Maria C. Peretti_Cina: metropoli e comunicazione

La Cina di oggi è nel mondo.

I risultati di vent’anni di crescita fanno della Cina un riferimento imprescindibile nel riassetto degli equilibri mondiali fortemente agitati dalla globalizzazione, ponendo fine all’isolamento ed alla marginalità vissuta da questo grande paese nei secoli precedenti.

E’ un processo che può essere descritto ed analizzato da molti punti di vista , ma che come architetti, abbiamo il dovere di analizzare più di altri, perché è proprio nell’architettura e nella città che tale processo trova la sua forma di espressione più evidente, esplicita e impressionante.
L’architettura e la città diventano luoghi privilegiati per la comunicazione del nuovo ruolo di dominio: sull’architettura e sulla città si appoggia una narrazione fatta di orgoglio per la posizione conquistata, per le vittorie conseguite.

La Cina di oggi è nel mondo e nel mondo stabilisce nuovi record: l’edificio più alto di tutti – lo Shanghai Center in corso di costruzione nel distretto di Pudong – la ferrovia a levitazione magnetica più veloce che collega l’aeroporto di Shanghai alla città e che verrà prolungata di 200 chilometri fino a Hangzhou entro il 2010– il ponte di Hangzhou che è il più lungo del mondo - e via dicendo, in una successione di primati che testimoniano di una gara in corso per la supremazia del pianeta.
Le occasioni di confronto ed ostentazione internazionale diventano momenti importantissimi per approntare grandi opere capaci di riempire di lustro la ribalta mediatica globale : alle Olimpiadi di Pechino del 2008 seguirà l’Expo di Shanghai del 2010 in una competizione tra città che pare non risentire neppure della crisi economica attuale.

La comunicazione dei progetti fa parte integrante dei progetti stessi, ne è l’anima portante : la trasformazione urbana diventa veicolo primario per costruire e rappresentare una nuova identità sia verso il mondo esterno, che verso la stessa popolazione cinese, alla quale viene riservato il ruolo di spettatrice principale, in un sistema di turismo di massa che negli ultimi quindici anni muove milioni di persone organizzate in gruppo per recarsi dalle campagne in visita ai nuovi simboli di una Cina ritrovata e reinventata. In Cina, più chiaramente che altrove, è possibile sperimentare la dimensione della massa, la sua estetica. Da questo punto di vista è significativo visitare il villaggio olimpico ad un anno di distanza dalla chiusura del trionfale evento sportivo. Le Olimpiadi hanno generato indotti positivi: le residenze degli atleti sono state vendute come case di pregio e tutto il comparto urbano circostante ha subito una forte rivalutazione immobiliare e un notevole sviluppo grazie anche alla presenza di una cospicua dotazione di verde . Il villaggio olimpico è stato costruito tra il 4° e il 5° anello di espansione della città, come prolungamento settentrionale dell’asse sud-nord lungo il quale si succedono gli episodi più significativi della forma urbis pechinese: piazza Tian An Men, col Mausoleo di Mao, la città Imperiale, la Città Proibita . L’obbiettivo di assurgere a simbolo della nuova Cina nel mondo faceva parte delle premesse progettuali.

Pagando un biglietto è ora possibile accedere sia al “water cube” che al “bird’s nest” , rispettivamente l’impianto costruito per gli sport acquatici e lo stadio per l’atletica leggera dove hanno avuto luogo anche le spettacolari cerimonie di apertura e chiusura dei giochi pechinesi.
Che queste fossero strutture destinate a diventare vere e proprie “icone” era già insito nei progetti, nelle forme allusive e spettacolari, nei nomignoli che da subito li hanno accompagnati, negli abbaglianti giochi di luce, con i quali sono stati mostrati al mondo durante lo svolgimento dei giochi e nelle immagini stampate e fotografate. Ciò che colpisce visitando ora tali impianti è la “permanenza” oltre l’evento: non più utilizzati per lo sport se non per speciali occasioni, perché la loro gestione ordinaria costerebbe troppo, svolgono un ruolo attivo come poli di un pellegrinaggio continuo di orde di visitatori, soprattutto cinesi, che attraverso mega schermi, possono rivivere le gare e le premiazioni oppure le immagini dei grandi fuochi d’artificio delle cerimonie, in un continuo perpetuarsi del fatto mitico, che costruisce identità nazionale. All’interno del grande e splendido stadio ogni turista ha con sé una macchina fotografica per immortalare lo spazio, la gente, se stesso, la Cina: nessuna fotografia può esimersi dal ritrarre altre persone che fotografano, nessuno può esimersi dall’essere contemporaneamente autore e oggetto di ritratti collettivi, parte di un popolo che si guarda e vede con orgoglio il proprio presente e futuro di primati.

