Alessandro Bianchi_Il mediterraneo arabo nella Spagna contemporanea


Alhambra_Granada fotografia di Linda Spada
Alhambra_Granada fotografia di Linda Spada
Alhambra_Granada fotografia di Linda Spada
Corrida_ fotografia di Linda Spada
Impianto eolico_fotografia di Linda Spada
Piazza_fotografia di Linda Spada

Partiamo dal luogo delle meraviglie: la Sala del Trono all’interno dell’Alhambra di Granada. L’ottica araba qui ha la sua applicazione più piena: fuori il sole, dentro una luce a macchie - che ricorda le pergole di Silvestro Lega - bagna con il filtro di gocce di aurorale rugiada delle pareti che sembrano i broccati degli abiti del Bronzino. Che bellezza! Che passione! Che immensità.

Lì dentro c’è il mondo in una sintesi perfetta, c’è una grazia che ti fa scordare che possa esistere qualcos’altro, senz’altro più brutto. E il brutto, di cui oggi siamo avvolti da mane a sera, e anche nottetempo, travestito di cosmetica bellezza pubblicitaria, lì dentro non c’è più, neanche dentro di noi, sparisce dalla memoria: moralmente non ha più nessun diritto su di noi. In questo luogo di tenerezze gli occhi si possono spostare con profitto di pochi centimetri, e ancora di pochi, e ruotare a destra, a sinistra trovando sempre sollievo, sempre indicibile morale bellezza.

Gli arabeschi di cui sono delicatamente scolpiti i muri non sono bassorilievi, ma una vera e propria pelle tratteggiata da nervi e cartilagini, ossicine e vene che nervosamente affiorano dalla diafanicità di carni di donna settecentesca. E la penombra in cui tutto è avvolto appare luce piena, la luce di Allah, di cui ogni tratto di quei muri dimostra la grandezza: essì, Allah è davvero grande. Muri così cesellati riportano la mente a quelli bicromatici della Chiesa di San Miniato al Monte a Firenze, a destra e a sinistra della salita all’altare: la luce non è la stessa, il senso si.

Gli Spagnoli di oggi, quelli di un Paese produttivo ed energico, non hanno dimenticato questa lezione di architettura, e sembra che la vivano con una serenità che spesso manca a noi Italiani: non hanno un complesso riverenziale per i beni ambientali, sanno essere moderni e spregiudicati con una leggerezza che ricorda le trame delle finestre/diaframmi delle architetture moresche.

La città meridionale spagnola è bianca (Malaga, Granada, Siviglia), come quasi tutte le città che si affacciano sul Mediterraneo, dall’Europa all’Africa. Quelle europee però - in genere - sono a fondazione romana o medievale, e rispecchiano lo schema a scacchiera, anche quando sono concentriche come Milano, mentre le città andaluse - si sa - risentono fortemente della composizione a “cervello” di origine araba, e a tratti è possibile ancora riconoscere la tipologia del Suk, quale mercato ibrido fra Oriente ed Occidente.

Difficilissimo orientarsi per chi è abituato alle città del cardo e decumano, sono ideali per perdersi come amava fare Walter Benjamin. Così è, anche per un architetto abituato ad avere sempre ragione sulle cartine turistiche e sulle relative strade da prendersi. Città che sono al riscatto economico da una lunga stagione prettamente rurale ma che non dimenticano magnifiche tradizioni come quelle delle corride: non spettacoli, ma vere e proprie celebrazioni iberiche della tragedia greca, in cui la morte, cagionata da una messa in scena delle opposte forze dell’Uomo e della Natura, è rispettata più d’ogni cosa.

La città andalusa è familiare ad un italiano, non per ragioni geometriche, ma per questioni sentimentali: si sentono e si vivono le stesse cose che siamo abituati a trovare in Italia, la stessa domesticità di città fatte di tanti microcosmi. Scrive Giacomo Leopardi in una lettera al fratello Carlo nel 1822: “L’uomo non può assolutamente vivere in una grande sfera, perché la sua forza o facoltà di rapporto è limitata. […] L’unica maniera di poter vivere in una città grande, e che tutti, presto o tardi, sono obbligati a tenere, è quella di farsi una piccola sfera di rapporti […] Vale a dire fabbricarsi dintorno come una piccola città, dentro la grande […]”. I rapporti che si vivono nella città grande spagnola sono simili a quelli paesani, anche se lo sviluppo e la cultura sono quelli alti di una capitale d’altri tempi.

