Massimo Ilardi_Fuksas l’architetto tuttologo

Fuksas
Ad un giornalista del quotidiano on-line Petrus che gli chiedeva a chi attribuire il merito di essersi convertito al cattolicesimo, l’architetto Massimiliano Fuksas rispondeva di aver riscoperto la forza e la grandezza di questa religione attraverso Benedetto XVI. Non a caso dedicherà proprio a lui la nuova chiesa di S. Giacomo a Foligno: «Ho scelto un’architettura verticale anziché orizzontale, anche per aiutare in qualche modo il corretto svolgimento della liturgia (…) le Chiese circolari concentrano quasi tutta la visibilità sull’assemblea, mentre quelle verticali ti portano a concentrarti esclusivamente sull’altare, perché è lì che avviene il sacrificio della Santa Messa (…). Personalmente, ritengo che il rito per eccellenza sia quello tridentino, con il sacerdote di spalle ai fedeli e lo sguardo, e i cuori, rivolto ad oriente. In questo modo è impossibile stravolgere la liturgia». L’intervista si chiude in modo travolgente: «Io cerco di difendere la mia famiglia, la proteggo, tento di infonderle continuamente i cosiddetti valori non negoziabili. Ma quanta ipocrisia, anche tra i politici, sul tema della Famiglia! L’unico a parlare chiaro è rimasto il Santo Padre». Ma come, mi chiedo un po’ frastornato, non è questo lo stesso Fuksas che aveva dichiarato solennemente (Overview Magazine, aprile 2007) che l’architettura deve essere un’arte democratica che si rivolge a più moltitudine possibile, che deve ritrovare la propria dimensione popolare coinvolgendo la maggior parte delle persone nell’esistenza e nella vita degli edifici? “Caos sublime”, verrebbe da dire.

E non è sempre Massimiliano Fuksas quello che in ogni intervista non perde occasione nel denunciare i mali delle periferie, nel sottolineare che ormai la città vera sta ai margini dei grandi agglomerati urbani perché qui vivono la maggior parte degli esseri umani e, quindi, nel ribadire la funzione sociale dell’architettura che non deve essere autoreferenziale ma al servizio di tutti, e poi afferma che ciò che è importante delle città è quanto cielo si vede? «Ogni mio progetto ritaglia una porzione di cielo (…) ci sono città in cui il cielo è infinito, città in cui se ne vede meno, città in cui se ne percepisce pochissimo e città dove il cielo è occultato. Questo (…) è quello che ti dà la dimensione del rapporto con l’uomo e con lo spazio». (Area, maggio 1999). Di conseguenza, secondo Fuksas, è la quantità di cielo che si scopre che stabilisce il livello sociale di un progetto di architettura! “Caos sublime”, anche qui verrebbe da dire. Ma ancora. «Noi architetti siamo soliti pensare alla città formata da elementi costitutivi come gli edifici, le infrastrutture, i quartieri; difficilmente riusciamo a pensare prima al paesaggio (…). A volte, progettando un masterplan, ho rovesciato il metodo di urbanizzazione convenzionale, disegnando un paesaggio, in attesa che si presentasse la condizione economica favorevole alla costruzione». (Arte e critica, 2008). Ma a cosa serve parlare di paesaggio quando si annuncia di voler prestare attenzione alle periferie urbane? Esiste una distinzione forte tra paesaggio e territorio. Non è solo una questione nominalistica, è una questione che riguarda i rapporti politici e soprattutto quella società continuamente nominata da Fuksas. Che esista il territorio non è affatto scontato come l’esistenza del paesaggio. Il territorio non è la natura, non riguarda l’estetica, non è un patrimonio fisico e culturale da tutelare perché costruito in un lungo periodo, e non fa nemmeno da scena spettacolare per il turismo.

