Nicola Marzot_Shigeru Ban

La cultura del progetto si rinnova attraverso il concorso di molteplici fattori, reciprocamente correlati secondo un procedimento non lineare per prove ed errori. La componente innovativa, tanto nei processi quanto nei prodotti risultanti, è spesso l’effetto imprevisto di un metodo di lavoro rigoroso, perseguito moltiplicando le opportunità di interscambio tra discipline specialistiche secondo una logica a ” rete”. L’opera di Shigeru Ban costituisce in tal senso una singolare testimonianza di pratica “orizzontale”, programmaticamente a-gerarchica, nella quale sollecitazioni del contesto, tecnologie ad alto valore aggiunto, ruolo della tradizione e sperimentazione sui materiali stemperano la propria individualità in funzione di un “testo” che serba traccia delle relative implicazioni, cristallizzandone l’ordine implicito.

Il rapporto con l’architettura giapponese tradizionale

Per quanto la formazione di Ban sia fortemente segnata dagli studi intrapresi a New York presso la Cooper Union e, in particolare, dal fascino esercitato dalle manipolazioni formali di matrice diagrammatica sul tema del diaframma e del traliccio condotte da John Hejduk, Peter Eisenman e Richard Meier dei Five Architects, le prime installazioni rivelano l’influenza della sperimentazione sui materiali poveri della tradizione giapponese - legno, carta e bamboo - maturata durante il periodo trascorso alla Ochanomizu School of Fine Art di Tokyo. Nell’esposizione del 1985 alla Axis Gallery di Tokyo, dedicata all’opera di Emilio Ambasz, Ban riduce il sistema delle partizioni interne a una libera disposizione di sipari in tessuto montati su telai lignei reciprocamente incernierati, che reinterpreta la tradizione giapponese degli sh¯oji, ovvero dei pannelli leggeri in carta traslucida parzialmente scorrevoli utilizzati nell’abitazione per suddividere gli ambienti e graduarne la permeabilità.

La materia prima viene consegnata in cantiere avvolta in tubi di cartone che Ban si ripropone di utilizzare in futuro, senza averne ancora compreso le possibilità d’impiego. L’anno successivo l’esposizione al Museum of Modern Art di New York dedicata ai mobili e ai prodotti in vetro di Alvar Aalto inaugura ufficialmente la stagione dell’architettura in cartone. Restrizioni di budget non consentono l’utilizzo del legno quale soluzione ideale per rappresentare il lavoro del maestro. La prospettiva di un mancato recupero del materiale, giudicata eticamente inappropriata, congiuntamente alla ricerca di un basso costo unitario, suggeriscono a Ban l’adozione dei tubi di cartone riciclato utilizzati nell’industria del packaging.

I tubi possono essere prodotti in qualunque formato, diametro e spessore e sono assimilabili, per caratteristiche meccaniche e morfologiche, al bamboo. Il ricorso a un materiale sconosciuto, declinato attraverso una tecnologia tradizionale, produce un elegante sistema di partizioni mobili, controsoffitti, rivestimenti parietali e dispositivi di supporto degli oggetti in mostra che sono contemporaneamente un’elegante citazione di soluzioni ricorrenti nell’opera di Aalto e un’innovativa traduzione di quel concetto di “tessuto”, identificato da Gottfried Semper in Der Stil come archetipo della tettonica, che Ban svilupperà nel suo manifesto, il Japan Pavillion all’Expo di Hannover del 2000. L’invenzione si esplicita nell’attribuzione di un senso inedito a un materiale esistente, ricorrendo a una cultura del “saper fare” profondamente radicata nella storia.

Morfogenesi e procedimento creativo

Nel 1988 Ban propone un’architettura in cartone per l’Asia Club Pavillion, da realizzarsi in occasione dell’esposizione di Hiroshima del 1989. La soluzione low-tech, in polemica antitesi alla cultura high-tech preponderante in circostanze analoghe, viene rifiutata per mancanza di test circa l’uso del cartone quale materiale da costruzione. L’incontro con Gengo Matsui, raffinato calcolatore di strutture in legno e bamboo, e la fertile collaborazione che ne consegue, portano alla realizzazione dell’Odawara Pavillion and Gate (1990), della Casa del Poeta (1991), della Paper Gallery (1994) e della Paper House (1995). La struttura in tubi di cartone messa a punto per quest’ultimo manufatto è la prima a essere approvata dal Ministero delle costruzioni giapponese per un edificio permanente e recepita nella Building Standard Law.