Mentre siamo a Granada fa visita alla locale Università il maggiore filosofo contemporaneo spagnolo, Fernando Savater, che rappresenta l’omologa figura iberica del nostro Umberto Eco, con un intervento titolato “La búsqueda de la verdad”: forse è la verità che oggi un po’ ci manca, e un architetto la deve cercare tra i muri della città anche se necessità maggiori ci spingerebbero a parlare d’altro. Così ha fatto Nanni Moretti costruendo un film su Berlusconi, anche se ama constatare nel film “Il Caimano” che ha altri progetti in mente, forse una commedia, perché “è sempre il tempo per una commedia”. Sensibilità vuole che “ubi maior minor cessat”, ma così vien meno il sacrificio quotidiano della ricerca della verità laddove siamo esperti e non solo dilettanti.

Non è facile parlare di architettura nell’epoca dell’opinabilità di ogni linguaggio, della necessità di tirare linee storte perché quelle dritte annoiano i bulimici di sensazioni: c’è invece chi si annoia - come il sottoscritto - a tirare arbitrarie linee storte a soddisfazione di palati involgariti da ketchup e maionese. Essì, proprio così, l’arbitrarietà è diventata cultura: “a me piace così” è locuzione sufficiente all’esistenza di una posizione culturale. E le pezze d’appoggio dove stanno? La cultura dove sta?

Spagna, Spagna, e ancora Spagna lungo i tragitti che uniscono le varie città: il paesaggio ricorda quello descritto da Cervantes nel Don Chisciotte, i grandi e magnifici ventilatori per la produzione di energia eolica tra Cadiz e Tarifa, i suoi mulini a vento. Sembra di rivedere il suo battagliare, sembra di sentirlo recriminare contro tutti i mali del mondo, con suo unico conforto la finale ricompensa della sua bella Dulcinea del Toboso. Ogni tanto, in questo paesaggio non oltraggiato da una edificazione a spalmata di nutella, campeggia una nera gigantografia taurina a ricordo della terra Andalusa.

Il paragone è peregrino, lo riconosco, ma sembra che il toro stia all’Andalusia come la bandiera a stelle e striscie sta al paesaggio nordamericano: lo dico senza nessuna ironia, anzi forse con una certa drammaticità nazionalistica. In questo senso ovunque cerchiamo l’accoppiata tra la bandiera spagnola e quella blu stellata europea, per sentirci veramente Europei e non soltanto per dircelo addosso.

Siviglia. Partiamo da due aree di bordo del centro storico: la zona dell’ Exposición Universal del 1992, a nord, al di là del Guadalquivir, e quella per l’Exposicion IberoAmericana del 1929, a sud. L’arpa di Calatrava - che lui ha immaginato come profilo di cavallo, ma credo ce lo veda solo lui - è un ponte non troppo aggraziato anche perché il colossale puntone è forse, appunto, troppo colossale… un po’ come reggersi i pantaloni con una gru piuttosto che con le stracche. Se formalmente è così, funzionalmente è molto ben congeniato, con il passaggio pedonale centrale rialzato e le due carreggiate a destra e a sinistra che si inarcano nella fase finale.

L’area propriamente destinata all’Expò oggi sembra abbandonata al suo destino di post-esposizione, con i padiglioni trasformati in sedi di aziende e istituzioni. Un albergo, un teatro, la sede di una televisione: ma non c’è vita, non c’è genius loci. Il mancato carattere è quello tipico di ogni insediamento “around the world” nato per un avvenimento temporaneo; sarà il tempo a definire gli equilibri e la vocazione di questo pezzo di nuova città, troppo nuova per averne ancora uno.

Dall’altra parte della città la bellissima Plaza de España, questo grandioso emiciclo di mattoni rossi punteggiato da ceramiche colorate con i motivi tradizionali della cultura Andalusa. Un luogo di grande serenità in cui si ritrova la tenerezza della Sala del Trono dell’Alhambra, ma en plein air: la vista è appagata secondo ogni prospettiva, ed è un sollievo trovare ristoro nella penombra delle arcate dell’emiciclo. Poco più in là, nell’immersione di un verde ricco, i padiglioni oggi destinati a museo archeologico e dei costumi locali.

