Fabrizio Violante_(La visione del)La fine

E’ uscito il nuovo numero di archphoto 2.0 dedicato al tema del “Disaster”, la catastrofe. Pubblichiamo il testo scritto dal critico cinematografico Fabrizio Violante sulla rappresentazione cinematografica della catastrofe.

Inferno di cristallo

Il cinema, arte popolare e spettacolare per eccellenza, si è da sempre nutrito delle fobie finali dello spettatore, e il catalogo delle rappresentazioni catastrofiche è pressoché sterminato. Il genere catastrofico ha ben presto abitato la produzione filmica, soprattutto hollywoodiana, affermandosi definitivamente negli anni settanta, quando lo spettatore medio, ormai del tutto assuefatto alla violenza esplicita delle immagini dal fronte vietnamita diffuse dai notiziari televisivi, ha preteso al cinema rappresentazioni di disastri sempre più eclatanti. Se nelle immagini della guerra era ancora preservata la distanza di sicurezza dello spettatore tra luogo del disastro e spazio del proprio quotidiano, essendo la catastrofe circoscritta all’altrove del fronte, nel film catastrofico ogni distanza è invece annullata. In questo tipo di film, dunque, il teatro dello scontro finisce col coincidere con lo spazio urbano reale. Come nella realtà dell’attentato alle Twin Towers, la città diventa così il “qui e ora” della catastrofe, una prefigurazione della città panico descritta dal filosofo-urbanista Paul Virilio: il museo dell’incidente dove il terrorismo internazionale «minaccia ormai la sorte dell’umanità, qui o là, cioè ovunque contemporaneamente».
Lo spazio ansioso per eccellenza del film catastrofico è il grattacielo del kolossal del genere, The Towering Inferno (1974) diretto da John Guillermin e dal produttore Irwin Allen. Il film riunisce un cast stellare in una mega produzione di grande successo, per una trama a effetto messa in scena utilizzando più di cinquanta set e duecento stuntman, a riprova della sfacciata vocazione al gigantismo visuale del cinema popolare hollywoodiano. Per teatralizzare al meglio la storia di un immenso incendio che devasta il più grande grattacielo mai costruito, e il tentativo dei pompieri di salvare i trecento invitati alla festa di inaugurazione organizzata all’ultimo piano, furono ricostruiti e distrutti cinque piani dell’edificio in duplice copia e a grandezza reale.

L’inferno delle fiamme e l’evacuazione dei malcapitati visitatori durano più di due ore, durante le quali si intrecciano decine di storie private, eroismi improbabili, esplosioni, crolli e distruzioni di ogni tipo, urla e morti, ascensioni e discensioni di interminabili rampe di scale, arrampicate alpinistiche lungo vertiginosi vani ascensori e contorte condutture. Infine, il diluvio, un immenso volume d’acqua proveniente dai serbatoi collocati sul tetto che, come un Niagara impazzito, si porta via parte dei superstiti ma risolve la missione impossibile di domare la bolgia dantesca scatenata dall’incendio. Insomma un frenetico e colossale blockbuster, che invera a suo modo la crisi di una nazione fiera del proprio dominio ipertecnologico, ma al tempo stessa consapevole e spaventata dalla vulnerabilità di costruzioni sempre più azzardate.

Alla città compatta di strade buie e vicoli ciechi del vecchio noir, il film catastrofico sostituisce, così, la verticalità delle architetture di vetro e acciaio dei grattacieli, sfondo ormai familiare del cinema nordamericano, scena e bersaglio prediletto in una miriade di thriller urbani. In essi la rappresentazione di attentati, esplosioni e sciagure varie corrisponde, espandendole, alle paure e alle disfunzioni reali del pubblico e della città contemporanei. È del tutto evidente, a questo punto, che il cinema di genere hollywoodiano si offre allo spettatore medio intercettando e inscenando un sentimento di insicurezza e di timor panico che appartiene ormai completamente al suo vissuto quotidiano. Una specularità, questa tra spazio ansioso della rappresentazione e spazio urbano rappresentato, che è rintracciabile in una miriade di pellicole, che inscenano l’imprevedibilità dell’errore umano, la violenza dell’affronto terroristico o l’inevitabilità della furia degli elementi naturali. Sintomatica l’analisi di Mino Argentieri sulle pagine di «Rinascita»: « È la sagra delle messe in scena che costano miliardi e miliardi […], nel tentativo di ricondurci per mano all’infanzia dell’intelletto, a un mondo popolato di incubi incontrollabili […]. Sentiamo la precarietà di una esistenza turbata da potenti ordigni distruttivi. Il presentimento di una incombente catastrofe».

Emmerich

Immaginare e raccontare la fine è un compito che il cinema non ha più smesso di darsi, producendo visioni apocalittiche che anzi la rivoluzione digitale ha rinnovato e incentivato ulteriormente. I disaster movies che inscenano disastri assoluti, distruzioni da fine del mondo in una società, come quella in cui siamo immersi, che ha nella rimozione della fine uno dei suoi tratti più caratteristici, continuano a (ri)prodursi con successo incredibile.
Un esempio su tutti è rappresentato dal film The day after tomorrow (2004) diretto da Roland Emmerich, che racconta le conseguenze di improvvisi e repentini stravolgimenti climatici dovuti all’inquinamento e al riscaldamento globale. Piogge torrenziali devastano New York, causando un immane maremoto che sommerge Manhattan. Los Angeles viene distrutta da una serie di tornado. Lo sviluppo di un progressivo processo di glaciazione dell’emisfero settentrionale, costringe la popolazione a una biblica evacuazione dagli stati centrali verso il Messico, in cambio dell’azzeramento del debito di questo paese. Gli abitanti degli stati settentrionali, invece, non hanno più alcuna possibilità di fuga.
Gli effetti speciali surclassano ogni altra produzione precedente, la verosimiglianza delle tempeste nelle città è sbalorditiva e, nonostante l’assurdità della trama e l’ingenua semplificazione dei caratteri dei personaggi e delle vicende individuali, The day after tomorrow rimane uno dei film più visivamente spettacolari di tutti i tempi. Di fronte all’apocalisse glaciale sembra di provare realmente i brividi di freddo e “l’alba del giorno dopo” la tempesta, che avvolge di accecante chiarore lo skyline newyorkese immerso in una candida coltre di neve, è una visione raggelante nella sua realisticità.
La tematica ambientalista al centro del film di Emmerich e dei più recenti blockbusters catastrofici, è il segno di una nuova affermazione dell’immaginario della fine e del suo apparato figurale, dovuta alla sempre più diffusa paura di una crisi ecologica irreversibile. Dunque, il voyeurismo della fine (del mondo) non è altro che il modo estremo di esorcizzare la morte con la visione della morte. «La morte, che il processo di ospedalizzazione della modernità ha emarginato, allontanato dalle famiglie e dagli affetti e consegnato all’assistenza infermieristica e all’analisi della macchina», si fa ora visibile nello sguardo empatico dello spettatore cinematografico. Ma questi, sapendosi al sicuro nell’abbraccio uterino della sala, e non dinanzi alla catastrofe reale, non ha nulla da temere, esorcizzando così le sue paure.

[Fabrizio Violante]