Nella società del consumo dove valori, ideologie e attese di un futuro migliore sono crollati, il territorio diventa la proiezione immediata dei desideri non di una generica umanità ma degli individui, delle minoranze, dei gruppi che lo attraversano e lo trasformano in conflitto allo stato puro. Ora, se è vero che il dibattito sul paesaggio ha sostituito la discussione sul rapporto tra progetto e contesto che è stata centrale nella modernità, non è altrettanto vero che le cause di questa sostituzione siano incerte o poco chiare. Al contrario: questo accade proprio perché mentre il territorio si rende spazialmente visibile attraverso il conflitto, il paesaggio appare più adatto a poter coniugare efficacemente la questione del contesto al bisogno di spettacolarizzazione che il mercato richiede. E soprattutto perché permette l’estetizzazzione del politico attraverso la ricerca dell’equilibrio, dell’armonia, della coesistenza degli elementi.

La città dentro il paesaggio è appunto il sogno da realizzare. D’altra parte, da bravo “archistar” quale è, quello che preme a Massimiliano Fuksas è proprio il mantenimento pacifico dello status quo. Ma Fuksas va oltre il cinismo di Rem Koolhaas: non lo attira la teoria, non cerca come l’architetto olandese di dare dignità teorica alla subalternità del progetto di architettura al mercato, bensì si sostituisce ad esso, nel senso che il suo personaggio si sta definitivamente imponendo rispetto alla sua opera. Lo troviamo a parlare di tutto e dappertutto: dalla pubblicità alla politica, dalla religione al intrattenimento.
Quello che interessa ai media non sono i suoi progetti ma le sue opinioni e le sue idee: lui le comunica, le racconta per raccontarle al mondo. Parole e idee in libertà. Se ciò che affascina oggi sono l’innovazione e la creatività e non il sapere, allora anche le sue opere devono sposare l’eclettismo più esasperato senza alcuna linea o tema di ricerca né in termini architettonicospaziali né in termini compositivi. Se osserviamo, ad esempio, il progetto della Fiera di Milano e quello della Chiesa di S.Giacomo a Foligno scopriamo che sono entrambi delle ottime soluzioni ma lontani tra loro anni luce dal punto di vista stilistico, linguistico e architettonico, e soprattutto sono prive di un legame, di un filo conduttore che nega all’architetto la creazione di una identità personale o, meglio, di una riconoscibilità che ritroviamo invece nelle ricerche di Herzog e de Meuron, Rem Koolhaas, Jean Nouvel, Zaha Hadid. E questo perché ciò che le opere devono scatenare è il “caos sublime” delle emozioni. La forma, dice infatti Fuksas, deve adeguarsi non a una teoria critica ma alle emozioni che sono una risorsa illimitata dotata di una forza illimitata: «Le costrizioni sono sempre autocostrizioni. La prima censura non è imposta dagli altri, ma da noi stessi. Ciò è terribile, perché disabitua le persone a sognare, ad immaginare, ad avere delle visioni (…) Credo in fondo che la nostra libertà, se di libertà si tratta, non sia mai limitata». (Overview Magazine, aprile 2007). In questa presa di posizione si riconosce veramente un ardente neoromantico. E, infatti, cosa c’è di più romantico di porre al centro della vita la categoria della “possibilità”, e dunque della felice accettazione di un mondo fatto di et-et e non di aut-aut? Il romantico, che in realtà non ha alcun interesse di cambiare il mondo, afferma Carl Schmitt, lo accetta per buono così com’è, purché non turbi le sue illusioni. Allora qualsiasi avvenimento, anche il più grande, è per il romantico equivalente: diviene più interessante solo quando si trasforma in pretesto per una sua esperienza sentimentale ed estetica. «I fatti della vita religiosa, morale, politica e scientifica – seguita Schmitt - si drappeggiano in panni fantastici e vengono trattati dai romantici (…) soltanto come pretesti per la loro produttività artistica o critica. In questo ambito puramente estetico, non sono possibili né decisioni religiose, morali o politiche, né concettualizzazzioni scientifiche; al contrario, tutte le distinzioni e le opposizioni oggettive (…) vengono trasformate in contrasti estetici e in intrighi romanzeschi, e ridotte ad esplicitare la loro attività all’interno di un’opera d’arte».

[Massimo Ilardi]

articolo scritto per il quotidiano Liberazione del 21-8-08