Si tratta di opere che, nel rispetto di una riconosciuta individualità e originalità, risentono tuttavia di una più ampia riflessione critica sull’archetipo spaziale dell’aula (che ne costituisce l’origine ed il fondamento generativo), sapientemente declinato attraverso soluzioni strutturali che ne ampliano il significato storico, innovandone le parti costitutive, nel tentativo di ristabilire un’ideale continuità tra lo spazio fluido dell’architettura tradizionale giapponese e lo “spazio universale” di Mies van der Rohe. I tubi di cartone vengono così indistintamente utilizzati come sistema di partizione libero da responsabilità statiche, che mette in relazione ambienti interni ed esterni; come pilastri e travi reticolari Vierendeel per la realizzazione di grandi ambienti coperti ed aperti; come sistema portante verticale capace di identificare la resistenza di un nucleo circoscritto e rappreso nella dimensione orizzontale infinita del plan libre.

Il ruolo sociale dell’architetto: architetture temporanee per l’emergenza

La sperimentazione sulle tecniche di montaggio a secco con materiali a basso costo facilmente reimpiegabili, proiettata sullo sfondo delle responsabilità collettive in materia di sostenibilità ambientale e di standardizzazione edilizia per una produzione al servizio di una società di massa, trovano un fertile campo di applicazione nelle situazioni di emergenza conseguenti a calamità naturali e conflitti. A seguito della guerra civile esplosa in Ruanda nel 1994, che produce due milioni di senza tetto, Ban viene incaricato di studiare un prototipo di ricovero temporaneo dall’Alto commissariato per i rifugiati dell’ONU (UNHCR). Il sistema strutturale in tubi di cartone riciclato garantisce rapidità ed efficacia di assemblaggio a costo limitato, e la decisione di produrre in situ i tubi riduce drasticamente le spese di trasporto.

Nel 1998 vengono realizzate 50 abitazioni e avviata la fase di monitoraggio in condizioni d’esercizio a regime. La stessa istituzione internazionale commissiona nel 1995 a Ban un’abitazione temporanea per le vittime del terremoto di Hanshin, vicino a Kobe. Il prototipo monocellulare si basa sul principio dell’autocostruzione e, in aggiunta alla richiesta di facile dismissione e di riutilizzo dei materiali e delle parti componenti, deve garantire un’adeguata resistenza alle forti escursioni termiche estive ed invernali della regione. L’architetto partecipa con i suoi studenti in qualità di volontario alla costruzione del campo profughi.

Il rapporto con il mondo della produzione industriale

La ricerca di Shigeru Ban è chiaramente orientata allo sviluppo di materiali low-tech, capaci di riprodurre artificialmente condizioni assimilabili al comportamento della materia naturale. Ciò determina una sostanziale identificazione tra ciclo produttivo e ciclo di vita dell’architettura. Pertanto costruzione, demolizione e recupero vengono identificati come stadi differenti ma complementari dell’essere del manufatto. Nel caso della “paper tube structure” si può parlare di una cultura del progetto che è il risultato di una sintesi a cui tende costantemente la dialettica tra intenzioni e strumenti critici a disposizione del progettista e vocazioni e caratteristiche proprie della materia, entrambe indirizzate ai bisogni della società contemporanea. Il continuo scambio di informazioni, per quanto finalizzato alla produzione industriale, si sviluppa pertanto nei modi di un approccio artigianale al progetto che integra sperimentazione su modelli, applicazioni parziali in scala reale con tecniche CAD CAM e test di verifica meccanica in laboratorio.

Quando Ban entra per la prima volta in contatto con la Sonoco Europe, leader mondiale della produzione di tubi in cartone riciclato, questo materiale viene impiegato unicamente nel packaging. Dieci anni di stretta collaborazione sono necessari per mettere a punto un prodotto in grado di superare i testi richiesti dal Ministero delle costruzioni giapponese per un edificio permanente. I prototipi per ricoveri temporanei in situazioni di emergenza commissionati dall’UNHCR sono realizzati congiuntamente con Win van de Camp, direttore tecnico della Sonoco Europe.

Sviluppi recenti della ricerca di Ban

Per quanto l’enfasi sia posta sulla singolarità dei materiali impiegati, l’indagine di Ban è sempre centrata sullo spazio architettonico e le sue possibilità d’impiego, alla cui definizione è subordinata la soluzione dei dettagli. La vittoria nel concorso internazionale del Centre Pompidou di Metz costringe Ban a ricercare una sede temporanea a Parigi per lo sviluppo esecutivo del progetto. Restrizioni di budget motivano la singolare richiesta a Bruno Racine, direttore della sede parigina, di occupare temporaneamente parte della terrazza posta al sesto livello, a condizione che l’edificio possa essere visitato durante la fase di esercizio e, una volta smontato, venga donato al centro stesso. La soluzione strutturale messa a punto da Minoru Tezuka, responsabile di tutte le realizzazioni giapponesi, in collaborazione con Peter Rice, rielabora l’esperienza della Paper Dome (1998), in cui l’ambiente voltato è risolto attraverso una piastra curvata fatta di tubi di cartone giuntati mediante nodi in legno lamellare sagomato. La struttura è irrigidita attraverso il concorso di una superficie di compensato e controventata con tiranti d’acciaio. L’assemblaggio dell’ufficio viene simulato all’interno del laboratorio di progettazione di Ban alla Keio University a Tokyo, e realizzato direttamente in situ dagli studenti tra l’agosto e il novembre 2004.