Il centro storico di Siviglia, la ciudad più rappresentativa del meridione spagnolo, è fatto di stretti vicoli che si inarcano uno sull’altro e che sbucano all’improvviso davanti ai monumenti: una chiesa (per esempio la Catedral), una reggia (Alcázar) il palazzo del potere autoritario oggi civile. Qui la città non è mai moderna, è sempre conservata com’era e dov’era: come in Italia, non come in Germania e nel Regno Unito, immobile nella sua bellezza nostalgica. Perfetta per una vacanza: lo sarà anche per chi vi abita e lavora? Anche se il paragone è paradossale - ma la cosa non mi sconvolge - ricordo con stupore la città di Chicago, una megalopoli che si irradia dal suo Loop di fondazione ottocentesca. Ovviamente una città che non ha storia, se non recente, è aperta ai cambiamenti, perché quei cambiamenti stanno dando origine a quella storia che si racconterà fra qualche centinaio di anni quando anche Chicago avrà qualcosa da conservare, proprietà della memoria collettiva.

Ebbene la modernità di quella città è tutta energica e pluridirezionale: la voglia di espansione non ha tensioni sociali e riqualificative del degrado assordante, ma credo esclusivamente quantitativa, per dirsi più grande di altre città… è il mito americano della grandezza e dell’altezza. La città di Frank Lloyd Wright, americano, è stata maggiormente influenzata dai caratteri stilistici di uno straniero, Mies van der Rohe, che ha imposto le sue nere verticali geometrie alle orizzontali e riposanti linee di mattoni del maestro americano.

Non andate a Gibraltar, la colonna d’Ercole sulla costa della vecchia Europa: che c’entra un pezzo di Old England sotto il sole che a due passi è già africano? Venendo dalle affollate città spagnole, qui troviamo l’assenza: sembra di stare in una San Marino senza turisti, in un enclave fuori dal tempo, minoranze comprese. Gli Inglesi in India si sono fatti Indiani, qui sembrano rimasti tutti puritani.

Oggi la Spagna è una delle nazioni più vive culturalmente: lo dimostra anche la recente premiazione di “Volver” di Pedro Almodovar al Festival di Cannes. E’ il Paese che ha vissuto l’ultima delle dittature dell’Europa occidentale, l’unico di questa a non avere avuto il ‘68. Ora, a distanza di trent’anni dalla fine di Franco, sta raggiungendo la sua maturità culturale ed economica: non è una Nazione stanca come Francia, Regno Unito, Germania e Italia, anzi, ha voglia di vivere e di crescere. Diamole spazio! Perché l’Europa riparta da lì, tra Mediterraneo e mondo arabo: non possiamo non dialogare.

[Alessandro Bianchi]

(Fotografie di Linda Spada)

Alessandro Bianchi, architetto e Dottore di Ricerca, è Docente presso la Facoltà di Architettura e Società del Politecnico di Milano dal 2001, e Ricercatore di ruolo nel Dipartimento di Architettura e Pianificazione (DAP) dal 2005. Ha conseguito la Laurea nel 1996 e il Dottorato nel 2001, presso l’Università di Firenze. Dal 2000 al 2005 ha insegnato anche all’Istituto Europeo di Design, sede di Milano.

Dopo aver svolto attività professionale e di ricerca (dal 1988 al 1998) nelle province di Pesaro, Rimini e Firenze, nel 1999 si trasferisce a Milano dove apre lo studio [abianchi :architecture+design].
Nel 2004 fonda lo studio associato [bianchipirollo:architecture+design] con Andrea Pirollo, dove lavora attualmente occupandosi di recupero di edifici, interior design, e progetti di concorso nazionali e internazionali.

Si interessa inoltre, fra pratica e teoria, delle relazioni fra disegno e progetto e dei risvolti simbolici dell’opera architettonica sulla società. È autore di numerosi articoli e libri tra i quali si ricorda: “La città riconoscibile” (Raffaelli Editore, Rimini 1999, vincitore del Premio internazionale “Nuove Lettere” 2003); “Building by Signs/Costruire per Segni: disegno, memoria, progetto” (Editrice Librerie Dedalo, Roma 2003); “Architettura linee e controlinee” (Angelo Pontecorboli editore, fierenze 2005, vincitore del Premio internazionale “Nuove Lettere” 2006). E’ stato presidente della sede di Firenze (anni 1999-2000) dell’Associazione Dottori e Dottorandi di Ricerca Italiani (ADI).

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