eventi si manifestano, si concatenano e si scontrano?. Il progetto è quello di un archivio multifocale permanentemente “in corso” sulle forme della disobbedienza sociale, strutturato attorno ad una sorta di database come zona di visibilità e campo di leggibilità allo stesso tempo, come archivio documentale audio-visivo che richiede di essere de-archiviato e re-archiviato continuamente. Si tratta di un dispositivo contingente che sarebbe più opportuno chiamare “anarchivio” o archivio disobbediente. Costretto a mutare forma continuamente, Disobedience afferma l’impossibilità di una ricomposizione sociale delle nuove soggettività nelle forme classiche della modernità, negando qualsiasi istituzione che fissi i nuovi comportamenti in ruoli e funzioni predefiniti. Proprio per questo Disobedience non rinuncia a giocare con i simboli della modernità, rovesciandoli attraverso uno slittamento del senso: il Parlamento disegnato da Celine Condorelli si sovrappone al Circo di Martino Gamper, mentre Erick Beltran disegna un wallpainting sul buon governo (che naturalmente è upside down).

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Erick Beltran, wallpainting

Al Castello di Rivoli (la mostra resterà aperta fino al 30 giugno 2013) l’Archivio assume la forma di una Repubblica della moltitudine non statale, con un proprio Parlamento non rappresentativo, seggi e anticamere d’accesso.
Dopo dieci anni la mostra arriva in Italia per la prima volta e Torino è forse la città migliore in cui sarebbe potuta approdare (i primi lavori che ci accolgono partono da qui e sono quelli di Godard, Merz, Balestrini, Gilardi, Living Thatre, ecc).
Una città in cui a partire dal ‘69 tutta questa storia ha avuto inizio e, nonostante le interruzioni, non cessa di reiniziare.