La Nomadic Paper Dome, concepita come sede itinerante della compagnia di mimo di Jeannette van Steen, viene realizzata nell’estate del 2003 nell’area desertica di Yburg, un sistema di isole artificiali di prossima urbanizzazione vicino ad Amsterdam, per essere trasferita l’anno successivo nei pressi di Utrecht, in una zona di rigogliosa campagna. Il carattere temporaneo della commessa, la facilità di assemblaggio e smontaggio dei componenti, assimilabile a un kit di costruzione, e il ricorso a materiali riciclabili sono i vincoli di progetto che promuovono il ricorso ai tubi di cartone. Il brevetto, come ammette lo stesso Ban, deriva da una rielaborazione fuori scala della yurt, il ricovero archetipo utilizzato dalle popolazioni nomadi dell’Asia. La scelta della configurazione geodetica è tuttavia un evidente tributo alla poetica di Buckminster Fuller. Si tratta di un quarto di icosaedro a frequenza 10 che, per complessità e densità della texture, risulta assimilabile a una superficie sferica ottenuta attraverso un sistema di aste e nodi senza dover piegare alcun tubo di cartone. Un ulteriore aspetto innovativo riguarda il pretensionamento degli stessi tubi mediante l’inserimento di barre filettate.

Il Nomadic Museum completato a New York nel maggio 2005 per la mostra itinerante “Ashes and Snow” del fotografo Gregory Colbert, realizzato sul sedime di un molo storico del porto, ripropone invece l’archetipo dell’aula, declinato attraverso un convenzionale impianto basilicale timpanato a tre navate, con pilastri verticali che reggono un sistema di capriate. I puntoni sono realizzati in tubi di cartone e le catene in tiranti d’acciaio, mentre le pareti laterali derivano dall’assemblaggio di container industriali.

Il Japan Pavillion di Hannover: processo di brevetto e test sui materiali

Ogni applicazione della “paper tube structure” comporta un brevetto specifico. In questo senso è paradigmatica la vicenda del Japan Pavillion. L’inedita scala dell’intervento ha richiesto specifiche analisi statiche. Ban ottiene la collaborazione di Frei Otto e dello studio inglese Buro Happold, mentre la Sonoco Europe studia i componenti. Il tema dell’Expo, lo sviluppo sostenibile, suggerisce la massima riduzione dei prodotti di scarto e il recupero dei materiali impiegati. Il modello di riferimento è il Paper Dome. Per contenere l’elevata incidenza del costo dei giunti rispetto a quello dei tubi, Ban propone a Otto di sfruttare le potenzialità di elementi senza limiti di lunghezza. La struttura viene così concepita come un “tessuto” autoportante a orditura incrociata in diagonale, tale che i singoli “filamenti” in cartone, piegati a sezioni d’arco variabili, possano coprire lo spazio contrastando le forti spinte laterali indotte dai carichi. La soluzione viene testata su un modello a scala 1:15 e attraverso simulazioni in ambiente virtuale per definire la dimensione dei componenti.

Il ricorso al modello permette di studiare la messa in opera del “tessuto” attraverso un procedimento innovativo. Un sistema coordinato di martinetti rampanti, posto in corrispondenza delle intersezioni dell’orditura, le solleva in percentuale variabile per quote giornaliere prestabilite. I giunti vengono realizzati con legature in tessuto e fasciature metalliche. Solo a ottenimento del profilo stabilito si fissa l’ancoraggio al suolo. La trama risultante “a onda” è irrigidita attraverso un sistema di archi reticolari e di travi incrociate in legno, volute da Otto, che fungono da supporto per le membrane di copertura. Le prove dei materiali a compressione comportano l’aumento delle sezioni controventanti mentre l’inserimento di cavi di acciaio collaboranti ai filamenti in cartone, determinato dall’assimilazione del padiglione a un edificio permanente, riduce la purezza della soluzione strutturale originaria. Le prove di resistenza all’acqua e al fuoco dei tubi comportano una lunga serie di affinamenti, voluti dall’autorità municipale di Hannover preposta al controllo dell’opera.
[Nicola Marzot]

www.shigerubanarchitects.com

Si ringrazia la rivista Rassegna e l’editore Compositori per aver concesso il diritto alla pubblicazione del testo.

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