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Anche il rapporto con la Cina “antica” , imperiale e laccata, appartiene in toto alla modernizzazione degli ultimi anni, alla riscoperta del valore comunicativo della storia, alla riscrittura e alla celebrazione di un’identità. La tutela degli edifici storici con oltre 100 anni di vita fa parte delle politiche urbane recenti e ultimamente si presta molta più attenzione a conservare quel poco di antico che è sopravvissuto alle cicliche ondate iconoclaste dell’ultimo secolo e all’irruente avanzata della città moderna , arrivando spesso alla sua totale ricostruzione immaginifica, come nel caso della città vecchia di Shanghai, con un approccio che a noi italiani, cultori della disciplina del restauro scientifico e conservativo, immersi nella storia fino a rimanerne soffocati, appare quanto meno “disinvolto” e “spregiudicato”.

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Di certo uno degli elementi che più colpisce la nostra sensibilità di “abitanti del paesaggio europeo” è il contrasto crudo tra la città nuova, vincente, verticale e ricca, e la città vecchia, perdente, orizzontale e povera. Tali città sono intrecciate, incuneate tra di loro in un’estetica dell’ossimoro che affascina per la sua violenza e la sua transitorietà. L’avanzata della città “multinazionale” senza storia e memoria, nel suo farsi semina cicatrici lungo tutto lo spazio pubblico di Shanghai, che è travagliato da cantieri in corso, spesso pericoloso e difficilmente percorribile , in cui le macerie appartengono all’esperienza visiva , uditiva, respiratoria, di chi transita per le strade. In questo territorio accidentato e provvisoriamente inagibile i cinesi si muovono con flussi apparentemente strani e di difficile lettura: lo spazio urbano sembra a volte disabitato, a volte abitatissimo e se il suolo respinge per la sua “inospitalità” , il sottosuolo delle nuove linee metropolitane, al contrario rigurgita maree di persone che si spostano tra un punto e l’altro dell’enorme città di venti milioni di abitanti. City users e city makers sono nelle metropoli cinesi realtà in forte tensione reciproca ed anche estetica: la povertà segna i volti e le andature degli anziani che, spesso, teneramente, i più giovani hanno l’abitudine di condurre per mano come si fa con i bambini, barcollanti, incerti sulle gambe provate da distanze difficili.
Dietro l’avanzata dell’economia multinazionale non possiamo fare a meno di immaginare le fatiche e le povertà di milioni di abitanti che si muovono disorientati dalla piena della trasformazione che travolge abitudini, luoghi e relazioni consolidate. E’ forse proprio per patinare tali travagli che la narrazione magica della supremazia cinese assume i caratteri della “propaganda necessaria”.

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All’interno dell’ enorme sforzo di comunicazione e costruzione di un’identità , sia Shanghai che Pechino esibiscono due splendidi Urban Centers , City Planning Exhibition Hall: sono luoghi di informazione e comunicazione dei processi di trasformazione in atto, in cui è possibile vedere e capire i progetti della città moderna rappresentati con notevole ricchezza di mezzi multimediali: colpiscono in particolare i grandi plastici delle due città, attorno ai quali si può camminare e cogliere le relazioni tra le parti altrimenti sfuggenti a causa delle grandi dimensioni che presentano. Anche qui visitatori in abbondanza, anche qui fotografie a non finire che ritraggono lo spettacolo della città che avanza.

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“Better city , better life” è lo slogan che accompagna l’ingente processo di trasformazione legato all’Expo di Shanghai 2010: “luce, velocità, crescita, eleganza, gente” sono le parole usate per descrivere gli obbiettivi della nuova città e se è vero che la retorica delle narrazioni di massa ci aiuta a capire aspetti fondamentali dei processi , è interessante riflettere sulle differenze esistenti tra le parole usate in questo periodo per descrivere le nostre città e i loro piani.
Luce è una parola chiave nello spettacolo della città che cresce: a Shanghai i grattacieli illuminanti inscenano rappresentazioni godibili da postazioni privilegiate come la cima del World Financial Center o la riva del fiume Huangpu dalla quale si coglie lo skyline colorato di Pudong che appartiene all’ iconografia della Cina da esportare.

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Paradossalmente lo slancio verso l’infinito dei nuovi edifici spesso deve fare i conti con una cappa di smog che accorcia gli orizzonti e li avvicina, rendendo di fatto invisibili i coronamenti degli edifici più alti e riducendo drasticamente le prospettive: la Cina fotografata spesso non ha lontananze e i primi piani sembrano uscire da una nuvola di fumo grigio che avvolge tutto. Noi italiani rimaniamo colpiti: pure se abitanti del nord industriale portiamo con noi l’idea del cielo azzurro e trasparente, dei panorami lunghi, degli orizzonti profondi. Lo smog ci fa tossire e il fatto che dai rubinetti dei grattacieli scenda acqua non potabile ci inquieta: la cultura della sostenibilità ambientale fa ormai parte del nostro bagaglio culturale, mentre qui sembra ancora qualcosa di al di là da venire. Certo che nel cielo senza compartimenti del pianeta l’inquinamento prodotto dal gigante cinese può vanificare in breve i lunghi sforzi fatti altrove per migliorare la qualità dell’aria.
Per molti versi la retorica urbana della nuova Cina sembra ripercorrere quella che ha accompagnato l’avvento del grattacielo negli Stati Uniti fino alla crisi del ‘29 e al conseguente drastico ridimensionamento dell’entusiasmo propagandistico: simile è la competizione “muscolare” tra edifici e la ricerca di record, simile la spregiudicatezza nell’uso del linguaggio architettonico e la ricerca di spettacolarità delle soluzioni. Sicuramente più bassa la qualità architettonica, la raffinatezza del disegno, il rapporto con la strada e con lo spazio pubblico che nella realtà americana ha saputo dar vita a città verticali di straordinaria bellezza come New York e Chicago. In Cina si respira aria di omologazione linguistica, di prevalenza del modello della multinazionale globalizzata che attraversa tutto il mondo con un linguaggio kitsch indifferente ai luoghi, ai paesaggi e alle culture specifiche. E se per i grattacieli di New York si può parlare di “cities within the city” per quelli di Shanghai, in molti casi, è più facile parlare di “cities against the city”.

In alcune visioni patinate dallo smog sembra di rivedere l’atmosfera inquietante di alcuni disegni della metropoli del futuro di Hugh Ferriss. In particolare ciò avviene di fronte allo spettacolo dell’edificio della CCTV, luogo deputato alla comunicazione televisiva della nuova Cina, a fianco del quale si staglia la sagoma annerita e maleodorante dell’edificio della TVCC, anch’esso progettato da OMA, bruciato nel gennaio di quest’anno da un incendio causato dai fuochi d’artificio esplosi per celebrare una delle grandi feste popolari della tradizione cinese: la sfida delle nuove geometrie stagliate contro il cielo grigio pare concretizzare la metafora di un enorme punto di domanda sul senso della metropoli e sul suo destino, compimento delle psicopatologie urbane cantate da James Ballard, illustre figlio di Shanghai e della sua solitudine.
[Maria Claudia Peretti]

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